mercoledì 29 settembre 2021

Tomaso Montanari : Chiese chiuse – recensione

 






L’autore è un giovane storico dell’arte, il cui livello accademico è facile da tracciare indicando anche solo i due punti fondamentali della sua traiettoria : laurea alla Normale di Pisa, eletto Rettore dell’Università per Stranieri di Siena nel giugno 2021.

Così come è facile individuare il suo orientamento nella professione indicando due eventi che lo videro protagonista : Presidente del Comitato tecnico scientifico per le Belle Arti del Ministero per i Beni Culturali e membro del Consiglio Superiore dei Beni Culturali fino alle dimissioni che dà nell’agosto 2021 per divergenza assoluta dalla linea del Ministro Dario Franceschini.

Un’altra chicca nella sua carriera esce fuori quando si ritrova a dovere interrompere la sua collaborazione al maggiore quotidiano italiano dopo avere pubblicato un capitolo tagliente sulla politica relativa ai Beni Culturali portata avanti dall’allora sindaco di Firenze Matteo Renzi.

Ha poi arricchito il suo carnet con diverse reprimende da Matteo Salvini e da Vittorio Sgarbi.

Dalla pagina a lui dedicata su Wilkipedia troviamo una sintesi della sua linea :” tema privilegiato per lui è la denuncia del degrado e dell’incuria in cui versa il patrimonio artistico e storico italiano...(denuncia che si allarga ) allo sfruttamento economico e commerciale, riservato a una nicchia ben collaudata di formidabili poteri opachi.

La reazione di Montanari è quella di opporre un nuovo sguardo alle arti riconoscendo la loro funzione di civilizzazione da mettere a disposizione del pubblico più vasto”.

Ecco detto questo il lettore penso abbia avuto modo di avere davanti a sé i tratti fondamentali del nostro autore che tra l’altro ha avuto la non comune opportunità di permettersi di rifiutare la carica di Ministro del Beni Culturali ,perché non riteneva di potere essere ministro in un governo a partecipazione leghista-salviniana.

Chiariteci le idee sull’autore vediamo ora di focalizzare la nostra attenzione sul libro e quindi sulle chiese o meglio sulle chiese chiuse proprio come recita il titolo.

L’autore si proclama personalmente cattolico addirittura praticante, anche se il personaggio in tonaca che cita più spesso oltre a Papa Francesco è Don Lorenzo Milani, il prete di Barbiana, del quale mostra di condividere largamente il pensiero.

Come storico dell’arte riconosce gli sforzi che la Chiesa Italiana ha fatto e fa per conservare il patrimonio artistico, ma non equivochiamo, queste lodi riguardano le chiese aperte al culto.

Fine.

Perchè l’autore medesimo cita una agghiacciante pronuncia della Segnatura Apostolica (organismo di livello appena seguente a quello papale come autorità) con la quale in parole povere si dice che quando l’autorità ecclesiastica decide di chiudere una chiesa al culto, per quella struttura il discorso è chiuso, cioè la Chiesa non se ne occupa più, anche se il linguaggio curiale è il solito dire e non dire.

La sorte di questi monumenti è segnata.

Triste sotto molteplici punti di vista ma è così.

Teniamo conto che il fenomeno chiese chiuse è di dimensioni numeriche spesso drammatiche.

L’autore fa l’esempio di una città capoluogo di provincia della Lombardia che si ritrova con 60 chiese delle quali ben 42 chiuse.

Personalmente ho sempre avuto un grande interesse per la storia e al di là del considerare secondo le convinzioni personali le chiese case di Dio o semplici monumenti, sono sempre stato affascinato dalla monumentalità, dal silenzio delle chiese nel quale si è costretti ad ascoltare proprio il silenzio per concentrarsi sulle pietre che sono lì a raccontare la loro storia, spesso ricchissima.

L’autore è molto abile a citare le sue vivissime impressioni fino da bambino vissute nelle visite alla chiese ,alternandole alla lettura spesso di enormi capolavori ma ancora più spesso di opere d’arte non meno penetranti anche se di autori locali mai pervenuti alla conoscenza del grande pubblico.

Mi ha fatto grandissimo piacere notare e condividere la passione umana dell’autore che ci invita a riflettere a un fatto che spesso non siamo portati a realizzare.

Si tratta dell’evidenza che sotto le pietre delle chiese che calpestiamo ci sono i resti mortali dei fedeli che prima della riforma napoleonica sui cimiteri venivano sepolti proprio nelle chiese e nelle loro adiacenze.

Per la qual cosa anche se non riteniamo che quei luoghi siano sacri per noi, non possiamo disconoscere il fatto che sono le vestigia di una religione civile che è quella che ci mette in comunicazione con l’umanità che condividiamo con quei nostri predecessori di molte epoche storiche.

Ecco perché le chiese chiuse sono molto di più che semplici monumenti pur riconosciuti come beni culturali.

Il numero totale delle chiese italiane ci dice l’autore non è ancora statisticamente accertato del tutto perché l’organismo preposto a censirle non ha ancora concluso definitivamente il suo lavoro, ma il grosso è stato fatto, abbastanza comunque a ritenere vicino alla realtà il numero di 85.000.

Come si vede il fenomeno è eclatante.

L’autore purtroppo si ferma qui, ma sarebbe stato a mio avviso più utile per rendere il discorso più attinente alla realtà andare oltre e confrontare questo enorme numero di chiese con il numero delle persone che istituzionalmente dovrebbero occuparsene e quindi indicare anche il numero dei sacerdoti oggi presenti mettendo questo accanto a quello delle chiese.

Lo faccio io perché mi sembra indispensabile per rendere il discorso più chiaro al lettore.

Quelle 85.000 chiese sono divise per 25.610 Parrocchie e per 226 diocesi.

I sacerdoti risultavano essere nel 2018 54.606 dei quali 35.388 diocesani e 19.218 religiosi.

Se teniamo conto del fatto che l’età media del clero italiano è di 60 anni, cioè l’età della pensione fino all’altro ieri ci appare chiaro che non c’è nemmeno un prete abile per due chiese.

E questa è la prima ragione che spiega il fenomeno eclatante della chiese vuote.

La seconda causa è evidentemente quella dovuta all’avanzare veloce della secolarizzazione, che porta i fedeli a mettere sempre meno un piede nella chiesa istituzionale.

Illuminato il fenomeno nella sua cruda realtà, vediamo come lo affronta l’autore.

Abbiamo premesso le linee di fondo del pensiero in materia di Montanari.

No alla mercificazione delle chiese.

Che significa a suo parere nò assoluto alle biglietterie all’ingresso delle chiese.

L’autore non vede bene nemmeno una divisione delle competenze e dei luoghi che salvi capra e cavoli del tipo di qua i turisti di là i fedeli per la semplice ragione che ritene che il fedele abbia tutto il diritto di usufruire della visione dei capolavori o meno presenti nelle chiese per favorire le sue meditazioni, tenendo conto del fatto elementare che i costruttori, gli artisti e i vescovi dell’epoca per queste precise ragioni avevano edificato quelle chiese e realizzato quelle opere d’arte.

Non per farne un museo né un’experience (proiezioni di opere d’arte).

Capisco che la radicalità del pensiero di Montanari sia un po scioccante, ma va riconosciuto che la sua linea di pensiero è di una linearità logica difficilmente discutibile.

La chiesa per sua natura è fatta per essere luogo pubblico accessibile gratuitamente a tutti.

Sarà anche radicale Montanari, ma non manca di interrogarsi su come trovare possibili soluzioni.

La soluzione pratica che nelle conclusioni enuncia Montanari è interessante, anche se lo avete capito è uno che tende ad andare di accetta più che di cesello.

Butta là Montanari.

Ma se le la chiesa istituzionale arrivata dove è arrivata, cioè non lo dice lui ma tanto vale che lo dica io arrivata alla quasi irrilevanza completa, finalmente facesse un atto di coraggio e rinunciasse all’insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica, potrebbe avvalersi dell’opera di quei docenti che di fatto dipendono dall’autorità ecclesiastica, per impiegarli a riaprire le chiese che nel tempo sono state chiuse per attività civili di interesse pubblico sempre di carattere culturale magari con un occhio aperto al settore degli immigrati con corsi di italiano e di cultura civica accompagnati a corsi di storia delle religioni, divenendo strumenti di integrazione culturale.

Lasciando spazi all’esercizio ed all’educazione alla spiritualità in una ispirazione mi pare intenda di carattere non solo multiculturale ma anche multiconfessionale.

E’ un libro breve ma intenso, lo consiglio vivamente.





lunedì 27 settembre 2021

Romano Prodi con Marco Ascione : strana vita la mia – recensione

 


Ecco una biografia politica proprio in tempo per far concorrere il suo protagonista all’elezione del nuovo Presidente della Repubblica verrà da dire ai più maliziosi.

Purtroppo l’innato narcisismo di noi umani ,compresi quelli di più elevata caratura come è appunto Romano Prodi consiglia di non mettere mai la mano sul fuoco, ma certo tendo a ritenere poco verosimile una tale eventualità.

Probabilmente è solo una coincidenza casuale.

Ma prendiamo questa biografia per quello che è ed a me sembra che sia un buono e onesto lavoro.

Immagino Prodi al di fuori dei giri e scadenze contingenti della politica e da quello che ho trovato leggendo il libro del quale parliamo mi è sinceramente sembrato che ci troviamo davanti alle memorie di prammatica per un ex presidente.

Oddio, l’Italia ne ha avuti tanti di capi di governo, alcuni dei quali di livello sicuramente così poco eccelso che sinceramente mi auguro che alcuni colleghi di Prodi si astengano da questa consuetudine.

Purtroppo il gioco politico mediatico nel quale Prodi si è trovato costretto dalle circostanze a divenire il federatore dell’Ulivo per sconfiggere Berlusconi lo ha costretto a a dovere recitare la parte del duellante in un continuo “Mezzogiorno di fuoco”, dove bisognava sparare per forza per non soccombere, cioè bisognava per forza avere un “nemico” da sfidare e sfidare “a morte” secondo le regole del gioco dei duelli.

Questo fatto non ha giovato a Prodi, che come il libro conferma ha sempre costruito una filosofia di vita di tutt’altro genere.

Non a caso l’autore e protagonista conclude il libro ribadendo la sua volontà di essere orgogliosamente un uomo del dialogo, ben conscio del fatto che per onorare la sua ideologia politica di tipo chiaramente “riformista” occorre esercitare sempre pazientemente la fatica di comprendere il punto di vita di chi la pensa diversamente per trovare con lui una possibilità di strada comune , tutto il contrario del dover duellare con un “nemico”.

Stando così le cose l’atteggiamento aperto al dialogo e il suo carattere emiliano doc accentuato da trtti suoi caratteriali di tipo diciamo “pacioso”, ha fatto equivocare molti nel giudizio verso di lui, quando hanno interpretato le sue aperture politiche e umane come segni di debolezza.

Non dimentichiamo che archiviata la prima repubblica nella quale comparivano solo politici di professione, per la prima volta “il duello” si svolse fra un professore digiuno di politica, come era Prodi e un imprenditore dei media scafato nell’uso più spregiudicato delle tecniche di comunicazione e di orientamento dell’opinione pubblica per di più con a disposizione una gran dovizia di mezzi economici come era ed è Berlusconi.

Il duello era francamente asimmetrico.

Però Prodi vinse per ben due volte.

Il peso della propaganda ben orientata è micidiale, anche perchè allora si era tutti impreparati a usare i media messi a disposizione delle moderne tecnologie.

Leggendo il libro si è costretti a scrollarsi di dosso almeno una parte dei luoghi comuni che la potente ed efficace propaganda berlusconiana era riuscita ad appiccicare addosso al povero Prodi.

Non si creda che il costruire con mezzi mediatici un immagine negativa e verosimile anche se totalmente falsa dell’avversario politico sia cosa di poco conto.

Pensiamo alla incredibile efficacia che ebbe l’appellativo di “sliping Joe” che Donald Trump è riuscito a cucire intorno alla figura di Joe Biden, tanto che con quella quasi ci ha vinto le elezioni.

Come costruzioni di immagini non dobbiamo andare lontano se pensiamo a quando Berlusconi aveva costruito intorno a Prodi l’immagine di “uomo mortadella”, fra il mollaccione e l’addormentato, attaccandosi ad alcuni tratti caratteriali che hanno sempre rischiato di compromettere le capacità di comunicazione del personaggio e che il medesimo non è mai riuscito a scrollarsi di dosso.

Micidiale.

Peccato che anche se solo in parte quella propaganda abbia attaccato perché Prodi proprio non se lo meritava.

Stiamo parlando dell’Italiano che ha avuto la ventura di ricoprire le cariche più elevate che siano capitate in dotazione ad solo uomo nella più recente storia d’Italia : Presidente del Consiglio due volte, Presidente della Commissione Europea, Inviato Speciale del Segretario Generale dell’Onu.

E non parliamo delle posizioni professionali con le cattedre di Economia Industriale che ha tenuto non solo all’Alma Mater della sua Bologna, ma negli Usa ed a Pechino.

E non parliamo della residenza dell’IRI tenuta in due tempi.

Ecco,vorrei invitare caldamente il lettore a focalizzarsi su questo, non sul duello con Berlusconi perché confesso di avere trovato personalmente estremamente utile questo libro proprio perché sono convinto di essere stato anch’io a suon tempo irretito dalla propaganda mediatica che mi costringeva a vedere in Prodi solo un politico che non sempre brillava e solo l’avversario di Berlusconi.

Per sua fortuna il Prodi che viene fuori dal libro è tutt’altro.

Innanzi tutto anche se ha ricoperto cariche istituzionali ed anche incarichi prettamente politici come quella derivante dall’essere stato il fondatore -federatore dell’Ulivo, Prodi si ritiene non un politico ma un professore di economia e più precisamente un professore e cultore di “economia industriale”, cioè di una branca dell’economia che richiede di tenere i piedi profondamente posati per terra.

Che fa un professore? Prodi ci dice che prima di ogni altra cosa studia e studia molto.

Poi per coltivare quel tipo di economia occorre stare molto “sul campo” che significa fra un capannone industriale e l’altro.

Non ha caso il suo lavoro scientifico che avuto più risonanza è stato quello sui “cluster”, i poli dell’industria delle piastrelle emiliane.

Inutile ribadirlo, Prodi si vede dalla prima all’ultima pagina del libro come un “tecnico” di economia politica industriale.

Anzi,anche se non lo dice mai esplicitamente ho ricavato l’impressione che la sua esperienza all’Iri sia quella nella quale si è sentito più realizzato.

Ristrutturare le più grandi industrie italiane riunite in quell’enorme conglomerato pubblico per rimetterle più sane sul mercato, è stata una grande impresa, anche se nella sua seconda esperienza era stato costretto dalla nuova politica europea a metterle sul mercato per “liberalizzare”.

Giustamente credo Prodi ribadisce più volte di avere trovato all’Iri un management di alto o altissimo livello, che non a caso dopo le privatizzazioni è emigrato ai vertici di molte industrie private e che la sua opera se pur faticosa di ristrutturazione è stata per lui molto proficua proprio anche in virtù di quel manage ment, sostenuto da uffici studi al massimo livello.

Non è infatti un caso che parallela all’esperienza industriale e istituzionale di Prodi proceda la vicinanza in prima persona a Nomisma primario istituto di ricerca e di consulenza e l’esperienza con le edizioni del Mulino.

Un tecnico di alto livello d’accordo può e deve studiare molto, ma ancora meglio se si può avvalere di una struttura di analisi e di ricerca del prestigio di Nomisma.

A mio parere questo libro vale perché ci restituisce l’immagine nella quale il protagonista si riconosce che non è quella che gli hanno cucita addosso.

Il lettore troverà anche un gustoso motivo di interesse nei numerosi siparietti nei quali ci vengono riportati i ricordi e gli inevitabili giudizi sui grandi della terra che i suoi incarichi gli hanno concesso di frequentare.




martedì 21 settembre 2021

Antonio Giustozzi : The Islamic State in Khorsan – recensione

 





L’autore è uno dei maggiori islamisti esperti della regione alla quale appartiene l’Afghanistan ed è autore di diverse pubblicazioni sull’argomento.

E’ Visiting Professor al King’s College.

Il libro del quale parliamo è un’opera tipicamente accademica, per intenderci la classificherei fra quei saggi che vengono scelti dai cultori della Geopolitica come fonti.

Sì perché non è un’analisi costruita su opere già esistenti, né tanto meno la sintesi di un lavoro di reportage sul campo.

E’ qualcosa di più essendo tutto basato su interviste fatte sul campo a capi o semplici miliziani del così detto Stato Islamico o Daesh,Talibani, membri di Al Quaida eccetera.

Lo dico subito è una lettura abbastanza impegnativa non tanto per la mole accettabile di poco più di trecento pagine, ma per il livello di dettaglio delle informazioni che fornisce.

Ma l’ho trovata una lettura assolutamente illuminante.

Non voglio denigrare i bravi corrispondenti dei grandi giornali che si affannano in questi giorni (settembre 2021) a darci notizie su cosa succede in Afganistan dopo la presa del potere da parte dei Talibani senza colpo ferire, ma i loro reportage sembrano davvero generici e approssimativi se ci si avvicina all’argomento dopo aver consultato fonti del livello del libro del quale stiamo parlando.

I giornalisti fanno il loro mestiere e per farsi leggere sono costretti a semplificare e ridurre all’osso, ma assicuro il lettore che se si legge questo libro si tocca con mano un livello di complessità che sconcerta.

Cercherò di dare qualche dritta per non perdersi.

Innanzi tutto occorre ricordarsi che siamo in Asia, non in Europa e che quindi per capirci qualcosa dobbiamo avvicinarci a quelle civiltà con metri diversi dai nostri.

Mi fanno ridere i commentatori che danno per scontato che gli asiatici a qualsiasi livello di sviluppo siano arrivati , debbano passare per gli stessi stadi che hanno costituito il nostro sviluppo storico cioè per intenderci : Medio Evo-Rinascimento-Illuminismo-Liberalismo e democrazia rappresentativa.

No non funziona così, se si ragiona così non si può capire nulla dell’Asia.

Che è un continente con altre filosofie, culture, storie.

Andando sul campo non possiamo capire l’Afghanistan se non facciamo preventivamente almeno un’analisi del linguaggio.

Voglio dire, che se per esempio diamo per scontato che l’Afghanistan sia uno stato nazionale come una qualunque nazione europea siamo completamente fuori strada, perché non è mai stato uno stato nazionale come lo intendiamo noi, nel senso che il potere centrale è sempre stato molto più attenuato e che i confini sono estremamente porosi, altro che muri e reticolati.

Ne consegue che con buona pace dei nazional -populisti oggi di moda, l’idea di nazione, o stato nazionale come elemento identitario è immersa nella nebbia e quasi scompare di fronte ad altri elementi più vicini e più sentiti dalla gente come famiglia allargata, tribù, Shura di riferimento (specie di Consiglio Tribale arabo tradizionale) etc.

Non parliamo della società che è spaventosamente plurale.

Come abbiamo accennato sopra : famiglia, famiglia allargata, sotto tribù locale, tribù su base locale più ampia, etnia di riferimento,

fin quando è un legame di sangue come quelli elencati prima è quello che è, ma quando il legame avviene per scelta su base ideologica o religiosa allora questo riferimento spesso cambia nel tempo, e poi ma solo per ultimo anche in senso di importanza viene un vago riferimento nazionale astratto.

Quanto all’affiliazione religiosa la cesura maggiore è probabilmente fra Sunniti e Sciiti, questo sì, ma poi all’interno dei due campi fondamentali le cose si complicano.

Se rimaniamo fra i Sunniti bisogna vedere di quale sotto denominazione è il Mullah o Imam di riferimento in un ventaglio molto ampio che va dai moderati ai fondamentalisti Salafiti, Wahabiti eccetera ed anche in questo caso trattandosi di una affiliazione per scelta spesso varia nel tempo.

Non parliamo dell’affiliazione ad una milizia : Talibani, Dahesh, Al Quaida , Signori della Guerra,Esercito Nazionale qui per la stessa persona è spesso è un andare e venire continuo nel tempo, diciamolo pure seguendo spesso considerazioni più mercenarie che ideali.

Ma non basta ancora, in Afghanistan si parlano lingue diverse a seconda della zona geografica al punto che ci dice Giustozzi, quando i miliziani di Dahesh cominciarono a infiltrarsi in Afghanistan, dopo aver fatto le prime affiliazioni sentirono la necessità di fare fare ai nuovi adepti corsi di arabo, perché arabo e Pashtun, la lingua locale prevalente non sono esattamente la stessa cosa tanto che stavano verificando che rischiavano di dare ordini che proprio non venivano nemmeno capiti bene per ragioni banalmente linguistiche.

L’Afghanistan è una realtà complessa anche per chi ci si avvicina per studiarla.

Tanto per fare un esempio, il Paese è diviso in Provincie delle dimensioni delle regioni europee,ma nella quasi totalità ognuna delle 34 provincie-regioni non prende il nome dal capoluogo, ma porta un altro nome.

Le Provincie sono poi divise in Distretti il cui nome non è detto corrisponda a quello del comune capoluogo.

Il libro di Giustozzi riporta molto a proposito delle cartine per indicare la concentrazione media di aderenti a Dahesh, Al Quaida,Talibani eccetera, cartine preziose, perché da loro si evince una distribuzione estremamente non omogenea dei vari gruppi sul territorio.

Ad esempio Talibani e Dahesh hanno una netta prevalenza nelle province dell’Est e Nord Est ai Confini col Pakistan e una copertura statisticamente quasi nulla in grandi aree del Sud ai confini col Baluchistan pakistano ed all’Ovest al confine con l’Iran,, per cui quando si legge sui giornali che dall’agosto 20121 i Talebani hanno occupato tutto l’Afghanistan, la cosa va molto ma molto ridimensionata, perché l’Afghanistan come entità unitaria probabilmente non l’ha mai controllata nessuno, figuriamoci nella situazione di oggi.

Il nostro libro ci parla con estremo dettaglio della presenza delle milizie dello Stato Islamico in Afghanistan fino alla sconfitta dello stesso dopo la caduta della sua capitale Raqqa nell ‘ottobre 2017, ma per fare questo ci dà contemporaneamente una lettura altrettanto dettagliata della storia dell’Afghanistan nel medesimo periodo,ovviamente vicende dei Talebani compresi.

Consiglio quindi la lettura del libro a chi a seguito del penoso e maldestro ritiro degli Occidentali dell’agosto 21 vuole consultare una fonte estremamente diretta e quindi attendibile.

I Talebani nella testimonianza dei miliziani di Daesh fanno veramente la figura degli ultimi della classe.

Con scarsa o nulla istruzione, con pochi soldi, malvestiti, con armamenti per lo più residuati russi, logistica e organizzazione estremamente carente, comandanti promossi per nepotismo od altro ma in pochi casi per merito e comunque professionalmente insufficienti, perfino carente la cultura religiosa, in poche parole vengono descritti come i barbari della regione.

Con tutto questo i rapporti fra Daesh e Talibani sono stati all’insegna del tira e molla con molti o moltissimi che sono stati per un po di tempo di qui e per un po di tempo di là e vice versa.

Come stanno le cose oggi?

Se ne parla troppo poco probabilmente perché se ne sa troppo poco.

Sulla base delle informazioni del libro si possono azzardare delle ipotesi verosimili.

Quello che si può dare per certo è che i miliziani di Daesh si saranno tenute ben lontane dall’esercito fantasma di Kabul.

Molti si saranno dispersi fra Siria, Pakistan e Africa.

Quelli di origine afgana probabilmente si sono assimilati ai Talebani a meno che non fossero di formazione salafita o peggio ,sopratutto nelle province fra Kabul e il Pakistan a cominciare dal territorio di cultura di tutti questi movimenti insurrezionalisti islamici, la provincia di Nangahar da dove andare a Peshawar in Pakistan è particolarmente veloce.

E qui siamo arrivati ad uno dei tanti misteri dell’Afghanistan , il ruolo del Pakistan.

Nel libro ci sono un sacco di interviste a miliziani Isis che concordemente e con convinzione ripetono di essere certi che il movimento Talebano sia una creazione dei servizi segreti del Pakistan e la cosa ha trovato conferma nelle cronache proprio di questo inizio di autunno 2021 quando hanno riportato la visita del generale Akhtar capo di quei servizi alla nuova dirigenza talebana, che lui stesso avrebbe scelto.

E sì ma allora com’è che il Pakistan è anche ritenuto l’alleato strategico principale degli Usa nella regione assieme all’India,USA che di fatto lo armano e finanziano da decenni ?

Che gioco giocano gli Stati Uniti?

Molto difficile rispondere, perché la loro posizione è talmente ambigua da sembra veramente assurda.

Sulla base delle ricche informazioni del libro si può pensare che i Talebani riusciranno a dare stabilità al loro regime?

Si direbbe proprio di no, sia perché non controllano affatto tutto il paese né l’hanno mai controllato, si perché non sembra proprio che ne abbiano la capacità tecnico- amministrativa per farlo.

Peccato che questo libro non abbia una traduzione italiana, e temo che essendo un po di nicchia nemmeno l’avrà ma assicuro è una vera miniera di dati di prima mano non reperibili altrove e per questo ne consiglio la lettura.




venerdì 10 settembre 2021

Giada Messetti : Nella testa del dragone ,identità e ambizioni della nuova Cina - recensione

 




Qualche lettore potrebbe chiedersi, ma perché insistere con libri sulla Cina?

Perchè più leggo opere serie su questo argomento più mi irrita il fatto che da noi non si riesca a scrollarsi di dosso luoghi comuni, leggende metropolitane, ma sopratutto banale propaganda americana, venduta per ovvia descrizione di una realtà che invece è complessa e diversissima dal nostro mondo culturale e quindi difficile da apprendere.

E per comprendere realtà complesse bisogna studiarsele, non basta affidarsi ai media generalisti dove appaiono per di più saccenti tuttologi che se la cavano benissimo ribadendo i nostri preconcetti, cosa che ci appaga moltissimo, ma che non ci rende alcun servizio.

Giada Messeni, sinologa qualificata formatasi come molti suoi colleghi e colleghe all’Università Ca Foscari di Venezia ci offre una analisi molto seria e documentata che si fa leggere molto bene.

Mi sembra molto azzeccata l’idea dell’autrice di cominciare il libro dandoci una descrizione abbastanza dettagliata della biografia di Xi Jinping il capo assoluto della Cina di oggi, perché non si può capire questo paese se non si ha un’idea precisa di chi la guida con il medesimo prestigio e autorevolezza di colui che creò la Cina moderna e che si meritò l’appellativo di Grande Timoniere, Mao Tse Tung.

La vita di questo personaggio lo vedrete spiega da sola molte cose.

Xi nasce figlio di papà, non ci sono dubbi e quindi da bambino gode di tutti i vantaggi di vivere nell’ambiente della nomenclatura di allora.

Ma se è vero che le avversità temprano il carattere le vicende dell’adolescente Xi stanno proprio a dimostrarlo dato che il padre cade in disgrazia quando lui è dodicenne, e cade proprio nel senso che rotola al gradino più basso e Xi è costretto ad andare a “rieducarsi” nei campi condividendo in tutto la vita dei poverissimi contadini cinesi di allora per lunghi anni.

Ma a quanto pare il ragazzo di carattere ne aveva da vendere tanto che decise di sfidare le Guardie Rosse che controllavano la sua “rieducazione” diventando “più rosso dei rossi” e ci riuscì ottenendo il permesso di laurearsi in ingegneria chimica.

Dopo di che comincia la lunghissima scalata al potere partendo dai gradi più bassi dell’amministrazione.

I lettori che magari anche leggendo le precedenti recensioni o meglio i libri sulla Cina precedentemente recensiti, hanno già delle nozioni in materia sanno che il sistema politico sociale cinese si basa da sempre sul rispetto di un principio meritocratico di ferro e che quindi chi vuol fare carriera politica può fare quello che fanno tutti i politici indulgendo più o meno al populismo, ma sopratutto deve studiare e molto, diversamente non si va avanti.

Xi comincia a lavorare nelle amministrazioni delle provincie più derelitte.

Mentre il figlio lavora duro ai livelli più bassi, suo padre nel 1978, due anni dopo la morte di Mao, la fine della Rivoluzione Culturale e l’avvento al potere del riformista Deng Xiao Ping, viene completamente riabilitato ed anzi Deng lo mette a capo del progetto delle così dette zone economiche speciali, che sono state in pratica la realizzazione del progetto che ha messo il turbo allo sviluppo economico della Cina.

Si trattava come è noto del primo e macroscopico superamento del sistema economico comunista collettivizzato, aprendo alcune zone della Cina al libero mercato offrendo condizioni di particolare favore alle imprese straniere che avessero voluto aprire in Cina delle nuove attività, progetto iniziato nel 1978.

Xi intanto va a fare un viaggio di studio negli Usa interessandosi alle tecniche di allevamento del bestiame in uso in Texas.

Sposa una famosa soprano che sfruttando la sua acquisita popolarità gli darà una grossa mano a percorrere i gradini della carriera politica.

E’ un menage piuttosto faticoso dato che per venta’anni lei viveva a Pechino continuando la sua fortunata attività mentre lui rimaneva a governare città e province dove il Partito lo mandava fino a Shangai ed alla provincia dello Zehjiang che ospita alcune delle attività più di punta del Paese, tanto per fare un nome la Alibaba di Jack Ma.

Nella sua attività politico amministrativa Xi riesce con estrema abilità a coniugare progetti che si direbbero populisti, in quanto capaci di raccogliere un deciso favore popolare, con iniziative anche dure per combattere la corruzione dilagante negli apparati politico amministrativi.

Inutile sottolineare che questi due aspetti tipici del suo operare rappresentano linee di azione che Xi si è portato dietro fino ad oggi.

Strada facendo Xi lavora per crearsi un entourage di collaboratori fedelissimi ma ben preparati ed arriva sullo scalino più alto della gerarchia, Segretario generale del partito e presidente della Commissione Militare.

Inviterei il lettore a soffermarsi su questo dato di fatto : Xi arriva il vertice del potere nel 2012 e si presenta con un programma da realizzarsi entro il 2049.

Quando mai in Occidente un capo politico ha presentato un piano di sviluppo dettagliato indirizzato ad un ordine temporale di 37 anni?

Una delle caratteristiche della politica e della cultura cinese è che questa è diversissima dal modo di procedere dei nostri politici, in Cina c’è non solo la programmazione, ma la programmazione a lungo e lunghissimo periodo che sottende necessariamente una visione che potrebbe sembrare utopica o propagandistica se non fosse che i piani che il Partito sviluppa da Congresso a Congresso finora sono stati regolarmente realizzati portando in pochi decenni la Cina dal Medioevo al primato mondiale nei settori trainanti dell’economia moderna.

Come ha potuto finora riuscire un impresa così clamorosa?

Forse ha aiutato quella che è probabilmente la differenza più radicale sul piano filosofico e culturale prima ancora che politico fra il nostro Occidente e la Cina.

Noi abbiamo eletto da dopo la seconda guerra mondiale a paese guida gli Stati Uniti che sono guidati da una filosofia liberal individualista spinta al massimo, mentre la Cina da sempre si basa sul primato della comunità armoniosa rispetto al primato dell’individuo.

In Cina l’individuo cerca un suo posto nella società e si sente realizzato nella misura in cui trova efficace la sua collaborazione all’insieme della società per raggiungere obiettivi enunciati dai governanti che lui condivide.

Il sistema è fortemente meritocratico e quindi il singolo cittadino si sente tutelato proprio perché condivide le linee di queste filosofie di base che in parte derivano dal Confucianesimo.

Altra caratteristica del modo di pensare e di operare dei cinesi è una forte apertura alla sperimentazione continua ed al pragmatismo.

Purtroppo il fatto che ci si trovi formalmente in un sistema politico che si autodefinisce comunista induce le persone meno preparate sull’argomento ad equivocare immaginando trapiantato in Cina il sistema russo ex sovietico, che in realtà ha ben poco a che fare col sistema cinese né quello che era di Mao, né tanto meno quello di oggi.

Probabilmente il sistema sovietico è caduto proprio a causa del fatto che i russi non hanno saputo liberarsi dal giogo dell’ideologia e del dogmatismo.

Questo non è successo in Cina dove la pensata dei capi consistente nel piano quinquennale o quadriennale sfornato dall’ultimo congresso viene recepita, si cerca di attuarla, ma si è da sempre abituati a farla passare attraverso un vaglio critico in relazione alle difficoltà ed ai problemi che si incontrano nella realizzazione pratica e si è aperti a sperimentare anche deviazioni dalla linea purché funzionino.

Non nascondiamocelo, anche se continuiamo a ritenere che il sistema di democrazia rappresentativo nel quale viviamo ci offre più garanzie, non possiamo non vedere l’efficacia di un sistema centralizzato nel prendere decisioni con la massima rapidità e sopratutto garantisce di poter agire con la massima velocità possibile.

I tempi di ultimazione delle ingenti opere pubbliche realizzate in Cina in questi ultimi decenni sono più che sorprendenti.

Tra l’altro la capacità che la Cina ha dimostrato di contenere la pandemia di Covid ha stupito il mondo.

Da quando è diventato il capo supremo Xi ha proposto il programma a lunghissimo termine del quale si è detto sopra denominandolo “il sogno cinese” che ha un gran significato perché è volutamente inteso come il mezzo non solo per sviluppare e modernizzare la Cina ma sopratutto per far dimenticare gli “anni dell’umiliazione” quando l’imperialismo britannico e poi degli altri occidentali ha messo sotto i piedi gli oggi tanto conclamati “diritti umani” dei Cinesi con le vergognose guerre dell’oppio da metà ottocento in avanti fino ad arrivare alla spartizione del territorio cinese fra le così dette Legazioni occidentali, vere e proprie colonie, dove nei giardinetti vi erano cartelli che vietavano il passaggio ai cani ed ai Cinesi.

Questi elementi non possono essere sottovalutati nel senso che oltre a far valere un ovvio senso di rivalsa ora che sono già diventati la prima potenza mondiale in molti campi, sono anche abituati da questi penosi precedenti storici a prendere con le molli le virtù dei sistemi occidentali, che noi vorremmo esportare naturalmente anche e sopratutto in Cina.

Tornare alla mitica grandezza dei periodi imperiali di una civiltà millenaria, è diventato anche un ovvio espediente fortemente utilizzato da Xi per usare il nazionalismo come elemento di aggregazione identitaria.

Si tenga presente che la stessa Giada Messetti dice che le Cine sono mille per indicare un tessuto sociale e culturale parecchio composito.

Si tenga però subito conto del fatto che a differenza degli Americani e delle potenze europee prima di loro, i Cinesi hanno dimostrato di non avere alcuna intenzione di esportare il loro sistema né di convertire nessuno, tanto meno usando la forza delle armi, e questi sono dati di fatto.

Non vado oltre.

Nel libro troverete descritta la Cina come è oggi, composita ma capace di mobilitare il suo quasi miliardo e mezzo di abitanti in battaglie civili.

Troverete parecchie indicazioni di come vive il cinese medio oggi, della sua scorpacciata di tecnologia, delle app. cinesi che rendono indipendenti i fruitori dai colossi americani,

e non ultima cosa interessante alcuni accenni sulla lingua che è tanto complessa da essere un ostacolo perfino per i cinesi che infatti usano “ciattare” con il corrispondente cinese di Whatsapp in voce invece che per iscritto per risparmiare tempo.