giovedì 30 gennaio 2020

Vito Mancuso le vie della bellezza




Continuo a trovare formidabili questi brevi trattati che coprono le varie branchie della filosofia che è riuscito a donarci Vito Mancuso da quando si è felicemente determinato a lasciare la stagione della teologia per cimentarsi più utilmente per i lettori alla filosofia.
Ci lasciati da pochi giorni il più grande dei filosofi italiani contemporanei, giunto felicemente e lucidissimo in tarda età Emanuele Severino.
Molto vicini il percorso umano dei due autori, che se ha qualche differenza questa è dovuta in gran parte al fatto che fra i due passano alcuni decenni, e oggidì i tempi vanno velocissimi.
Severino teneva cattedra alla Cattolica con grande successo e seguito fra gli studenti fino a che la sua illusione di poter fare ricerca scientifica libera in ina istituzione culturale cattolica lo ha portato a vedersi comunicare dal Sant’Uffizio che la sua filosofia divergeva in modo radicale dall’ortodossia cattolica.
Severino a suo dire prese atto e se ne andò pressochè immediatamente emigrando a Padova con al seguito gran parte dei suoi studenti.
E la chiesa istituzionale fece il solito affare tutto in perdita, finendo nella attuale inconsistenza, anche causandosi amputazioni come quella.
Inutilr ripetere che Mancuso ha avuto un percorso umano e intellettuale pressochè sovrapponibile.
Considero personalmente Severino un maestro, ma non mi nascondo che la lettura dei suoi libri per i non specialisti è abbastanza un problema.
La sua teoria sull’”essente” , tanto per fare un esempio, richiede un bel periodo di iniziazione solo per acquisire i significati del suo lessico.
Mancuso per nostra fortuna scrive ovviamente da filosofo calibrando anche lui molto bene le parole dando spesso al lettore in termini molto chiari la nozione da lui usata ricorrendo quasi sempre all’etimologia greca, ma è enormemente più capace di parlare all’uomo contemporaneo pur con un linguaggio adeguato.
In questi ultimi libri mi piace moltissimo oltre al vasto saccheggio della filosofia classica con riferimenti e frasi riportate nella loro interezza, finalmente l’altrettanto copioso e puntuale ricorso
ai testi delle spiritualità asiatiche da noi colpevolmente trascurate per troppo tempo.
Inutile dire che se Mancuso arriva a farsi leggere anche da una buona fetta di millenial questo immagino che derivi dal fatto che dalla biblioteca della sua facoltà di filosofia Mancuso ha saputo fare frequenti intrusioni in quelle di fisica biologia e neuroscienze, tanto che la visione del mondo che questo autore ha elaborato, una volta lasciata la teologia e la metafisica connessa, è proprio basata sulla fisica, sul corpo, sulla materia, che da Max Plank in poi non è più intesa come la si intendeva una volta, ma come energia, vibrazione, onda.
Al punto che la sua visione del mondo Mancuso l’ha se non sistematizzata, per lo meno definita derivandola dal pensiero di un neuroscienziato innamorato del filosofo Spinoza, Antonio Damasio, portoghese con cattedra in California, e l’ha chiamata “emergentismo”.
Tra l’altro in questo libro specifico il termine emergentismo mi pare che non compaia nemmeno una volta, ma trattandosi della sua visione del mondo viene fuori continuamente.
Per Mancuso la forza fondamentale nell’universo è la relazione che porta all’aggregazione in forme sempre più grandi e complesse fino al formazione della vita e poi via via alla produzione del pensiero ed alla consapevolezza di sé.
Forza fondamentale che agisce in un ambiente dinamico dove quelli che lui chiama logos e caos si sfidano in eterno.
Fatta questa premessa sulla visione complessiva del nostro autore, come c’entra il discorso filosofico sull’estetica?
Mancuso sceglie di partire dalle due visioni fondamentali sull’estetica che si sono fronteggiate nella storia del pensiero.
Quella classica che che vede la bellezza come un valore universale che esiste di per sé e che tutti pur passando in tempi e spazi diversi sanno riconoscere immediatamente.
E quella più diffusa nei tempi moderni che intende il riconoscimento della bellezza come piacere o meno e quindi si limita a una percezione soggettiva, senza una sua sostanza universale e obiettiva.
L’ultra sintesi che ho riportato sopra in quattro righe, Mancuso la svolge in una disamina accurata in
120/130 pagine di piacevolissima lettura.
Leggere un libro vale nella misura nella quale a lettura ultimata e dopo una adeguata riflessione rimane qualcosa di consistente che prima non c’era.
Se questo consistesse solo nei flash sulle più alte pagine della letteratura e della filosofia che Mancuso ci propone, a mio avviso solo questo basterebbe per consigliarne la lettura.
Dal “è la bellezza che salverà il mondo” attribuita al Principe Miskyn all’inizio dell’Idiota di Dostoevsky
a una citazione formidabile del libro biblico dei Proverbi “Un anello d’oro al naso di un maiale, tale è la donna bella,ma priva di senno”
a Meng Tzu (Mencio) “la bellezza è di natura celeste” solo se si è santi si è capaci di mantenere ciò che l’aspetto promette.
L’autore sposa la tesi dell’esistenza di una bellezza obiettiva riconoscibile da tutti, anche se ammette che non sarà mai possibile stabilire una volta per tutte un protocollo delle caratteristiche della bellezza.
Per lui non può esistere estetica senza etica.
Per carità non in senso moralistico, ma in senso filosofico, come la vedeva Platone per il quale la somma bellezza era il Bene.
Ed allora alla contemplazione della bellezza si arriva solo con un procedimento che consenta di uscire dai propri limiti del sé, dell’ego nel senso dei propri interessi per andare oltre.
Sempre Platone diceva che la contemplazione della bellezza mette le ali.
Contemplazione della bellezza non è semplicemente raggiungere una sensazione di piacere è qualcosa di più e di oltre perché la bellezza è un atto di rivelazione.
Mancuso cita una frase formidabile di Mozart nelle lettere al padre nelle quali dice che quando componeva non pensa mai di creare qualcosa ma di trascrivere qualcosa che già esisteva nel cosmo.
Ecco la prospettiva del cosmo, questo piace molto a Mancuso che qui torna spesso.
Il cosmo governato da un principio primordiale di armonia, al quale l’uomo aspira a rapportarsi.
Come sempre auguro una buona lettura.

lunedì 20 gennaio 2020

Il film su Hammamet






I film-maker fanno il loro mestiere e per elevata che sia l’opera che producono certo non trascurano di pensare che verrebbero anche farci qualche solderello.
Nel caso di questo film sugli ultimi anni di Craxi ad Hammamet le cose non saranno andate diversamente ma con qualche patema d’animo in più perché il personaggio scelto come protagonista era uscito male di scena e la sua figura politica era fortemente controversa.
Il film quindi avrebbe potuto essere avversato finendo in un fiasco con relativo disastro economico.
Personalmente ho vissuto gli anni di Craxi e non sono mai stato un suo ammiratore né come leader politico né come personaggio umano, distaccato, arrogante, in poche parole antipatico in modo deciso.
Ma sono passati vent’anni dalla sua scomparsa e il mondo è cambiato radicalmente.
Di conseguenza avevo la curiosità di vedere questo film Hammamet, certo però che tutto mi aspettavo meno che di dovere fare una lunga fila al botteghino, quasi tutta gente di una certa età, come mè del resto, ma un sacco di gente.
Ebbene una ragione c’era, il film è di indiscussa qualità.
Chi ha fatto questo film ha raggiunto una fila di risultati difficili da mettere insieme.
Non dico che ha accontentato tutti perché sarebbe una stupida banalità, ma ha volato abbastanza alto da stoppare le paranoie delle opposte tifoserie.
Innanzi tutto il voto da dare al film come giudizio artistico non può che essere elevato.
E’ la storia drammatica di un uomo che dopo essere stato il padrone di questo paese per un certo numero di anni osannato dal suo partito che lo aveva incoronato al famoso congresso dell’Ansaldo nell’’89 con una maggioranza strabocchevole, era stato distrutto dalle indagini di Mani Pulite.
Trovate le tracce di ingenti finanziamenti, il leader è stato condannato in via definitiva.
Tutto bene, tutto regolare ? ma neanche per sogno!
La sua chiamata di correo alla Camera quando invitò i colleghi a negare se ne avevano il coraggio che i soldi li avevano presi e spartiti tutti quanti,rimase ovviamente senza risposta.
L’inchiesta di Mani Pulite esaltata dai media con furia giustizialista per anni, vista vent’anni dopo mostra tutti i limiti che aveva avuto se non il suo completo fallimento.
Non fa male Stefania Craxi a ripetere se non a urlare nelle comparsate tele visive alle quali l’invitano i numeri che dimostrano nella loro assoluta neutralità il palese fallimento di quella inchiesta.
Un numero spropositato di indagati, un altrettanto abnorme numero di incarcerati per arrivare a un estremamente esiguo numero di condanne in via definitiva.
Se è vero che sarebbe buona cosa non contestare le sentenze per non nuocere alla credibilità della magistratura, è altrettanto vero che i numeri non si discutono per definizione.
Che a quella magistratura l’eccesso di copertura ed esaltazione mediatica avesse dato alla testa è difficile da contestare, come giudicare diversamente quella celebre frase del loro capo quando esternò qualcosa di simile a “se il popolo dovesse richiederci un intervento….”
Che nella conduzione delle indagini si fosse imposta una selezione dei bersagli che escludeva il maggiore partito di opposizione il PCI è altrettanto difficile da contestare.
Che il popolo che lo assalì all’uscita del Rafael con le monetine non fosse formato da illuminati cittadini che passavano di lì per caso oggi lo sappiamo tutti.
Tutti fatti ormai tranquillamente accettati pressochè da tutte le parti politiche.
Però, rimane un però grosso come un macigno.
Per fare un esempio accusato di reati non meno infamanti, quel Lucifero di Andreotti ebbe gli attributi, come si dice per presenziare quando ormai il potere l’aveva perso ed a un’età decisamente avanzata a quasi tutte le udienze.
Craxi invece si è lasciato fregare da quel suo io abnorme che lo rendeva arrogante e scostante.
Voleva un impossibile tribunale fra “pares”.
O meglio voleva che una classe politica pavida e tremante di fronte a quella magistratura, pronta a far tintinnare le manette anche al Quirinale, se del caso, avesse un sussulto di dignità e riconosciuta la realtà del magna magna condiviso da tutti, votasse una amnistia generale.
Sarebbe stata la fine dei vertici di quella classe politica, ma si sarebbe salvato il sistema dei partiti.
Non ne ebbero il coraggio e preferirono ballare un ultimo valzer indecente sul Titanic.
Per regalare all’Italia il ventennio berlusconiano, cioè il nulla.
E’ vero che rispetto ad Andreotti il contesto era diverso e che se Craxi non si fosse reso latitante gli si sarebbero quasi sicuramente aperte le porte di San Vittore.
Ma anche da San Vittore si può fare politica se uno è messo in quelle condizioni.
Quell’errore enorme lo ha fatto è innegabile, la battaglia anche da San Vittore se ci credeva avrebbe avuto un senso, da Hammamet no.
Ma proprio in questo da Hammamet no sta l’alto livello del film proprio per la estrema drammaticità della battaglia che ad Hammamet si era combattuta nella psiche di Craxi.
Avrebbe voluto essere il suo eroe riferimento di una vita, il Garibaldi in esilio, ma sapeva di non potere esserlo.
Avrebbe voluto essere lo statista ridotto all’esilio da un colpo di stato architettato da magistratura, servizi,Cia, poteri forti, ma sapeva che i suoi argomenti erano deboli.
Avrebbe tanto desiderato avere intorno i “mille” di Calatafimi magari pensando ai mille che lo avevano osannato all’Ansaldo.
Ma il tintinnio di manette in quegli anni era terrorizzante.
Addirittura il suo erede politico designato, i suoi luogotenenti,tutti volatilizzati, nessuno che avesse avuto il coraggio di spendersi per salvare il salvabile ma nemmeno per tirare fuori una parola a suo favore, anche se da lui avevano avuto tutto.
Mi è piaciuta moltissimo la trovata scenica di intrecciare tutta la vicenda di Hammamet con la presenza diretta e poi tramite il figlio dell’uomo che nel partito teneva le fila della borsa e che fin dall’Ansaldo lo aveva affrontato a muso duro denunciandogli la insostenibilità di una classe politica di yes man,che rubacchiavano a man bassa.
Il personaggio scomparso in modo mai chiarito, viene sostituito dal figlio più o meno fuori di testa, che nella narrazione scenica rappresenta probabilmente il “transfer” dei dubbi interiori dello stesso protagonista.
Questo singolare personaggio compare ad Hamamet, accolto da Craxi con evidente affetto, pur sapendo che si portava nello zaino una pistola per farsi giustizia sommaria di chi aveva secondo lui “rovinato”la vita a suo padre.
Tanta è forte la tensione drammatica dei sensi di colpa che il portatore di quel transfer, dopo un lungo periodo di odio-amore per il leader socialista, non tenta di ucciderlo,ma finisce al manicomio.
Illuminante la frase messa sulle labbra dello psichiatra al quale la figlia Craxi chiede :ma come si può curarlo?
Lo psichiatra risponde :non c’è una cura per una malattia che non è una malattia.
Nella nostra psiche, giusta o malata, siamo noi che abbiamo da combattere.
E infatti Craxi ha dovuto convivere con quelle tensioni, rimorsi,odii,sensi di colpa fino alla fine e questa forse è stata la peggiore condanna che la sorte potesse riservargli.
Il film voleva esternare questo groviglio di sentimenti e secondo me ci è riuscito.
Se poi vogliamo non risparmiarci una digressione politica direi che la drammaticità degli eventi di Hammamet è ancora più accentuata dalla incredibile sorte che alla quale è stata condannato il socialismo o più modernamente la socialdemocrazia.
La storia, dopo la caduta del muro di Berlino ne ha indiscutibilmente decretato la vittoria sul comunismo e sul liberismo, ma questa forza politica langue in tutto il mondo salvo i paesi scandinavi.



giovedì 9 gennaio 2020

Vito Mancuso Il bisogno di pensare






In questi splendidi libri più recenti, ho quasi l’impressione che l’autore voglia quasi non dico giustificarsi, ma almeno spiegare bene al lettore di avere affinato il suo pensiero superando definitivamente le limitazioni che si era auto-imposto nelle sue prime opere, che erano dei veri e propri trattati di teologia.
E’ infatti da qualche anno che abbiamo la fortuna di leggere il Mancuso filosofo, che si abbevera particolarmente dei grandi classici greci, degli stoici, del suo particolarmente amato Kant fino ad arrivare ad Hannah Arendt, Pavel Floresky, Teillard de Chardin, Raimond Panikkar, tenendo conto delle più recenti acquisizioni delle neuroscienze e particolarmente dal neuroscienziato cognitivo Antonio R. Damasio.
E’ come se Mancuso dicesse, e in effetti in alcuni passi lo dice proprio apertamente, guardate che io l’esperienza di giacere sotto il peso di una fede dogmatica ,che costringeva all’ubbidienza verso l’autorità esterna di una presunta rivelazione divina, con tutta la sua arbitrarietà, l’ho fatta e l’ho sofferta tutte le volte che dovevo rilevare l’assoluta insostenibilità logica di assunti fondamentali di quella fede.
Ora ho trovato la pace interiore e la sensatezza di un pensiero sistematico libero, ma non fatemi il torto e l’offesa di pensare che chi supera quella fede non abbia più una fede e non sia più un credente.
Semplicemente credo in qualcosa di più sensato che reputo superiore, e cioè in una nuova spiritualità che si abbevera dalla philosofia perennis e dalle intuizioni di tutte le tradizioni religiose nostre occidentali e di quelle orientali.
Avvalendomi di quella che Theillard chiamava la ragione cosmica e non la ragione analitica, perché la ragione analitica che è quella sulla quale lavora la scienza è formidabile nello sviscerare le cause, descrivere i fenomeni fisici e delinearne le leggi, ma non riesce a parlare di scopo, di fine, di senso, come ha detto e scritto in più punti Albert Einstein.
Credo di non avere tradito il pensiero di fondo di Mancuso riassumendo come sopra la sua prospettiva di pensiero attuale.
Pensare, come diceva Giovanni Maria Martini è ancora più importante di credere, perché rispetto al credere è una priorità.
Mancuso da buon filosofo è molto preciso e attento alla terminologia e quindi chiedo scusa a maggior ragione per l’approssimazione di quello che scrivo.
Individuata la facoltà del pensare come quella distintiva della nostra specie,l’autore esordisce sottolineando il fatto che l’atto del pensare presuppone la capacità di uscire dal branco, l’atto di volontà di prendere il comando in casa propria.
Naturalmente tutto nemmeno può cominciare se uno non prende dimestichezza ad entrare nella propria interiorità.
Perchè l’attività intellettuale del pensare richiede la capacità di lavorare con il proprio io profondo.
Elevarsi oltre al proprio io guardandolo come dall’esterno e come dal di sopra.
Questa è la chiave di tutto.
Seguire il naturale desiderio di difendere e costruire il proprio io.
Mancuso più volte esprime la propria contrarietà a tutte quelle filosofie e spiritualità che propugnano come obiettivo supremo di vita il superamento del desiderio ,dall’ atarassia, all’ impertubabilità, al ritiro monacale dal mondo agli assurdi tormenti auto-inflitti al proprio corpo, come se non ci fossero altre vie per coltivare la propria dimensione razionale intellettuale e spirituale.
Mancuso non segue le correnti di pensiero che da gran parte delle tre tradizioni religiose abramitiche ad Agostino a Schopenhauer a Nietsche hanno una cupa visione pessimistica dell’essere umano e quindi o approdano all’idea di un dio redentore indispensabile per un uomo irrimediabilmente bacato dal peccato che da sé solo non potrebbe mai elevarsi.
Oppure arrivano al nichilismo oggi così diffuso che proclama il non senso della vita umana.
Sulla base delle tradizioni filosofiche e di pensiero citate all’inizio Mancuso invece sostiene la reale capacità dell’uomo di trovare in sé e solo in sè, nel proprio intimo la capacità e la forza di elevarsi sopra di sé, di arrivare all’autocoscienza ed alla proprio crescita nella sapienza e nella saggezza.
Ma non per poi realizzarsi seguendo un certo pensiero unico (ritenuto progressista ,lo dico io perché Mancuso è molto attendo a non prendere posizioni che potrebbero essere equivocate come ideologiche o peggio politiche).
Mancuso dice invece molto chiaramente di non condividere l’etica che vorrebbe che la realizzazione del bene passi esclusivamente dal fare per gli altri.
Definisce invece la priorità di un etica personale rispetto ad una sociale.
Come mai questo concetto chiave viene da un filosofo che ha e non rinnega certo le radici che derivano dalla sua formazione negli ideali evangelici ?
Ecco questo è importante per capire la sistematicità del pensiero attuale di Vito Mancuso.
Perchè come si è detto Mancuso prima rifiuta le tradizioni di pensiero che invitano al superamento dei desideri e poi bolla come erronee quelle medesime tradizioni che privilegiano l’etica sociale su quella personale?
Perchè il suo pensiero in quanti sistema di pensiero compiuto egli stesso lo definisce come “emergentismo”, confessandolo di averlo mutuato in parte dal neuroscenziato cognitivo Damasio.
Il sua sistema ha basi essenzialmente fisiche.
Consiste in questo.
L’osservazione della realtà dimostra che tutto è strutturato nel senso di aggregazioni di singole parti in strutture sempre più complesse che arrivano a formare dei sistemi.
Perchè la forza motrice del tutto consiste nella spinta verso la relazione.
Niente esiste senza la relazione che spinge verso aggregazioni.
Gli elementi subatomici per formare l’atomo.
Azoto che si aggrega con ossigeno per formare l’aria.
Idrogeno e ossigeno per formare l’acqua.
Cellule per formare tessuti.
E così via.
Quattro miliardi di anni fa le aggregazioni dal magma primitivo portano alla formazione del primo protozoo dando origine alla vita.
La vita è un po' l’icona della sistemazione di pensiero di Mancuso, perché questi dice, la vita rappresenta un di più rispetto alle singole sostanze che compongono i primi organismi, perché questi non sono spiegabili assolutamente con i loro componenti come non è possibile arrivare banalmente al sapore della torta partendo dal sapore della farina e delle uova.
Non chiamiamola finalità per non evocare teorie più o meno erronee e ideologiche, ma parliamo di spinta alla relazione ed all’aggregazione verso sistemi sempre più complessi.
Mi fermo qui per non banalizzare un lavoro di pensiero egregio e di livello notevole che merita di essere letto e studiato, sfruttando il fatto che non è affatto di difficile lettura.







venerdì 3 gennaio 2020

Vito Mancuso Il coraggio di essere liberi





Un saggio filosofico di 100 pagine intense ma leggibilissime.
Si naviga da Eraclito ai sommi greci, Parmenide, Cartesio,Pascal, Kant che rimane sempre il più nel cuore e quindi il più citato da Mancuso, fino ai suoi pure particolarmente amati Pavel Florensky e Simone Weil.
Dalla Bibbia al Gilgmesh ai classici orientali , dal poco amato Agostino ai molto amati Teillard de Chardin e Raimond Panikkar.
Saper scrivere saggi di filosofia che spaziano come questo libro da libero arbitrio a senso del dolore al problema del male, dalla teodicea al senso della morte ,libri che poi arrivano a vendere qualcosa come 800.000 copie, bisogna veramente essere bravi.
Seguo Mancuso dai suoi primi libri e quando l’ascolto nelle sue apparizioni pubbliche mi sento ancora più ben disposto nei suoi riguardi apprezzando la sua naturale umiltà , atteggiamento non certo comune.
Quando si va a sentire una conferenza di Mancuso se ne esce portandosi dietro almeno un po' della serenità che comunica questo intellettuale chiaramente completamente in pace con sé stesso.
Affronta e probabilmente aiuta a risolvere per quanto possibile problemi teorici che accompagnano la riflessione umana da secoli con una naturalezza sorprendente.
Do solo qualche accenno perché questo è un libro che va letto e sopratutto studiato, riassumerlo non ha senso.
Mancuso nel corso degli anni, sfornando pagine su pagine è partito suo malgrado dalla teologia e quindi ,mi si permetta, con la palla al piede di una dogmatica che impone addirittura obbedienza e che quindi confligge con la libertà di ricerca.
In questa situazione sicuramente penosa anche per lui ha cercato di riscrivere quella teologia evidenziando il fatto che tutta quella surdimensionata costruzione teorica andava alleggerita almeno dai “dogmi” che di fronte a una analisi critica proprio non sono mai stati in piedi e ne ha prodotto una analisi molto documentata e puntuale.
Poi affinando e irrobustendo il suo pensiero si è accorto che la strada intrapresa non portava da nessuna parte e che probabilmente la fatica non valeva la candela sia perché nel frattempo la istituzione religiosa perdeva continuamente pezzi diventando sempre più irrilevante nel mondo moderno, sia perché le gerarchie imperanti sembravano proprio non capire che senza un rinnovamento radicale le cose sarebbero andate se possibile ancora peggio.
Mancuso non è il tipo da amare la polemica o da trarre piacere dalla sconfitta intellettuale degli altri
e quindi non è interessato ad andare contro o a confutare idee altrui, o a proclamarsi credente o non credente.
Semplicemente va oltre.
Ha di fatto elaborato nel tempo una sua costruzione di pensiero sistematica e coerente ,che chiama
“emergentismo”.
Fino dalle sue prime opere di teologia sistematica si era dimostrato estremamente interessato a delineare un nuovo tipo di cosmologia.
Voglio dire che tutta la sua riflessione filosofica è sempre partita dalla fisica.
Sappiamo bene che questa era la strada percorsa da chi la filosofia l’ha inventata nella Grecia classica, ma non è certo un approccio comune oggi.
Dall’osservazione della natura a cominciare dal microcosmo derivano una serie di punti fermi fondamentali.
Le costanti (le forze) fisiche fondamentali, l’evidenza stessa di un passaggio da elementi più piccoli e più semplici ad aggregazioni più grosse e più complesse.
Dalla materia , che in una visione più aggiornata non è più materia ma si è scoperto essere energia probabilmente sotto forma di onda, per evoluzione si arriva alla vita e poi all’Homo Sapiens.
Con un processo di aggregazione verso sistemi sempre più complessi si arriva al passo più significativo quando nella mente umana si produce pensiero e autoconsapevolezza di sé.
Quando Mancuso trattava queste materie nell’ambito della teologia rischiava di incartarsi sfiorando il mito della creazione del mondo da parte di una presunta intelligenza divina e quindi rischiando di offrire la sua riflessione intellettuale di tipo cosmologico a un ragionamento di tipo teleologico.
Cioè l’evoluzione verso forme sempre più complesse sarebbe la dimostrazione di una finalità di fondo orientata da quella presunta intelligenza divina.
Questo rischio mi sembra definitivamente superato in queste sue ultime opere dove il concetto di aggregazione progressiva verso sistemi sempre più complessi, rimane alla base della sua cosmologia, ma l’orizzonte si amplia.
Ci entra con pari dignità la meccanica quantistica di Bohr,che contraddice ogni visione di necessità e di determinismo.
Insieme al principio di indeterminazione di Heisemberg.
Va bene quindi la riflessione sul processo di aggregazione progressiva verso sistemi sempre più complessi, ma guardando contemporaneamente all’azione costantemente messa in campo dal caos originario.
Mancuso ha forse giustamente una particolare simpatia per i termini del greco antico e quindi indica col termine Logos l’idea di spirito, anima del mondo.
Questo è tipico della sua cosmologia vedere il vertice dello spirituale incarnato del profondo del cosmo materiale, nel naturale, nel fisico, nel corporeo dandogli senso.
Accanto al Logos ecco in azione il Caos primordiale in continua commistione dialettica.
Da questa visione Mancuso si adopera a dare un senso al male, al dolore, alla morte, mi sembra con argomentazioni efficaci.
Non c’è la vita da una parte e la morte dall’altra, il processo va guardato nella sua unitarietà dialettica, che ci ha consentito e ci consente di vivere.
Quando leggevo il primo Mancuso teologo mi stupivo del fatto che la sua cosmologia già allora incentrata su una visione dialettica del reale, fosse da lui enunciata chiaramente, ma tentando di salvare la costruzione culturale complessiva del cattolicesimo.
Mi stupivo perché la pur stupenda costruzione illustrata da Dante nella Commedia che è una perfetta illustrazione della visione della cristianità medioevale era la rappresentazione di un mondo statico che considerava la dialettica come peccato da superare per pervenire alla immobilità assoluta della contemplazione dell’Altissimo rappresentante la fine di ogni forma di dialettica.
Le due cose non potevano stare in piedi, e infatti nel Mancuso filosofo di oggi si è arrivati a un sistema coerente tutto incentrato sulla dialettica del reale.
Buona lettura.