giovedì 25 marzo 2021

Dino Messina : Italiani per forza. Le leggende contro l’unità d’Italia che è ora di sfatare - recensione

 






Chi scrive avendo oramai una certa età fa parte di coloro che pur essendo nati a guerra quasi finita hanno ricevuto nella loro non breve permanenza sui banchi di scuola un’offerta formativa come si dice oggi che privilegiava la storia del Risorgimento in assoluto, senza affrontare colpevolmente i molto più cruciali argomenti legati a guerra fascismo antifascismo e democrazia.

Le generazioni successive sono state più fortunate avendo potuto usufruire di un insegnamento di storia contemporanea sicuramente più aggiornato e consono ai tempi.

Quindi io dovrei essere molto ferrato sulla storia del Risorgimento.

Leggendo questo ottimo libro appena uscito mi accorgo che non è così forse a causa del fatto che la storia mi era stata presentata veramente alla vecchia maniera come successione noiosissima di eventi scadendo spesso nella esaltazione patriottica.

I libri di storia di quegli anni purtroppo non contemplavano l’integrazione della storia con materie come l’economia, la sociologia, l’antropologia, la geopolitica eccetera.

L’idea di inter- disciplinarietà oggi divenuta ovvia allora proprio non attaccava.

L’ammodernamento decisivo nella didattica della storia l’hanno dato probabilmente gli storici sopratutto francesi della nouvelle histoire seguiti da buoni divulgatori che hanno redatto tra l’altro le serie : “come si viveva ai tempi di…” riportando la storia da noiose guide telefoniche a narrazioni nelle quali potevamo riconoscere noi stessi e le radici dei movimenti che hanno lasciato un segno indelebile nella storia.

Fatta questa premessa è superfluo aggiungere che questo lavoro di Dino Messina si inserisce perfettamente in questo modo di fare lo storico, rimanendo ovviamente coerente a una rigorosa analisi delle fonti, ma sempre cercando di far vedere al lettore quali erano le condizioni esistenziali degli uomini di quei tempi.

L’autore in effetti è di professione giornalista del Corriere, per il quale a ha lavorato per trent’anni,

anche se la sua attività è tutta incentrata sugli studi storici.

Sulla questione meridionale si sono scritte intere biblioteche.

La questione oggi sussiste e la disputa su :”il Nord ha depredato il Sud” versus “il Nord è frenato nello sviluppo dalla palla al piede del Sud al quale continua a versare soldi” è ben lungi dall’essere sorpassata.

E’ evidente che la questione esiste e si fonda su dati obiettivi, ma anche che è spesso e volentieri viene presentata da opposti schieramenti fondamentalisti, che partono da pregiudizi ideologici.

E questa è la ragione per la quale un libro come questo è il benvenuto, perché è scritto senza pregiudizi e con lo scopo esplicito di fare chiarezza, fornendo dati e non propaganda a chi desidera farsi un’opinione sulla questione che si possa sostenere su una documentazione seria.

Non c’è nessuna storia da riscrivere, c’è solo da cercare le fonti più attendibili per vedere come sono andate le cose nella maniera più verosimile.

Inutile nascondere che gli slogan spesso beceri della prima Lega Nord che si rifaceva a miti nebulosi storicamente di dimostrazione inesistente hanno obiettivamente offeso i sentimenti dei meridionali, costringendoli a mettere in atto una reazione uguale e contraria.

E’ così venuta alla luce una vasta pubblicistica di carattere apertamente neo-borbonico, che ha finito per appoggiarsi sulla parte più tradizionalista del cattolicesimo italiano, che le ha offerto gli allora potenti mezzi propagandistici dei quali poteva disporre.

Non è certo difficile trovare un certo numero di assistenti universitari ,(allora esistevano ancora) pronti a buttarsi a capofitto su tutto quanto potesse trovarsi per seguire delle tesi preconcette firmando poi col solito trucco di Tal dei Tali dell’Università Talaltra.

Proprio tutto quello che gli storici veri non devono fare e infatti non fanno.

Vendendo come lavoro scientificamente corretti dei puri panphlet propagandistici si è così cercato di far passare per buona una contro-storia dell’Unità d’cc Italia che diceva il contrario di quello che c’era scritto e c’è scritto sui libri di storia.

Cioè per esempio che le truppe piemontesi si sarebbero comportate negli anni delle annessioni come le truppe naziste.

Che il Sud avrebbe subito l’Unità contro voglia e senza appoggiarla.

Che l’economia dei Borbone sarebbe stata più sviluppata di quella di Cavour e via di seguito.

Questo libro riesce a riportare la diatriba sui binari della ragionevolezza sulla base di documenti attendibili e non di miti sostenuti sul nulla o sui soliti trucchi di mettere insieme delle tesi precostituite facendo il taglia e incolla, di testi attendibili ma che dicono ben altro.

Tanto per cominciare i mitici Mille appena sbarcati rimasero mille per pochissime ore per diventare progressivamente diverse decine di migliaia delle quali almeno la metà era formata da meridionali, che volevano scrollarsi di dosso l’arretratezza del governo più reazionario e retrivo d’Europa, quale era quello dei Borbone, l’unico che non concedette ovviamente per conservarla una costituzione.

Poi il mito neo-borbonico si basa più che altro sui famosi pochissimi chilometri di ferrovia Napoli-Portici di ben 7 km.

Inaugurata nel 1839 e usata quasi esclusivamente dalla corte per portare a caccia i Borbone, per dire che l’industria voluta dai Borbone era sviluppatissima.

Il libro del quale parliamo mette giustamente in evidenza il fatto che il problema vero non era tanto il divario Nord Sud, ma l’intollerabile ritardo con il quale l’intera Italia stava allora arrancando dietro Inghilterra e Francia che erano partiti per tempo con la rivoluzione industriale producendo cento volte di più per esempio ferro e cotone di quanto produceva l’Italia Unita.

Risibile comunque paragonare il livello penoso delle infrastrutture lasciato dai Borbone con quello che aveva stava costruendo il Piemonte con grandiosi investimenti.

Il mito neo-borbonico si alimentava poi dalle leggende delle insorgenze verificatesi per mano dei briganti vendendo questi come patrioti – resistenti.

E’ vero che le truppe piemontesi hanno avuto la mano pesante ma che i briganti fossero appunto briganti e non patrioti è storicamente del tutto assodato.

Purtroppo per loro hanno combattuto una guerriglia persa in partenza non foss’altro per la assoluta impossibilità di confrontarsi con un esercito regolare enormemente più numeroso e organizzato.

E’ vero che hanno impegnato il medesimo esercito per un periodo abbastanza lungo, ma si trattava di un esercito addestrato alla battaglia campale e non certo alla guerriglia.

Infatti quando poi i comandi hanno capito l’antifona e hanno cambiato tecnica, per il brigantaggio non c’è stata via di scampo.

Complessivamente buon libro e non solo per la documentazione fornita sulla questione meridionale, ma anche come si diceva per farci capire come si viveva allora.

A questo proposito cito un dato per tutti .

I nostri antenati al tempo dell’Unità avevano un reddito annuo a parità di potere d’acquisto di 2.000 €, sì avete letto bene.

La vita allora era assolutamente più frugale di oggi.

Mi si consenta alla fine una osservazione personale.

Se è storicamente assodato che il regime borbonico era allora forse il più retrivo e arretrato d’Europa, a quando potremo leggerci e documentarci su un bel saggio come questo che abbia per argomento il modo governare delle Santità loro del Vaticano negli stati della chiesa?

Possibile che questo argomento rimanga un tabù ?





sabato 20 marzo 2021

Carlo Maria Cipolla : Il pestifero e contagioso morbo. Combattere la peste nell’Italia del seicento – recensione

 





Da quando è scoppiata l’epidemia poco più di un anno fa questo è il quarto libro al quale dedico una recensione su questo Blog che tratti appunto delle epidemie più o meno celebri del passato.

L’autore è stato uno dei nostri più brillanti storici dell’economia.

Ha insegnato in università italiane e americane e questo saggio specifico lo aveva scritto proprio quando era in America pubblicandolo solo in inglese.

L’Editore il Mulino ha deciso di pubblicarlo postumo tradotto in italiano qualche anno fa.

Si tratta quindi di un opera tipicamente accademica, rigorosamente basata sulle fonti ivi citate,scelte criticamente, ma trattata con il senso dell’humour e dell’ironia che caratterizzano i più noti piccoli saggi di Cipolla, che lo hanno fatto conoscere ed apprezzare al grande pubblico.

Siamo come dice il sottotitolo nell’Italia del seicento e la peste della quale si parla si diffonde un secolo dopo quella che tutti abbiamo conosciuto dalle celebri pagine del Manzoni.

Letto il libro con grande facilità e soddisfazione, devo dire anche per merito della sua brevità (170 pagine note comprese) la prima osservazione che mi viene di fare è questa.

Abbiamo cercato in questi lunghi mesi di Covid 19 di portare pazienza, di controllare la paura dell’ignoto virus e di non scaricare tutta la nostra irrequietezza su una classe politica che già non se la passava bene nemmeno prima, che scoppiasse questa epidemia.

Ma quando si legge in questo libro ad esempio il capitolo dedicato alla peste a Pescia allora piccolo borgo appena sopra a Firenze, si resta a bocca aperta apprendendo che in quel periodo storico la scienza medica non era in grado di conoscere neanche lontanamente la causa effettiva del morbo (batterio Yersina pestis ospitato nelle pulci, parassite dei topi) e di conseguenza i medici sapevano bene di non essere realmente in grado di curare la malattia, e non potevano far altro che cercare di metter in atto delle misure di contenimento e prevenzione, sulla base del normale buon senso.

Dicevamo, si apprende dalle carte citate dal Cipolla che questi nostri lontani antenati seppero mettere in atto velocemente dei piani di intervento incredibilmente azzeccati.

Allora l’equilibrio del potere politico era abbastanza complicato.

Nel caso specifico al vertice c’era il Granduca di Toscana, che però nella narrazione rimane abbastanza lontano.

La partita vera se la dovevano giocare i notabili locali cioè qualche nobile ,i maggiorenti e il clero.

Eravamo quindi ben lontani da forme democratiche di governo, ma è sorprendente dover constatare due cose che non ci sembra nemmeno vero dover constatare come realmente avvenute allora.

Cioè quelle forme di governo che oggi vediamo come arcaiche autoritarie e più che obsolete seppero agire velocemente seguendo due criteri che oggi fatichiamo moltissimo ad applicare.

Prima di tutto si inventarono strutture totalmente nuove che erano i Magistrati alla Salute.

Poi, incredibile ma vero, scelsero per quelle cariche nuove delle persone adatte seguendo il criterio della meritocrazia e della competenza.

Che i due criteri citati sopra siano fondamentali fu dimostrato dal fatto che mentre mediamente anche nelle zone limitrofe la media dei danni delle epidemie di peste si concretizzavano nella diffusione del morbo in circa la metà della popolazione portando alla morte circa un terzo della medesima, a Pescia la percentuale di mortalità fu limitata all’ 1,5%.

Risultato strabiliante.

Strabiliante anche il fatto che non ostante il celebre precedente del Card. Federigo che fece portare in processione i resti di San Carlo dando un contributo deciso al diffondersi della peste, i Magistrati di Sanità toscani riuscirono a bloccare le liturgie e addirittura a convincere il Vescovo a chiudere le case di ecclesiastici o conventi in odore di contagio.

Perchè questo allora avevano capito bene : l’unico mezzo efficace di contenimento e di prevenzione del morbo era l’individuazione e l’isolamento dei contagiati.

Il Cipolla ci dà un idea precisa di come era strutturata la società allora.

I nobili e gli abbienti, piccola minoranza erano decisi a gestirsi da soli anche perché ne avevano i mezzi.

Allora gli ospedali non erano istituzioni di welfare aperti a tutti, ma erano istituzioni di carità dove andavano solo i poveracci, che tra l’altro erano quasi tutti.

Cipolla riporta con rigore il senso delle denominazioni di allora : i “cittadini” erano i maggiorenti, gli “attori” erano gli artigiani i bottegai e il popolo lavoratore in generale.

Gli ospedali e i lazzaretti erano per gli “attori”.

A fatica i Magistrati di Sanità riuscivano a far portare ai lazzaretti i maggiorenti notoriamente contagiati, ma alla fine ci riuscivano venendo a patti con loro.

Si tenga conto che il morbo aveva un decorso decisamente veloce, pochi giorni (dai tre ai sette) e si guariva o si andava nel mondo dei più, con una percentuale media di decessi del 50% dei contagiati.

Di conseguenza andare al lazzaretto non era certo visto bene.

Va ricordato che i Magistrati di Sanità avevano un compito arduo da svolgere anche dal punto di vista finanziario, perché ogni qualvolta che dovevamo ordinare la chiusura delle case degli infetti accertati o il loro trasferimento al lazzaretto, tutta quella gente dovevano vestirla a nuovo, perché i vecchi vestiti venivano bruciati e mantenerli procurare loro di che vivere.

Leggendo di queste misure così azzeccate dal punto di vista del contenimento e prevenzione del contagio non potevo togliermi dalla mente le immagini dei telegiornali di un anno fa che mostravano gli enormi condomini di Wuan in Cina, dove è nata e da dove è partita l’epidemia di Covid, chiusi e vigilati dalla forza pubblica, che però provvedeva quotidianamente a portare agli abitanti i viveri necessari.

Di solito guardiamo ai comportamenti dei nostri predecessori di qualche secolo indietro con una certa condiscendenza, perché è innegabile l’enorme progresso del quale abbiamo usufruito nei tempi moderni.

In questo caso però non possiamo non invidiare questi uomini che senza disporre delle più elementari conoscenze mediche per combattere quella malattia erano però stati capaci di mettere in atto strumenti estremamente efficaci.


martedì 16 marzo 2021

Bill Gates : Clima, come evitare un disastro ,le soluzioni di oggi, le sfide di domani - recensione

 







Devo dire che mettermi a recensire un libro di Bill Gates mi mette un po in imbarazzo.

Nel senso che mi viene da dire ma chi sono io per mettermi a giudicare una delle menti più geniali presenti sulla Terra.

Anche se sento di condividere una qualche forma di familiarità con chi ha inventato quel sistema operativo che uso praticamente da quando è apparso sul mercato.

Vedo che gran parte delle recensioni che ha avuto finora questo libro sono appesantite da un incredibilmente diffuso giudizio o meglio pre-giudizio “di pancia” che sembra sottintendere questo assunto : una delle persone più ricche del mondo che si mette a fare la morale a chi vive tutta un altra vita è quanto meno irritante.

Questi tycoon che si danno alle opere di bene forse hanno il bisogno psicologico di far dimenticare l’abisso che li divide dalla gente comune e quindi di farsi perdonare la loro strabocchevole ricchezza.

In tutta sincerità devo dire che non condivido neanche lontanamente questo modo di pensare o almeno assolutamente non nel caso specifico.

Non mi sembra che dobbiamo andare lontano per ricordarci di più modesti riccastri italici che non hanno saputo far di meglio che spendere le loro fortune per fare più o meno fuori dai binari la così detta bella vita.

Si può fare di meglio, molto di meglio e Bill Gates l’ha fatto e lo sta facendo.

Legge, studia, viaggia, scrive, influisce sui grandi del mondo, investe di suo somme spesso ingenti che a volte come è inevitabile non hanno alcun ritorno nella ricerca di innovazioni tecnologiche che possano migliorare la vita di tutti gli umani.

Questo personalmente invidio sinceramente di questo personaggio : avere l’opportunità di essere un facoltoso mecenate per migliorare la vita del prossimo.

La sua ricchezza di per sé non mi dice più di tanto.

E’ vero si sposta non con un solo jet privato per la semplice ragione che può permettersi una intera flotta.

Orrore, volando inquina, gli oppongono i critici.

Ma che scoperta e allora che dovrebbe fare, stare chiuso in casa per non inquinare?

Per affrontare problemi seri come quelli del cambiamento climatico bisogna andare a metterci il naso nelle varie zone di rischio.

Leggerci sopra i saggi più attendibili.

Pagare le società di consulenza per fare condurre loro ricerche e analisi che affrontino i vari aspetti di quei fenomeni.

Poi bisogna andare a far visita a tutti quei geniacci che per nostra fortuna ci sono magari a cominciare dalle università di eccellenza, ma anche in istituzioni private e nelle start up per intervistare chi sta sviluppando soluzioni tecnologiche innovative.

Fortunatamente non siamo all’anno zero su questi temi e quindi se siamo persone che si informano, grosso modo i temi che tratta Bill Gates con questo saggio sono già in gran parte a nostra conoscenza sia come diagnosi che come terapia.

Ma quello che veramente interessa in questo libro è avere modo di vedere l’autore sul campo.

Per esempio quando in un remoto villaggio del Kenya intervista la Signora Mobutu (butto là un nome di fantasia) per capire come ha fatto a passare da una capanna con una mucca e un po di mais cioè in una situazione di pura sussistenza in assoluta balia del flusso delle piogge, a una situazione di sviluppo con sei mucche altri animali e una piccola attività di caseificio in collaborazione coi vicini.

Sembra incredibile ma Gates sulla base di questa esperienza vissuta non propugna chissà quale radicale nuova tecnica agricola ma invoca la capacità di “adattamento” a nuove situazioni.

Il principio è elementare ma cruciale : se qualcosa va storto non puoi continuare a fare quello che facevi prima, sarebbe un suicidio, devi inventarti qualcosa di nuovo adattandoti a una situazione nuova e imprevista.

In realtà Gates va molto più in la quando parla ad esempio della società messicana che ha scoperto e sperimentato tra l’altro nuove varietà di riso e non soltanto quelle che lo fanno crescere bene anche quasi senz’acqua, ma anche quelle di estrema utilità ad esempio in Bangladesh soggetto a sempre più frequenti inondazioni che consentono al riso di non marcire anche quando le foglie rimangono bagnate per diversi giorni durante le inondazioni.

Non si risparmia nemmeno di confidarci some ha perso un bel mucchietto di milioni investiti in un progetto per produrre biomasse da foglie particolari per ricavare un bio-carburante.

Sembrava promettente, ma non funzionava abbastanza.

Ho notato che in molti lo hanno criticato perché in pratica mette a carico dei politici la maggior parte della responsabilità di intraprendere politiche innovative per fermare le emissioni di anidride carbonica.

E’ inutile negarlo un po in tutto il mondo non è un buon momento per il prestigio e la credibilità dei politici e quindi molti lettori confessano tra sé e sé che se il problema più grosso lo devono risolvere i politici è giustificato essere pessimisti sull’ avvenire del pianeta.

E’ ben comprensibile, ma di fatto ognuno di noi sostanzialmente sa quello che deve e può fare per limitare le emissioni che influiscono sull’effetto serra.

Almeno su questo punto la scuola non si può dire che non sia presente nel dare le dovute informazioni.

Insomma questo libro non è a mio avviso un piccolo trattato sugli effetti dei cambiamenti climatici.

Su questo argomento ormai si sono scritti un gran numero di saggi anche ottimi.

Il senso e il valore del libro non è nella originalità degli argomenti addotti, ma sta tutto nel valore della testimonianza di un personaggio che è singolare , perchè solo lui aveva i mezzi la capacità tecnica e la volontà di investire in una grande serie di iniziative innovative.

Bill Gates ha fatto anche belle conferenze raggiungibili da chiunque su Ted, ma il senso della sua testimonianza è nel fare e fare con la larghezza di mezzi che solo lui può permettersi.


domenica 7 marzo 2021

Rocco Casalino il portavoce -recensione

 





Il libro consiste in un autobiografia scritta dal personaggio Rocco Casalino e si trova attualmente

alla test dei best seller.

Per chi non lo sapesse l’autore è stato lo spin doctor di Giuseppe Conte da pochissimo ex Presidente del Consiglio, ma la sua fama sta forse ancora di più nel fatto di essere stato un personaggione dello spettacolo come partecipante fino all’ultima settimana del Grande Fratello, partecipazione che gli ha procurato una gran notorietà giustamente monetizzata dall’interessato facendosi rappresentare come agente a quei tempi da Lele Mora.

Quella partecipazione è stata ai tempi una grande fortuna, ma ci dice l’autore è stata anche una terribile maledizione una volta sfumati quei momenti di grande notorietà, perché gli è rimasto addosso il marchio di personaggio televisivo di caratura non proprio culturale.

E ci vorrebbe il Dr. Freud per riuscire a spiegare perché vent’anni dopo quella presenza televisiva e con all’attivo una laurea in ingegneria e professionalmente impegnato in tutt’altri ruoli fino ad occupare l’ufficio di Palazzo Chigi che da sul balcone delle bandiere, l’autore sia costretto a disperarsi quando si accorge che gente delle più disparate estrazioni trovi da dire perché uno che ha quasi vinto il Grande Fratello diciamo in gioventù si trovi da persona adulta e matura a ricoprire ruoli pubblici di notevole rilevanza.

Per intenderci i porta voce dei presidenti del consiglio accompagnano i loro referenti nei summit internazionali anche più ristretti e si trovano a cenare con i grandi della Terra gomito a gomito.

Questo libro avrebbe un interesse relativo se Giuseppe Conte, Giusepi per Donald Trump, fosse un qualunque politico di professione e non uno avvocato pugliese pure con cattedra accademica e legato a uno studio blasonato, ma sconosciuto ai suoi connazionali, uscito fortunosamente dal cappello dei 5 Stelle quando c’è stato da esprimere un candidato alla Presidenza del primo governo con la Lega e la Lega medesima aveva posto il veto all’investitura in quella carica del candidato naturale dei Grillini che era notoriamente Luigi DiMaio.

E se Rocco Casalino, come da tradizione fosse stato un alto burocrate di carriera magari proveniente dalla Corte dei Conti e non un personaggio dalla vita assai complessa comprensiva anche della nota appendice televisiva.

Due assoluti outsider che si trovano a gestire la politica in un paese che era rimasto ingessato per decenni

L’uno, Conte, che non ha mai avuto in tasca una tessera si partito.

L’altro che ha avuto da studente quella di Rifondazione Comunista e che poi è diventato al seguito di Gian Alberto Casaleggio un influente protagonista del Movimento 5Stelle.

Nel libro c’è ovviamente tutto questo, ma la ragione per la quale la lettura di questo libro ha destato in me un grande interesse è decisamente un’altra ed è lo spessore umano non comune del personaggio.

Personaggio che è un professionista della comunicazione d’accordo, ma che dimostra anche di avere delle doti non comuni nel saper scrivere, perché questo è un libro scritto bene e che sa trasmettere autentica partecipazione emotiva nel lettore che viene coinvolto in una vita all’apparenza di un uomo di successo.

Ma che in realtà ha lottato e sofferto molto ed al quale nessuno come dice lui nessuno ha mai regalato nulla.

Ha lottato anzitutto contro la povertà nera di due genitori provenienti da un paesello della Puglia costretti ad andare in Germania a prendere qualsiasi lavoro sarebbe stato possibile fare.

Rocco Casalino nasce quindi in una sconosciuta cittadina tedesca vicina ad Heidelberg.

Si descrive di costituzione fragile e di sensibilità un po esasperata e fin da piccolo si trova a dover subire il rapporto che diviene quasi subito impossibile con un padre-padrone che fa l’operaio di giorno ed alla sera torna regolarmente ubriaco e picchia tutti ma sopratutto la moglie.

La cosa va avanti non per un po ma per sempre fino alla morte del padre quando Rocco è già divenuto grande.

Ha lottato contro i pregiudizi e le obiettive diversità caratterali dei compagni di scuola tedeschi.

Bullizzato e pestato spesso anche perché il fatto di riuscire bene a scuola irritava ancora di più

i suoi compagni che vedevano turchi e italiani come cittadini di serie B e comunque non al loro livello, guai quindi a chi per merito in un paese magari xenofobo ma profondamente meritocratico arrivava davanti a loro.

Rocco non sapeva bene l’italiano perché in casa i suoi parlavano dialetto pugliese, ma il tedesco lo ha imparato bene, diversamente a scuola sarebbe stato bloccato.

Ma non è finita.

A complicargli la vita e non poco c’è stata fin da bambino una per lui indecifrabile inclinazione sessuale che lo ha sempre portato ad alternare fidanzate a rapporti omosessuali.

Casalino racconta che prima di rendersi conto di essere decisamente omosessuale era arrivato all’età adulta a 36 anni.

Ecco il libro forse indulge un po’ troppo nel narrare le complicate vicende legate a questa ambigua inclinazione sessuale, che non si chiariva mai, ma forse è giusto che l’autore le dedichi lo spazio che vi ha dedicato per sottolineare quanto questo gli abbia complicato la vita, aggiungendo problemi a problemi.

Sul piano professionale forse ci ritroviamo dove poteva essere prevedibile ritrovarsi.

Infatti la famosa partecipazione al Grande Fratello sarà stata anche una maledizione ma in un personaggio dotato chiaramente più del normale di comunicativa quella è stata per Casalino l’occasione della vita per acquisire le nozioni del mestiere.

Va bene l’occasione di fare la bella vita, ma chiaramente il nostro ne ha approfittato per studiarci sopra e per imparare la professione oggi molto apprezzata e ricercata di tecnico della comunicazione.

Ma come ho già detto sopra a mio avviso la sostanza del libro sta nella vicenda umana molto sofferta che ne viene fuori sommando il terribile rapporto col padre ,che arriva a perdonare in cuor suo solo in tempi recentissimi con la difficoltà a trovare un “normale” rapporto con una compagna o con un compagno, come quello con cui ora convive e che si è portato al seguito fino alle cerimonie ufficiali al Quirinale.

In positivo ci descrive un magnifico e salvifico rapporto con la madre, che ha sempre avuto e che ora che dalla vita ha ottenuto molto più degli degli altri cerca di ricompensare per le sofferenze che ha subito negli anni bui della Germania, offrendole tutti gli agi possibili.

A proposito di Germania ,Casalino ha un debole per Angela Merkel che ha avuto la ventura di conoscere da vicino, e che descrive come la personalità che più lo ha impressionato per statura e intelligenza, beninteso e non poteva essere diversamente, dopo Conte.

Beh, arrivati alla fine, lo avete capito, questo libro mi è veramente piaciuto e quindi ne consiglio vivamente la lettura.







mercoledì 3 marzo 2021

Mauro Gallegati : acrescita per una nuova economia - recensione


 

Libro interessante ma non di facilissima lettura perché si pone forse senza che l’autore se ne renda conto a metà strada fra la pubblicazione accademica e il saggio divulgativo utilizzabile anche “dal popolo” dei lettori “normali”.

D’accordo l’autore è un accademico di professione essendo professore ordinario di macroeconomia avanzata all’Università Politecnica delle Marche di Ancona ed ha scritto anche pubblicazioni in collaborazione con premio Nobel Ioseph Stiglitz, però è uno che usa con passione uno stile fra l’ironico e lo scanzonato, usando molta umiltà nel valutare la sua opera, forse perché sa bene quanto sia faticoso nel mondo baronal -accademico italiano sostenere delle idee in forte contrasto col pensiero unico praticato e celebrato nelle facoltà di economia della Penisola.

L’approccio però è quello di entrare direttamente nella confutazione della teoria economica prevalente dando per scontato che il lettore padroneggi il lessico della materia.

Francamente i libri dello stesso Stiglitz sono di lettura più piana per il lettore comune.

Premesso questo però il libro vale la pena di essere letto anche perché si fa perdonare l’uso di tecnicalità frequenti con la mole decisamente limitata del volumetto di circa120 pagine.

Attenzione al titolo che potrebbe trarre in inganno quando usa il termine “acrescita” , perché leggendolo la mente del lettore automaticamente viene proiettata a richiamare per assonanza il più celebre termine di “decrescita” teorizzato da Serge Latouche autore di “La decrescita felice”, presa allegramente per i fondelli da quando è uscita praticamente dalla totalità degli esponenti del pensiero economico dominante.

Rischioso quindi usare quel termine proprio nel titolo, anche se il significato è molto diverso di quello elaborato da Latouche.

Il libro anche se fa fatica a raggiungere il risultato che l’autore si propone di conseguire è però un libro coraggioso proprio perché è una delle rare confutazioni della teoria economica dominante neoliberista.

Nella sostanza Gallegati si propone di dimostrare che la teoria economica dominante è di carattere dogmatico come fosse una religione.

Lui usa correttamente il termine “assiomatica”, per indicare il fatto di basarsi su affermazioni date per vere senza che ci sia la possibilità di dimostrarne la veridicità tramite forme di esperimenti, né di potere operarne la “falsificazione” per superare gli assiomi superati, come avviene nella scienza moderna.

La teoria dominante dice Gallegati non funziona innanzitutto perché è strutturata in modo da non contemplare la possibile esistenza di una crisi strutturale che perdura dal 2007, come è quella ancora in atto in quanto è basata sul concetto di equilibrio che secondo la medesima teoria verrebbe sempre raggiunto.

Mentre la presenza di una crisi che è sistemica a causa della sua durata contraddice alla base la teoria medesima, che quindi non è in grado di spiegare la situazione attuale.

La teoria dominante è basata sul dogma dello sviluppo continuo ed eterno e questa è una palese sciocchezza, perché per essere sostenibile presupporrebbe che le risorse fossero infinite, mentre tutti sappiamo che è ovvio il contrario.

E’ possibile una crescita senza aumentare nella stessa proporzione il consumo delle risorse?

In teoria si se interviene l’innovazione.

E infatti l’innovazione è stata la protagonista ad esempio dello strabiliante sviluppo dell’economia digitale.

Ma tutti sappiamo che ci vorrebbe proprio una ipotetica e utopica crescita infinita per fare raggiungere agli abitanti del Terzo Mondo lo stesso tenore di vita goduto nei paesi sviluppati dell’Occidente.

Perchè questo richiederebbe un uso delle risorse che numerosi studi hanno quantificato indicando moltiplicatori del tutto irrealizzabili e consistenti in diversi pianeti Terra, mentre la Terra è una sola.

Se poi consideriamo l’incremento demografico elevatissimo nel medesimo Terzo Mondo la prospettiva di uno sviluppo continuo diviene ancora più irrealizzabile.

E allora?

E allora la teoria dominante è sbagliata e bisogna trovarne un’altra, che si accordi di più con la realtà.

Innanzi tutto occorre contestare la parte della teoria che definisce lo sviluppo prevalentemente come aumento del PIL, tenendo conto del fatto che le neuroscienze, sociologia e antrolpologia hanno dimostrato a iosa che l’aumento della ricchezza non è affatto sinonimo di aumento della felicità, e quindi non è più possibile proporre l’aumento infinito dello sviluppo come se fosse basato sullo stimolo umano primordiale a conseguire la felicità.

E non da ieri.

Non si può non ricordare che questo concetto è stato enunciato in un celebre discorso di Robert Kennedy addirittura nei primi anni ‘60 e quindi un sacco di tempo fa.

Occorre liberare l’uomo dice Gallegati dalla situazione di schiavitù nella quale si è condannato quando ha accettato di fare di fatto una vita da criceto.

Bisogna quindi convincere l’uomo -criceto a scendere dalla ruota perché solo così potrà cercare di conseguire una maggiore felicità.

E’ chiaro che quando si fa un discorso del genere si sfocia nel pensiero filosofico nel quale Gallegati però non si avventura per niente ed è un peccato perché un accenno alla sana morale stoica di Seneca e di Epicuro o anche solo al giusto mezzo di Aristotele , per non parlare delle tradizioni spirituali orientali non avrebbe stonato affatto per sostenere che la via per frenare il consumismo compulsivo alla base dell’erroneo concetto di sostenibilità della crescita infinita è semplicemente quella che si basa sull’esortazione ad esempio del Buddah di accontentarsi di quello che si ha.

Siamo a quattro secoli prima di Cristo.

Non vedo perché un economista possa ritenere disdicevole riferirsi a tradizioni spirituali e culturali antichissime, quando oggi la multi-disciplinarietà è diventata una metodologia obbligata per decifrare il mondo contemporaneo.

Capisco che sia divenuto quasi di moda negli ultimi tempi scrivere saggi per illustrare le varie facce del discorso della “sostenibilità”, ma non sarebbe affatto male accennare ai presupposti filosofici sui quali questo concetto si sostiene.

Pur giudicando positivamente questo saggio nel suo complesso come una buona confutazione della teoria corrente per onestà intellettuale non posso non segnalare il fatto che verso la fine del medesimo là dove l'autore elenca le misure di politica economica che a suo avviso andrebbero prese per avviare una nuova economia sostenibile ci si imbatte in un incredibile scivolone logico.

Si legge infatti fra queste misure che occorre fare in modo che spariscano coloro che vivono di rendita.

Ma chi lo dice? Maometto e SanTommaso lo hanno detto anche se con non molto successo, oltre naturalmente a Carlo Marx con ancor meno successo.

In tutti e tre casi sopra elencati gli autori facevano una affermazione dogmatica religiosa i primi due e puramente ideologica il terzo, ed allora come è possibile che un saggio che si propone di confutare la teoria economica corrente definita da Gellegani come radicalmente sbagliata perchè basata su assiomi non dimostrabili lanci una affermazione di carattere dogmatico-ideologico ?