domenica 20 agosto 2017

Ridicolo dire “non abbiamo paura” se non sappiamo inventarci reazioni più virili, siamo fregati







Penso di non essere il solo ad averne piene le tasche dei buonismi e del politicamente corretto alla Boldrini e C. secondo i quali la stragrande maggioranza dei musulmani da noi sarebbero “moderati” e quindi buoni e che i terroristi assatanati non c’entrerebbero nulla con la religione che professano.
Ma non è perché sono diventato razzista o fascista, ma semplicemente l’assunto sopra riportato costituisce un inganno micidiale, in quanto se è vero che la gran parte dei musulmani da noi magari non vanno nemmeno in moschea, sono tiepidi e non sono determinati a uccidersi per ucciderci,

tuttavia sarebbe ora di dire chiaro e tondo che col cavolo la loro è una religione di pace, e col cavolo vengano loro trasmesse dottrine in contrasto con quelle che hanno “radicalizzato” i Jihadisti.
Chi per esempio c’ha messo i soldi per costruire la grande moschea di Roma con annesso centro islamico,universalmente indicato come il campione dell’Islam moderato in Italia?
Non è delle volte quell’Arabia Saudita che proclama come religione di stato l’Islam Wahabita che ha prodotto Bin Laden e seguaci fino al sedicente Califfo Al Bagdadi ed all’attuale “califfato virtuale” dato che Al Bagdadi è dato per morto?
Chi ci mette i soldi per tenere in piede la rete probabilmente maggioritaria in Italia di islamici affiliati ai “Fratelli musulmani”?
Non sarà mica quel Quatar, che i fratelli coltelli sauditi stanno ora ricoprendo delle ingiurie più pesanti, perché ne temono la concorrenza, tirandosi dietro quel penoso presidente americano,
che non sa neanche più come si chiama?
Fortunatamente se ci sono i buonisti a prescindere, ci sono anche coloro che sanno di cosa parlano quando trattano di Islam e di Isis.
Inutile dire che mi ha fatto godere l’intervista al notissimo giornalista e scrittore spagnolo Perez Reverte, quando questi, che il Medio Oriente se lo è fatto tutto come corrispondente per anni e anni
dichiara apertamente di essersi convinto che l’Islam è culturalmente incompatibile con la democrazia e che da qui bisogna partire quando si parla di accoglienza.

Reverte dice che degli immigrati abbiamo e avremo bisogno per ragioni demografiche, ma che la loro permanenza è subordinata all’accettazione dimostrata dei nostri principi, usi, cultura, diversamente fuori.
Lo stesso scrittore porta una sua esperienza interessante maturata nell’Iran di Komeini, dove la maggioranza della gente gli risultava sì “moderata”, ma del tutto incapace di tenere la posizione, quando nel loro ambiente entrava un integralista, perché da quel momento in poi , quei moderati non volevano rischiare di apparire all’esterno come “meno buoni musulmani” dell’integralista.
Questo atteggiamento di “inferiorità” verso l’Islam integralista è la cartina di tornasole, perché dimostra che la base culturale-teologica anche in campo presunto “moderato” in realtà è oscurantista-tradizionalista, e cioè moderati e integralisti in realtà condividono gli stessi principi teologici di fondo, perché storicamente a differenza dei cristiani i musulmani non hanno mai sostenuto la necessità di rileggere il Corano con una analisi critica facendo una adeguata esegesi.
Facciamo una riflessione storica sulla nostra evoluzione di cristiani dal tempo delle crociate e dell’inquisizione ad oggi.

Ci abbiamo messo secoli e una marea di morti ammazzati spesso orribilmente per toglierci dalla testa quelle idiozie che ci venivano propinate come verità di fede.
Non sarà né semplice né facile l’evoluzione degli islamici verso la modernità , il pensiero critico e il concetto di laicità dello stato.
Evitiamo però di scivolare indietro noi e questo lo facciamo quando qualcuno di noi pretende che ci auto-censuriamo “per non offendere gli islamici” e finiamo per accettare più o meno tacitamente che costoro proclamino e mettano in atto pratiche medioevali, che invece dovrebbero trovare una nostra aperta e immediata reazione contraria.
E qui entriamo in un discorso più delicato e sofisticato.
Perchè è abbastanza facile dire che per difenderci dovremmo prima di tutto sbattere fuori chi viene sorpreso a esaltare l’Isis o peggio a preparare attentati.

Allo stesso modo e per le stesse ovvie ragioni è facile dire che occorre al più presto che i singoli Paesi e meglio l’Europa nel suo insieme stabiliscano di schedare ,catturare e tenere al fresco i “forein fightersche inevitabilmente torneranno in Europa dopo avere compiuto infinite efferatezze in Iraq, Siria, Nigeria eccetera.
Magari quando si arriverà al dunque, i buonisti faranno dei bei cortei chiedendo la “rieducazione” dei foreign feighters da tenersi a piede libero, ma spero che non saremo tanto idioti e codardi da dare loro retta.
Più difficile è affrontare il discorso degli islamici divenuti cittadini italiani, che per usare il lessico di ordinanza “si radicalizzano”.
Francamente trovo un po’ scemo questo modo di parlare perché, come appare da quanto si è detto sopra,sono convinto che la differenza fra l’Islam radicale e quello “normale” “moderato” sia estremamente tenue.
Questo non significa dire che tutti i musulmani sono terroristi, ma solo che se le basi culturali e teologiche degli uni sono le stesse degli altri il passaggio da fare fra i due settori è breve e temo sia concepito dal di dentro come quello fra “credenti” tiepidi o poco osservanti a credenti osservanti al grado più elevato, fino al martirio.
Come si vede anche se restiamo solo sul piano dell’analisi culturale il discorso diventa difficile e scivoloso.
Figuriamoci allora quando un magistrato si trova costretto a fare la medesima analisi sul piano giuridico e cioè deve stabilire quando un indiziato è solo un estremista fondamentalista sul piano culturale-teologico e quando invece diventa pericoloso per la società perché potrebbe volere “immolarsi” nel gesto del Shahid, (martire) che sarà nel giudizio divino tanto più valutato quanti più “kafir” (infedeli) riuscirà a far fuori.

Lo scrittore che abbiamo citato all’inizio Perez Reverte dichiara apertamente che siamo in difficoltà su questo piano perché regole e cultura democratica ci impediscono di reagire con decisione.
E infatti sulla base della nostra cultura e delle nostre tradizioni democratiche ci troveremmo le mani legate se fossimo costretti a distinguere fra “moderati” e “fondamentalisti”, se pure aspiranti terroristi, perché ci troveremmo chiaramente nel campo dei deprecati “reati di opinione” e vicini al “processo alle intenzioni”.
Purtroppo però in questa fase storica quando il coltello alla gola sta diventando una spiacevole possibile realtà per ciascuno di noi, siamo anche costretti a interrogarci sul fino a che punto riteniamo di potere o dovere rinunciare a una parte di esercizio di libertà per assicurarci maggior sicurezza.
Discorso difficile, antipatico, pericoloso, scivoloso, ma che va fatto, perché il collo in pericolo è il nostro e il pericolo è reale, non è teoria.

Dulcis in fundo va fatto il discorso del mettere alla prova una volta per tutte le comunità islamiche che vivono nel nostro paese e negli altri stati europei, in quanto siamo tutti nella stessa barca.
Pare che l’ideologo dei quindici ragazzini aspiranti shahid di Barcellona fosse un imam, del quale si conoscerebbe nome e cognome.
Il bello o il tragico è che la comunità musulmana di appartenenza ha subito fatto sapere ai giornali che quello stesso imam lo aveva allontanato dalla moschea, evidentemente perché avevano scoperto che fiancheggiava il terrorismo.
Guarda il caso però si erano guardati bene dall’informare la polizia.
E qui ci risiamo alla cartina di tornasole, se quando si viene al dunque e cioè alla scoperta che uno della comunità che di riffa o di raffa fiancheggia il terrorismo magari si ha il coraggio di allontanarlo per non correre rischi con le autorità civili e col quartiere, ma non lo si denuncia è perché lo si sente troppo “fratello” sul piano teologico.
Cioè lo si vede anche come una testa calda che può danneggiare la comunità ,ma non si riesce a condannarlo proprio sul medesimo piano religioso-teologico, dove anzi il fatto che aspiri ad divenire shahid lo ammanta magari addirittura di venerazione e di ammirazione.
Qui siamo a un altro passaggio estremamente delicato, che mette in crisi i nostri principi e le nostre convinzioni, ma non possiamo evitare di rifletterci e di trarne delle conclusioni.
O gli islamici di casa nostra ci aiutano nella nostra lotta al terrore denunciando i loro che nella comunità territoriale fanno pensare male o sarà per noi e per loro un guaio molto serio,perchè , perché allora altro che religione di pace, quando la lotta si fa dura si va naturalmente all’”homo homini lupus”.
Gli “anni di piombo”, quando non passava giorno che i giornali radio non annunciassero un attentato delle BR con morti o feriti se andava bene, ci hanno insegnato che il terrorismo si può batterlo se le forze dell’ordine riescono ad organizzarsi adeguatamente specializzandosi sulla materia, ma sopratutto se la gente sente il dovere di collaborare.

Sono le telefonate alla polizia per denunciare persone, movimenti sospetti, presunti covi dei brigatisti in clandestinità che hanno battuto il terrorismo di quegli anni.
Oggi le comunità musulmane devono essere chiamate a fare lo stesso.
Diversamente, non contiamoci balle buoniste, vedremo con sorpresa noi stessi o il nostro vicino di casa mossi a prendere a calci nel didietro il presunto islamico che passa per la strada, tanto per cominciare.

Spero che gli islamici riescano a comprendere che evitare questo è nel loro interesse ancora prima che nel nostro.

sabato 5 agosto 2017

L’Italia in Libia può fare molto ma bisogna chiarirsi quali sono gli interessi nazionali





Ho l’impressione che anche gli osservatori specialisti del settore geografico non amino troppo mettersi a parlare o scrivere sulla Libia, talmente la situazione politica e sociale di quel paese è intricata e allo sbando.

Lo si è detto su questo blog in diversi post precedenti, già è complicato capirci qualcosa nella situazione della Siria, ma certo che la Libia batte tutti i primati di caos in atto.
Homo animal politicus, diceva Aristotele, volendo significare che siamo per natura esseri sociali, abituati a interagire fra di noi e quindi abituati a ricercare sistemi di organizzazione sociale : famiglia, tribù o associazioni, organizzazioni politiche.
Freghiamocene del politicamente corretto e diciamoci chiaramente che l’uomo cerca istintivamente un capo, così come i nostri predecessori nell’albero dell’evoluzione cercavano e cercano il maschio Alfa da riconoscere per consentire la realizzazione della gerarchia e organizzazione sociale.
Bene in Libia il “capo” che funzionava bene come tale, come sappiamo, è stato fatto fuori nel 2011 dalla banda dei capetti europei che non sapevano vedere oltre il proprio naso, con le conseguenze che oggi sono sotto gli occhi di tutti.

Incredibilmente il nostro “capo” del momento, il tanto vituperato (anche su questo blog) , Silvio Berlusconi in quella occasione si era schierato dalla parte del buon senso, della geopolitica e degli interessi nazionali italiani, difendendo Gheddafi ,col quale aveva firmato un trattato di amicizia che ad esempio sul terreno del freno all’emigrazione era stato rispettato ed attuato da Gheddafi a meraviglia.
Ma poi la paura di rimanere isolati nella Nato e in Europa ,hanno convinto il pur riluttante Berlusconi ad accodarsi a Sarkosy e compagni.
Peccato che non abbia resistito, se lo avesse fatto si sarebbe guadagnato le mostrine da statista, ma non lo ha fatto, gli mancava il quid purtroppo.

Ora in Libia l’Italia se guardiamo le cose seriamente superando le nostre furie masochiste, è il paese che ha le più lunghe radici storiche, le più ampie relazioni, il più forte scambio commerciale e quindi è doveroso che pretenda un ruolo di leadership, come fa la Francia nelle adiacenti,Ciad, Mauritania eccetera, dove non si vergogna affatto di conservare basi-fortini dei famosi legionari con altro nome, ma con la stessa sostanza e copertura politica.
Noi in Libia abbiamo un vantaggio competitivo fuori discussione, gli impianti Eni, perfettamente funzionanti, che consentono tra l’altro ai Libici di non morire di fame, ma nemmeno ce lo diciamo per paura di vederci come colonialisti nazional-fascisti.
Veramente dovremmo finirla con queste distorsioni mentali ex di sinistra ed oggi al limite della paranoia.
In Libia oggi ci siamo per fare i nostri interessi nazionali, punto, e se a qualcuno questo fa schifo, chi se ne frega.
Dalla presenza ininterrotta per decenni sul campo dell’Eni, traiamo una forma di diplomazia parallela, che lungi dall’essere di impaccio, ci è fondamentale per capire come muoversi in situazioni che non hanno relazione con la nostra cultura e la nostra esperienza storica di europei, e che quindi sono particolarmente difficili da gestire.

E allora se siamo così bravi, potrebbe pensare il lettore, perché siamo in difficoltà a farci aiutare dai Libici per frenare questa assurda fiumana di gente che qualcuno vuole portarci in casa al di là di ogni considerazione di buon senso, senza a tutt’oggi alcuna reale possibilità di sbolognarne almeno una parte ai nostri altezzosi partner europei?
Perchè paghiamo gli errori passati.
Non certo le presunte “colpe” coloniali, cancellate dallo scorrere del tempo e finite nell’oblio.
Il problema è un altro e consiste nel fatto che il governo italiano e quello libico avevano firmato un trattato di amicizia del costo apparentemente salato di 6 miliardi di infrastrutture da costruire, ma spalmato su vent’anni e con la ovvia possibilità di far fare quei lavori a ditte nostre e quindi con un ritorno sicuro e immediato, trattato che è stato stracciato in modo disonorevole dalle bombe lanciate su Gheddafi, contro i nostri interessi nazionali.
E’ ben comprensibile in politica che alla Francia stia sulle scatole il vantaggio competitivo che noi abbiamo in Libia, ma se fossimo stati governati in questi ultimi decenni da statisti e non da figuranti allo sbaraglio, i nostri interessi li avremmo difesi fino alla rottura su questo punto con gli alleati, perché è per questo che servono i politici nelle istituzioni, per fare gli interessi della collettività nazionale.

Dopo questo precedente coloro che in Libia quelle bombe se le sono prese sulla testa o che comunque le hanno viste da vicino, non c’è certo da stupirci se hanno difficoltà a prendere sul serio le firme che siamo pronti a mettere su nuovi accordi per fermare il flusso dei migranti ,facendo fare il lavoro sporco ai Libici medesimi, anche perché non potremmo comunque invadere quel paese per farlo noi direttamente.
Il primo ostacolo che qualsiasi governo italiano trova in Libia è legato a questo passato prossimo disonorevole per noi, poiché “pacta sunt servanda”, non sono carta straccia e quando si perde la faccia, è difficile e lungo costruirsene una credibile.
Le altre difficoltà poi sono sul terreno e sono pesantissime in quanto consistono nel fatto del quale abbiamo parlato all’inizio : in Libia dalla morte di Gheddafi non c’è più stato un capo con cui trattare.
Gheddafi purtroppo si rovinava la reputazione con quel suo modo di fare pieno di atteggiamenti folkloristici, ma non era affatto un cretino, se si pensa che aveva governato per quarant’anni senza avere né un esercito né uno stato su cui contare.
L’esercito era più una milizia di pretoriani che un vero esercito nazionale e lo stato non c’è mai stato né prima né dopo.
L’uomo aveva avuto la straordinaria abilità di tessere per quattro decenni accordi con una rete molto composita di tribù, che sono la vera base della società libica.
Questa è ed era la situazione reale.

Oggi Sarraj o Aftar o gli altri dieci, cento,mille capetti meno noti, contano non è certo quanto ,solo in rapporto alla loro capacità di guadagnarsi l’alleanza con le tribù che controllano il territorio.
Il quadro è complicato dalle ingerenze ed alleanze con forze esterne , ad esempio Egitto Arabia Saudita ed Emirati arabi al fianco di Aftar con la Francia; Quatar ,Turchia ,Onu, Europa e Italia con Serray.
Queste ingerenze ed influenze ci sono, ma non dimentichiamo che il territorio è sempre controllato dalle tribù di riferimento e che queste alla lunga prevalgono.
Ecco, i media tendono a banalizzare la complessità della situazione libica mettendola come una scelta obbligata fra Sarraj e Aftar.
Questa contrapposizione c’è e conta, ma il potere dei due è dipendente dalla variegata galassia delle
forze sul territorio che li appoggiano e che sono difficili da valutare.
Se la vedessimo come un a partita a due, allora avremmo difficoltà a capire perché mai l’Italia ha scelto Sarraj, che appare con evidenza in posizione più debole rispetto ad Aftar.
Purtroppo la Libia, come la Siria è il risultato di una sequela lunga di errori macroscopici e di doppi o tripli giochi che si sono rimpallati fra di loro le piccole e grandi potenze.
Le potenze esterne, poi, se gli dai un po di tempo la situazione la risolvono male a suon di bombe, ma la risolvono apparentemente.
Apparentemente perché poi il territorio chi lo controlla, finita ufficialmente la guerra e tornati negli hangar aerei e droni stranieri?

In Libia a rendere incomprensibile una situazione già difficile ci ha pensato addirittura l’Onu che in modo chiamiamolo irrituale ha fatto una scelta di campo intromettendosi al di fuori delle sue regole più elementari nella politica interna di uno stato dando il proprio appoggio a Sarraj invece che ad Aftar, cioè appoggiando la Tripolitania invece che la Cirenaica.
Nessuno sa perché, con la conseguenza di rendersi con quella scelta non più credibile alla parte soccombente e quindi rendendo di fatto praticamente impossibile la riunificazione di quel paese, che è l’obiettivo che formalmente l’Onu vorrebbe conseguire.
E’ stato un grosso errore ed è un bel pasticcio per chi come l’Italia adesso deve trattare con tutti e due rendendo pubblici solo gli incontri con l’uomo ufficiale che è Sarraj e facendo finta di non conoscere Aftar, senza il consenso del quale qualsiasi accordo sarebbe privo di senso pratico.
Adesso che per noi “la casa brucia” se non riusciamo a chiudere il rubinetto dell’immigrazione almeno in parte, siamo costretti a finirla con le idiozie buoniste a tutti costi ed a prospettarci azioni estreme come la chiusura dei porti.
E’ chiaro però che una politica seria in materia non può prescindere dalla collaborazione sul terreno dei libici.
Motovedette libiche che pattuglino le coste , cosa tutt’altro che difficile perché i porti libici di imbarco sono pochi e sono divenuti affollati come caselli di autostrada e quindi facilmente individuabili.
E poi, campi profughi in Libia o in Tunisia, chiamiamoli pure Hot spot se il termine inglese riesce ad attenuare l’assoluta spiacevolezza della sostanza della cosa, dove mantenere decentemente questa enormità di umanità sofferente, identificarli, spiegare loro che hanno fatto la peggiore cacchiata della loro vita a vendere cose e indebitarsi per andare dove oggi nessuno li vuole e dove per il momento non c’è obiettivamente più posto per loro.
Dargli un po di soldi per tornare e possibilmente riportarli al loro paese dopo avere stipulato le necessarie intese.
Per favore finiamola con piagnistei pietistici e falsi.
Usiamo in tutte le tappe di queste procedure la massima umanità possibile ma non nascondiamoci che la riuscita o meno di tutta la procedura è solo ed esclusivamente questione di soldi.
Se volete una conferma andate a chiederlo a una certa Angela Merkel che in argomento la sa lunga avendoci fatto tirare fuori 8 miliardi di fondi europei per fare le stesse cose in Turchia, procedure che funzionano come un orologio svizzero proprio perché ben lubrificato da una montagna di soldi.