venerdì 27 agosto 2021

Alessandro Curioni : il giorno del Bianconiglio – recensione

 



Le schede di presentazione che si trovano sul Web riguardanti l’autore di questo libro sono ben nutrite, ma la qualifica più rappresentativa mi sembra questa : presidente di Di Gi Academy, azienda di cyber security.

Che significa? Significa che fornisce corsi di addestramento per personale che le aziende devono procurarsi per tenere in sicurezza la propria rete aziendale, oltre che attività di consulenza nel medesimo campo.

Le stesse schede ci elencano per maggiore chiarezza alcune fra le ditte clienti del Curioni fra le quali assicurazioni e banche di primaria importanza e fornitori di energia, sempre di primaria importanza.

Curioni tiene anche corsi universitari ed ha cominciato la carriera come giornalista.

Prima di questo libro aveva già pubblicato due o tre libri rientranti però nel genere saggistica, questo per dire che è qualificato ai massimi livelli nella materia di cyber securuty, ma che non è uno scrittore di narrativa, mentre il libro del quale stiamo parlando è un romanzo.

Lo scopo diciamo così divulgativo – didattico dell’Autore risulta quindi evidente, ma questo lo porta a rischiare molto, tanto che i casi di accademici o tecnici che si sono lanciati prima di lui nella medesima avventura finendo per vendere non più di un centinaio di libri sono numerosi.

Un proverbio lombardo dice : “ufelè fa al to mestè”, “pasticcere fa il tuo mestiere” come dire sta attendo ad allargarti in mestieri che non sono i tuoi perché rischi il flop.

Devo dire che invece l’abilità di Curioni nell’inventarsi e nel mettere insieme una storia credibile e gustosa è stata notevole, anche se come romanziere in certi punti risulta direi un po acerbo poi si fa perdonare con altre parti del romanzo nelle quali tiene il lettore avvinghiato creando molti attimi di reale suspense.

Trovandoci di fronte a un romanzo che di fatto si iscrive al genere thriller non mi permetto certo di anticipare la trama né tanto meno il nome diciamo “dell’assassino”.

Genericamente anticipo solo che si parla di una banda internazionale di hacker di alto anzi di altissimo livello tecnico, che “craccano” il sistema informatico di una azienda italiana che opera in un settore “strategico”, dimostrando di avere la capacità di bloccare l’erogazione di servizi essenziali.

Punto, non devo anticipare altro per non togliere al lettore il piacere della lettura.

E’ assolutamente evidente che la figura del protagonista del romanzo ricalca quella dell’autore, che non racconta fatti avvenuti, ma mette in scena una narrazione perfettamente verosimile per un addetto ai lavori del suo livello.

Ecco la mia impressione dopo una più che soddisfacente lettura del libro è che questo romanzo consista al fondo in un grido di dolore da parte di un tecnico verso un pubblico che il medesimo ha constatato che non risulta per niente preparato a capire quanto disastrose possono essere le azioni degli hacker e che di conseguenza tira a campare non facendo quasi nulla per informarsi meglio al fine di mettere in atto sistemi di sicurezza sui suoi mezzi informatici che praticamente tutti usiamo quotidianamente.

L’autore cerca di farci capire che a tutti può capitare una banale truffa informatica se ci viene rifilato un virus, un Key- logger, un Trojan, uno spyware e via i seguito fino al Ransomware che ci cripta il contenuto del nostro computer promettendo di fornirci la chiave per ripulirlo solo dopo il pagamento di un riscatto in bit-coin.

Se leggendo i pochi termini informatici sopra riportati provate un senso di disagio perché non sapreste descriverne con precisione la natura, attenzione, fatevi un esame di coscienza e rendetevi conto che la vostra navigazione quotidiana sul web vi richiede un serio momento di attenzione e di formazione, non c’è santo che tenga.

Non a caso l’autore fa dire a un suo personaggio qualcosa del genere : non capisco perché per guidare la macchine ci viene chiesto di prendere la patente e invece per navigare sul web, che è molto più insidioso non ci viene richiesta alcuna formazione.

Voi magari pensate che il peggio che possa capitarvi è quello di vedervi copiati dei dati della carta di credito quando fate un acquisto mettiamo sull’onnipresente Amazon in modo che un più o meno piccolo criminale informatico possa poi fare per conto vostro uno o una serie di piccoli prelievi sulla vostra carta di credito.

Attenzione perché quello è proprio il minimo del minimo che potete facilmente risolvere cambiando le vostre credenziali per accedere al sito usando magari una password più decente e bloccando la carta di credito.

Una scocciatura d’accordo, ma non un gran danno.

Con la tecnologia che già oggi dispongono i cyber criminali magari supportati più o meno direttamente dal crimine organizzato (mafie delle varie denominazioni) fino a veri e propri stati che giocano sporco (e tutti gli stati hanno dei servizi per giocare sporco sotto copertura) può capitare che il giorno x alle ore x la corrente elettrica a seguito di un attacco informatico venga sospesa ,una centrale nucleare vada in tilt, la paratia di una diga venga aperta, il data base di un ospedale diventi inaccessibile e via di seguito col museo dell’orrore.

E mi sono limitato ad attività criminali.

Sarebbe peggio ancora passando agli impieghi di carattere militare.

Eh ma per queste cose ci deve pensare lo stato e le singole aziende, direte voi ed è vero, infatti lo stato ci pensa.

Uno dei protagonisti del romanzo infatti vedrete che è la polizia postale che non ne esce con una figura particolarmente brillante, ma sicuramente con una buona sufficienza sì.

Le aziende da come ce ne parla il romanzo ,spesso alla sufficienza non ci arrivano proprio , anche perché pare che facendo i loro conti in modo sbagliato per timore di pubblicità negativa o non denunciano gli attacchi informatici subiti o se si tratta di un Ramsonware pagano il riscatto giudicandolo sbagliando di grosso il minore dei mali.

Ma evidentemente sulla base della grandissima esperienza maturata in materia dall’autore nel romanzo ci viene detto e ripetuto che gli investimenti in cyber security alla fin fine le aziende li fanno, ma che nella quasi totalità dei casi la falla nei sistemi complessi delle grandi aziende viene dalle incredibili leggerezze del Fantozzi di turno che fa la sua leggerezza usando la rete aziendale, che ormai è abituato a considerare come quella di casa sua,

In che modo?

Molfo semplice abboccando a un banalissimo tentativo di fishing usando la posta elettronica della rete aziendale.

La cavolata più micidiale che chiunque di noi può fare per stanchezza o per colpevole non preparazione, è come è ben noto quella aprire un lik non conosciuto dalla posta aziendale (o di casa sua).

Piccola leggerezza?

No no le conseguenze possono essere catastrofiche sopratutto se si tratta di rete aziendale.

Basta leggere il libro.

Non commettiamo l’errore di pensare che gli hacker o le reti criminali di hacker essendo costituite da tecnici al massimo livello si cimentino solo in complicatissime attività che richiedono parecchio tempo per creare backdor nei sistemi informatici di enti e aziende con virus raffinati da loro inventati.

Come tutti i professionisti anche questi criminali seguono il principio di ottenere il massimo risultato col minimo sforzo possibile e quindi sanno benissimo che per lo più basta infilare un bel link infestante confezionando un fishing che catturi attenzione e fiducia di un qualunque impiegato studiando un minuto sui social le sue abitudini e le sue passioni.

E spesso quello ci casca.

Consentitemi di chiudere con una riflessione personale.

Nei giorni scorsi mi è capitato di non riuscire a leggere il quotidiano al quale sono abbonato nella versione web ritrovando se pure in ritardo una breve nota dell’editore che chiedeva scusa per il disagio causato a suo dire da un problema tecnico.

Problema tecnico che dura tre giorni?

Avendo appena letto questo libro mi è venuto un sospetto.


mercoledì 18 agosto 2021

Parag Khanna : il movimento del mondo. Le forze che ci stanno sradicando e plasmeranno il destino dell’umanità

 




Questo è un libro di interesse assolutamente primario.

Sono da tempo affascinato dalle opere dei “futurologi” alla Yuval Noah Harari e con questo libro siamo proprio dentro a quel filone.

Di solito comincio la recensione descrivendo le qualifiche dell’autore, devo dire però che quando ci si avventura nel campo sopraccennato la materia è talmente complessa che o ci si trova davanti a improvvisati ciarlatani che giocano da tuttologi, approfittando della ospitalità dei canali social, o ci si accorge subito della statura nettamente fuori dal normale di menti geniali che hanno saputo investigare una buona gamma di discipline diverse, cosa purtroppo ancora piuttosto lontana dall’offerta formativa delle università italiane.

La specializzazione anche spinta ci vuole, ma questo non deve alzare steccati, perché ormai senza un approccio pluridisciplinare ancora più spinto è ben difficile decrittare il mondo moderno con qualche successo.

Ed allora non ci si stupisce che l’autore,che tra l’altro ha riscosso un considerevole successo sul canale di divulgazione scientifica Ted, si presenta con la dizione non proprio ortodossa di “ politologo e consulente strategico globale”.

In trecentocinquanta pagine dense ma scorrevolissime, Khanna autentico cittadino del mondo a cominciare dalla sua esperienza di vita e di lavoro scientifico accademico, comincia l’analisi diciamo dalla profezia di Robert Malthus che per primo segnalava a metà ottocento che la limitatezza delle risorse avrebbe condotto a non avere abbastanza beni per sostenere un umanità in costante aumento demografico.

Non è un caso che un’altro genio contemporaneo Bill Gates oltre un secolo e mezzo dopo non si stanchi di ripetere che un espansione demografica fuori controllo vada in qualche modo frenata.

Oggi le cose stanno molto diversamente da come era descritto nelle analisi di Malthus perché nel frattempo il mondo sviluppato ha bloccato la sua espansione demografica creando nuovi e difficili problemi, ma il mondo in via di sviluppo va ancora alla cieca su ritmi di espansione suicidi.

L’autore analizza ma non spara giudizi di sorta, semplicemente prende atto della bomba a orologeria demografica e vi accosta l’analisi dell’altra bomba a orologeria contemporanea, quella del cambiamento climatico, anche questa parzialmente fuori controllo.

Ma non basta manca il terzo rebbo del tridente, che consiste nell’evoluzione tecnologica che aumenterà l’esercito dei non occupati.

Di fronte a queste tre fonti di sconvolgimento già in atto l’autore ci dice che non è la prima volta nella storia che l’umanità intera è stata minacciata praticamente di estinzione se non avesse trovato modi per reagire.

Stante il titolo del libro è giocoforza aspettarsi che per l’autore la risposta da mettere in atto per consentire alla nostra specie di sopravvivere è ricorrere a quello che la medesima specie ha già fatto più volte nella storia e cioè non solo aprirsi alle migrazioni, ma riprogettarsi come specie nomade.

L’idea è chiaramente radicale, ma nessuno pensi che porti l’autore a semplificazioni alla Papa Bergoglio e compagni : accogliere tutti da una parte o al suo opposto : America first alla Trump e compagni.

Khana non è un politico e quindi non è interessato a dare risposte semplici o semplicistiche.

La sua è una analisi approfondita delle spinte in atto per smuovere l’umanità.

Dove si andrà in prevalenza non lo anticipo, il lettore lo scoprirà godendosi la descrizione degli angoli più diversi del mondo.

La filosofia sottesa a questo libro è qualcosa di raffinato e di complesso, per la qual cosa vorrei rassicurare il lettore che se la tendenza di fondo è quella della migrazione, questo non significa che tutti debbano diventare nomadi.

Come sempre ci saranno luoghi privilegiati nei quali non sarà affatto necessario fare le valigie.

E’ chiaro che l’autore ha una fiducia di fondo nella ragionevolezza dei suoi simili e confida ancora di più sulle enormi potenzialità della scienza moderna.

Certe analisi dei rischi in atto non sono una lettura confortante, ma le continue aperture sulle soluzioni “avveniristiche” già presenti o in progetto sono fortunatamente una forte spinta a confidare in un futuro di progresso.


mercoledì 4 agosto 2021

Beatrice Gallelli : La Cina di oggi in otto parole – recensione

 



I lettori di questo blog ricorderanno che ho già recensito di recente altri tre libri sulla Cina contemporanea, uno scritto da un sinologo Adriano Madaro e gli altri due da giornalisti Filippo Santelli e Simone Pieranni.

Il libro del quale parliamo ora è scritto da una sinologa qualificata docente alla Ca Foscari e all’Università di Bologna che a mio avviso ha fatto un piccolo capolavoro consistente nel fatto che è riuscita a esprimere quello che è essenziale per trasmettere le idee fondamentali sulla Cina contemporanea in sole 180 pagine.

Pagine documentate e provviste di note e bibliografia come si conviene a un’ accademica perfino riportando per ogni concetto importante la translitterazione in Mandarino, cosa che invece di appesantire fa entrare in modo affascinante nel mondo del quale si parla.

Ci sono le nozioni fondamentali della storia della Cina.

Così come c’è il tentativo di presentare l’essenziale della civiltà cinese come storia, filosofia, cultura.

Ma a mio avviso c’è sopratutto la volontà di prendere il toro per le corna affrontando dal principio alla fine il problema dei problemi per chi come noi in quanto Occidentali non riusciamo a fare a meno di pensare in fondo in fondo che la Cina, ormai a un soffio dall’essere la prima superpotenza del mondo, dovrà necessariamente passare per illuminismo e democrazia rappresentativa.

Ecco la Gallelli come gli autori che abbiamo sopra citati ci ammonisce a volte direttamente, più di frequente indirettamente che se c’è un modo per non capire pressoché nulla della Cina questo è partire dalla pretesa di esportare in quell’enorme paese le nostre filosofie culture e istituzioni.

Questo non significa ovviamente che sia inevitabile fare il contrario, cioè che siamo noi che dovremmo importare i sistemi vigenti in Cina.

Ma forse è giunto il tempo di togliere di mezzo i pregiudizi, i luoghi comuni, spesso frutto di semplice non conoscenza delle realtà asiatiche per cercare di capire cose che sono diverse dalle nostre e che è verosimile che diverse rimarranno.

Veniamo anche noi allora al nocciolo del problema.

La Cina è governata da un partito unico, quello Comunista e si dice nei nostri media da un solo autocrate in modo autoritario Xi Jinping.

E questo ci risulta indigesto in modo abbastanza radicale tanto da farci pensare che come il comunismo è caduto nell’Europa dell’Est insieme al muro di Berlino nell’89 non si capisce perché lo stesso non stia accadendo in Cina.

Ma non basta, il contenzioso si aggrava ancora se ci aggiungiamo il fatto che i nostri media continuano a ripetere che in Cina non c’è rispetto dei diritti umani.

Il problema è quasi tutto qui.

Ma le due affermazioni sopra riportate sono vere o false?

Formalmente sono vere, la realtà però è complessa, sfaccettata e contraddittoria, tanto da non consentire una risposta netta a livello di vero-falso.

Partiamo allora da un altro punto di vista : il regime cinese così come si presenta negli ultimi anni funziona o non funziona?

Xi Jinping l’anno scorso ha notificato al suo paese senza essere smentito in Occidente che ila Cina aveva raggiunto l’obiettivo prefissato anni prima di debellare la povertà entro il 2020.

Non mi sembra cosa di poco conto.

Aggiungiamo che la Cina continua ad essere la “fabbrica del mondo” dopo decenni di globalizzazione se pure in misura leggermente inferiore al passato.

Last but not least la Cina ha superato da tempo lo stadio sopra citato di fabbrica del mondo per prodotti a basso prezzo per entrare alla grande nell’alta tecnologia e questa è la ragione per la quale Donald Trump si era messo a fare il diavolo a quattro sull’esportazione della tecnologia del 5G elaborata dalla Huawei che stava coprendo tutto il mondo, lasciando l’America a bocca asciutta.

Non parliamo della capacità di contrastare la diffusione del Covid 19 dimostrata a Wuhan, con misure poi copiate in ritardo dal resto del mondo.

Questo che significa, che i regimi autoritari funzionano meglio delle democrazie?

La domanda è politicamente scorretta ma però i politologi e non solo se la stanno stanno ponendo con imbarazzo e sofferenza un pò dovunque.

Ecco probabilmente anche questo è un dilemma che non ammette una risposta netta del tenore di vero-falso, perché vanno ben studiate le sfumature.

I tre autori che si sono citati all’inizio hanno chiarito ai lettori dei loro libri che per capire la Cina occorre innanzi tutto partire dalla loro filosofia che è molto differente dalla nostra, nel senso che mentre noi poniamo come fine ultimo la realizzazione dell’individuo, la civiltà cinese si pone come obiettivo primario realizzare l’armonia della comunità.

Corollario che mi sembra importantissimo da aggiungere all’affermazione precedente è il fatto largamente condiviso fra gli esperti di cose cinesi e consiste nella constatazione che la popolazione pare condividere in larghissima parte questo presupposto filosofico.

E’ chiaro che se si tiene conto di questi presupposti culturali si capisce subito che esportare in Cina il nostro decalogo sui diritti umani diventa un problema serio perché la sensibilità è diversa.

Chiariamo subito che un’adesione alla sostanza di quello che intendiamo per diritti umani c’è ed è condivisa, ma le priorità sono diverse.

Non trascuriamo poi il fatto che il peso dell’indegno comportamento delle potenze colonialiste che con la “guerra dell’oppio” hanno umiliato quella millenaria civiltà grava ancora nel portato culturale di quel popolo non disponendolo certo a prendere per buona e migliore della loro la “civiltà occidentale”.

Mettiamo poi in conto il fatto che non siamo portati a dare il giusto peso al fatto che siamo condotti fuori strada nei nostri giudizi dalla potentissima propaganda dei media americani sui temi sensibili di Hong Kong,del Tibet, della condizione della minoranza islamica uiguri nello Xinjiang ,dei fatti di Tien an Men e di Taiwan.

Non che manchi la uguale e contraria offensiva propagandistica del governo cinese, ma è un fatto che gli Usa, per perseguire i loro interessi, che spesso non coincidono affatto coi nostri in quanto europei ci condizionano pesantemente ripetendo all’infinito gli stessi ritornelli fino a convincerci nel profondo che solo la loro versione sia quella buona.

Ma non è così.

Faccio un esempio che credo sia calzante.

Se chiedessimo a un passante se sulla base delle sue conoscenze il Tibet del Dalai Lama è un paese indipendente che è stato a un certo momento invaso dai Cinesi , sono certo che questi risponderebbe di sì.

Perché così credono quasi tutti in Occidente sulla base della propaganda americana.

La realtà come recitano i libri di storia occidentali compresi è che il Tibet è sempre stato una provincia dell’Impero cinese salvo mi pare per tre anni, dicesi tre, quando a seguito della crisi dell Impero è stato momentaneamente dichiarato indipendente.

Sugli Uiguri, idem come sopra, sarebbe opportuno leggersi oltre alla versione della propaganda americana anche la versione cinese e qualcuna indipendente, cercando di verificarne l’indipendenza.

Ma torniamo al punto della autocrazia.

Poco si sa da noi sul fatto che in Cina esistono elezioni a livello di villaggio e di quartiere urbano da decenni.

Ma non è questo il nocciolo del problema che sta da un’altra parte.

La meritocrazia.

Siamo abituati anche in questo caso influenzati dalla propaganda americana a considerare gli Usa il paese nel quale vigerebbe il più alto rispetto della meritocrazia.

Poi il diffondersi di ineguaglianze sempre più marcate insieme a segnali di diffuso razzismo ci hanno insinuato qualche dubbio.

In Cina nessuno può mettere in dubbio il fatto che la meritocrazia sia stata alla base delle istituzioni imperiali da sempre.

Infatti i testi di storia che si usano nelle nostre università parlano in modo approfondito degli “esami imperiali” estremamente selettivi che stavano alla base dell’apparato istituzionale del millenario impero cinese.

Oggi le cose incredibilmente non sono cambiate.

E’ vero c’è un partito unico ma per diventare dirigenti non si fanno le primarie ma si fanno esami seri e molto selettivi.

Non basta ,più il livello della carica è alta e più oltre al superamento degli esami è richiesto un solido curriculum che comprenda l’avere svolto attività dirigenziale amministrativa a livello territoriale inferiore.

Per di più nell’era attuale di Xi Jimping, si dà una preferenza di fatto a lauree nei più prestigiosi atenei nelle materie che da noi si indicano con la sigla STEM (scienza,tecnologia,ingegneria e matematica).

Il Partito Comunista Cinese è diretto da ingegneri non da avvocati come da noi e la cosa ha di per sé conseguenze.

Se si studia la reale situazione delle istituzioni cinesi e il seguito o consenso che hanno nella società è inevitabile accorgersi che non ci troviamo di fronte a un dilemma fra autocrazia e democrazia, ma fra meritocrazia e populismo come si direbbe oggi.

Non a caso i Cinesi hanno vissuto l’assalto al Congresso Usa dei seguaci di Trump come una palese dimostrazione dal loro punto di vista della superiorità delle istituzioni meritocratiche.

E’ una bella riflessione alla qual invito il lettore, senza dimenticare i punti deboli che il nostro Platone vedeva nella democrazia scrivendone nel libro sesto de La Repubblica duemilaquattrocento anni fa.

Guarda caso lui prediligeva quella che chiamava la repubblica dei filosofi, traducibile oggi con meritocrazia.

Qualcuno ricorda che Confucio era grosso modo contemporaneo di Platone., altra interessante coincidenza?