mercoledì 27 maggio 2015

Papa Francesco intervistato dalla “Voz del Pueblo”, solo il titolo della testata è un programma



Ieri i giornali hanno dato ampio risalto alla intervista che papa Francesco ha dato al quotidiano argentino “la  voz del pueblo” inusualmente lunga ,nella quale il papa medesimo quasi si dimentica di  essere papa e abbandona completamente ogni preoccupazione di  diplomazia ed ogni cautela istituzionale.
Ne viene fuori uno splendido  ritratto di quello che lui stesso qualifica addirittura come “un pover’uomo” al quale è capitato di  divenire papa.
Anche papa Giovanni aveva avuto  la capacità di parlare alla gente come uno di loro e per questo è stato  amatissimo dal popolo cristiano e non, e ci è riuscito facendo ricorso  alla sua sensibilità personale ed alla cultura della civiltà contadina, nella quale era cresciuto.
Papa Bergoglio va oltre.
Perché a differenza di papa Giovanni,  dispone del bagaglio solido e consistente della formazione del suo ordine, che è il maggior fornitore di intellettuali per il clero cattolico, ma ha contemporaneamente  la straordinaria capacità naturale di prende la vita e la sua  missione con assoluto genuino spirito evangelico, senza essere immobilizzato dal peso di dogmi, e orpelli e calcoli di potere.
Era quello che è mancato ai suoi diretti predecessori, che dai dogmi e  dagli orpelli di potere sono stati paralizzati.
Per verificare l’enorme distanza fra un Ratizinger o un Woytila e papa Francesco, ho provato a pensare quali tipi di risposta avrebbero dato loro ai quesiti che l’intervistatore delle “voz” ha rivolto a papa Francesco.
Già la scelta del giornale fa sobbalzare.
Chi è stato ammaliato dai miti  del ’68 solo a leggere quel  titolo “la voz del pueblo” sobbalzava perché non poteva  non sentire l’assonanza con i  testi delle canzoni- inno degli Inti Illimani.
Figuriamoci chi nel ’68 si trovava sulla sponda opposta, che reazione può avere avuta.
Certo nessuno dei papi immediati predecessori di papa Francesco avrebbe mai e poi mai risposto che una delle cose che desidererebbe di più sarebbe  andarsene tranquillamente la sera a mangiarsi una pizza in pizzeria, confuso fra la gente.
Se poi andiamo indietro nel tempo, vi immaginate un imbarazzassimo Paolo VI o tanto meno un etereo  Pio XII , che sogna una serata in pizzeria, confuso fra la gente?
Eppure i precedenti ci sono, lo faceva come tutti sanno ,il mitico Papa Sisto nel 500, che amava girare per Roma di notte, sotto mentite spoglie ,ma per tutt’altri scopi, quasi tutti di potere, cioè di verifica del suo potere, usando il più elementare dei mezzi per avere una informazione diretta e immediata.
Ecco che l’andamento del discorso ci ha portato ad uno dei punti più interessanti  di quell’intervista a papa Francesco, e che verte proprio su cosa fa il papa per informarsi.
Nella sua posizione e di fronte a realtà estremamente complesse una buona informazione conta parecchio.
Ma che fa il papa?
Dice all’intervistatore di non vedere la televisione addirittura da quasi vent’anni.
Dice di leggere alla mattina solo “Repubblica”, ma di non andare oltre a un passaggio a volo d’uccello di dieci minuti.
Dice di non avere l’abitudine di “navigare” per web.
Sembrano cose non solo minimaliste,ma quasi strampalate, stante la valanga di informazioni dalle quali siamo tutti bombardati da mattina a sera.
Ma riflettiamoci un momento, dietro a queste scelti del papa, indubbiamente radicali, c’è ovviamente non il caso, ma una precisa scelta filosofica.
Noi tutti siamo bombardati da un ronzare continuo di notizie, per nostra scelta, scelta talmente abituale da essere divenuta quasi inconsapevole.
E’ da vedere se quel ronzio ci aiuta o ci stressa, senza procurarci gran che.
Comunque è interessante constatare che il papa ha fatto una scelta diversa e non ne è affatto pentito.
Il papa, come qualsiasi personaggio arrivato a gestire responsabilità al vertice è in qualche modo prigioniero dell’istituzione che dirige.
Le notizie gli arrivano inevitabilmente filtrate.
E di conseguenza trova più difficoltà di qualsiasi comune mortale a muoversi per verificarne l’attendibilità.
Si pensi alle tragicomiche vicende di Papa Ratzinger, quando si è trovato succube delle scelte di una rassegna stampa predisposta dallo staff della segreteria di stato, allora diretta dal Card. Bertone, che gli propinava un pastone mal fatto, costruito per fargli ignorare, quello che qualcuno voleva che ignorasse.
Ne sono seguite gaffes a ripetizione e infine quel papa ha preteso una rassegna stampa un po’ più professionale.
Certo che il papa renda pubblico il fatto di leggere  un solo giornale e che quel giornale sia dichiaratamente progressista è un fatto destinato a procurare mal di pancia soprattutto in quel mondo cattolico italiano pigro e sonnacchioso, ma forse per questo, orientato più altrove che verso il progressismo e la modernità.
E quindi le lamentele raccolte da Vittorio Feltri sul Giornale di ieri sono scontate.
Ma la confessione del papa è un fatto nuovo e importante che strappa il velo di ipocrisia che ha sempre in passato nascosto la vita diciamo privata dei papi.
E infatti le cronache ci avevano informato negli anni scorsi che papa Ratzinger leggeva e ,a quanto s legge tutt’ora quotidianamente la   FAZ, cioè la Frankfurter Allgemeine Zeitung, giornale tedesco, famoso per essere dichiaratamente conservatore.
Questo significa che i papi, di fatto, si sono sempre scelti, come tutti i mortali, i giornali più vicini alle proprie vedute, ma che evitavano di dirlo per paura delle reazioni.
Questa oggidì però è avvertita come ipocrisia, non come prudenza.
Molo simpatica la confessione del papa nella medesima intervista di  non avere il tempo di vedersi le partite di calcio del suo paese, ma di avere una guardia svizzera che si preoccupa di passargli un bigliettino con su scritto i risultati.
Altro elemento che ci dipinge un papa, uomo come noi, proprio come lo vorremmo.
La scelta radicale di papa  Francesco, di distaccarsi volutamente dal ronzio dei media, è una scelta diretta ad essere più libero e meno influenzato.
Del resto, lui stesso nella medesima intervista riconosce di essere  sottoposto a continue pressioni.
In una giornata il papa parla con talmente tanta gente da non rischiare certo di non essere informato.
Ecco, mi ha colpito particolarmente anche questo.
Papa Francesco è  stato capace di fare una scelta personale tanto radicale e singolare  su televisione, giornali e web.
Ma risulta dall’intervista che continua a portare il peso, molto oneroso,  degli impegni istituzionali di routine.
Lui stesso dice di sentirsi stanco dalla mole di questi impegni, come un qualsiasi scolaro che si trova alla fine della scuola a giugno.
Presumo che un papa “decisionista” e di polso come è Francesco, avrà messo già parecchio del suo per orientare la macchina burocratico- istituzionale vaticana, secondo le sue vedute, ma da lui mi aspetterei qualcosa di più radicale e clamoroso, come la scelta che ha fatto su tv, giornali e web.
Mi aspetterei una scelta meditata, ispirata alla sua filosofia evangelica.
Un papa può parlare ed apparire molto meno.
Ed in seguito a questo può tagliare dimettere la “collaborazione” di molti apparati che girano a vuoto come tutte le burocrazie di questo mondo.
Risulta dai Vangeli che Gesù Cristo ha fatto e detto tutto quello che sappiamo, senza bisogno nemmeno di un segretario.
Papa Francesco è molto probabile che accarezzi il sogno di fare liquefare la Curia.
Il Concilio di Trento, cinque e rotti secoli fa, ha deliberato su tutto, proprio tutto, ma ha sempre rinviato la discussione sul ruolo della Curia.
Oggi forse   il tempo è maturo.
Che bello sarebbe se papa Francesco potesse passare alla storia per mettere e chiudere negli armadi della storia tutte quelle rinascimentali vesti color porpora e tutto quelle che ronza loro intorno.

Sarebbe il segno evidente della riconquistata ispirazione evangelica.
Non si può fare la chiesa dei poveri con quelle porpore, è una contraddizione.
Ma metterle in naftalina è come superare la lobby dei tassisti, nessuno c’è ancora riuscito.





venerdì 22 maggio 2015

I politici non hanno la minima idea di come affrontare il problema dei migranti



Chiudiamo le frontiere.
Questa è di fatto l’unica proposta di senso compiuto che una forza politica (la Lega) avanza.
Fratelli d’Italia, Forza Italia e il resto della destra con probabilmente anche una parte dei 5Stelle, hanno posizioni ambigue, ma in sostanza molto vicine a quella drastica della Lega.
Gli altri balbettano proposte confuse, dimostrando solo di non avere elaborato alcuna soluzione seria e compiuta.
Tutti sanno che la gran parte degli italiani, lungi da essere quei buonisti , animati da elevati ideali evangelici, che esistono solo nella fantasia, non hanno affatto un atteggiamento positivo ed aperto nei confronti degli immigrati e ne farebbero volentieri a meno.
Questo almeno è quello che emerge da tempo dai sondaggi di opinione in proposito.
Non stupisce quindi che i partiti più abituati a solleticare le scelte politiche “di pancia” o populiste, siano impegnati, almeno a parole, ad ostacolare il flusso dei migranti, che con la stagione estiva rischia di diventare di proporzioni ingestibili.
Non stupisce pure il fatto che le medesime forze politiche, diciamo “anti- immigrati”, siano le medesime che si proclamano anti Euro o perlomeno Euro scettiche.
E questo perché c’è un problemino che molti esponenti politici di destra fanno finta di non vedere, e che consiste nel fatto che quei medesimi politici oggi anti- euro , euro-scettici ed anti- immigrati, ieri, quando erano al governo con Berlusconi, avevano sottoscritto trattati capestro proprio in materia di immigrazione come il regolamento di Dublino, che impone al paese che accoglie lo sbarco di “richiedenti asilo” di tenerseli, puramente e semplicemente.
C’è poi il vincolo della Convenzione di Ginevra del 1951 che definisce il diritto di chiunque di emigrare e chiedere che gli sia riconosciuto lo status di richiedente asilo, se proviene da un paese nel quale i diritti umani non sono anche parzialmente riconosciuti e il medesimo soggetto può dimostrare di avere subito discriminazioni.
Quindi ,in poche parole, chi proviene da un paese retto da una dittatura o in guerra può emigrare e chiedere asilo.
E va bene quanto stabilito dalla Convenzione di Ginevra, costituendo di fatto niente di più che una specificazione dei diritti umani.
Va bene cioè che sia riconosciuto il diritto per chi si trova discriminato o sottoposto a violazioni dei suoi sacrosanti diritti umani ad emigrare liberamente nel resto del mondo.
Non va invece affatto bene quanto stabilito in sede Unione Europea a Dublino, che accolla al paese ricevente l’onere di tenersi i richiedenti asilo, perché questo penalizza in modo folle l’Italia, che a causa della sua posizione geografica costituisce di fatto la porta di ingresso dell’Unione Europea.
La Spagna, senza dare nell’occhio, di fatto ha praticamente chiuso le frontiere con ostacoli fisici a Gibilterra e nelle sue enclaves di Ceuta e Melilla, sulla costa Marocchina.
La Grecia, nelle condizioni in cui versa non viene certo biasimata se non riceve un gran che, Malta e Cipro, sono troppo piccole per incidere sul problema e la Francia ha coste troppo lontane dal Nord Africa per essere cercata dai migranti.
Recentissimamente, la Francia, il paese che vanta l’eredità culturale dei diritti umani, elaborati dalla rivoluzione del 1789, ha per la prima volta, prima per bocca del primo Ministro Valls , poi confermata dal presidente Hollande, fatto esplicitamente una distinzione fra migranti per ragioni economiche e migranti richiedenti asilo, facendo capire che il loro paese tende ad orientarsi verso il respingimento almeno di una parte dei migranti per sole ragioni economiche.
La Germania ,come al solito, ha già fatto abbondantemente la sua parte, ospitando il maggior numero di migranti e quindi non può certo essere biasimata di nicchiare sulle quote.
I sordi della situazione sono i paesi dell’Est e parte dei nordici.
E’ anche vero che un trattato internazionale è simile a un contratto, soggetto, come tutti i contratti a modifiche, ma in questo caso stiamo parlando non di due contraenti ma di 27 contraenti, e quindi modificare il regolamento di Dublino non sarà uno scherzo.
La verità è che siamo in un bel pasticcio.
Se poi aggiungiamo il fatto che proposte serie e articolate per affrontare il problema dalle forze politiche non escono proprio, salvo il “chiudiamo le frontiere” della Lega, che finge di ignorare le ritorsioni devastanti che gli stati nostri partners, ci scaglierebbero contro se lo facessimo, e che quindi è una pura presa per i fondelli dei suoi elettori, perché assolutamente impraticabile.
Ma ancora peggio è dover rilevare che i singoli esponenti politici, sembrano ignorare del tutto i dati di fatto.
E un dato di fatto pesante come un macigno è il fatto secondo il quale, oltre la metà dei migranti tutt’ora non sono affatto identificati e quindi potrebbero essere chiunque, compresi i peggiori terroristi.
E qui non si capisce fin dove c’entri l’ignoranza e l’impreparazione, di questa classe politica, e dove cominci invece l’atavica furbizia italica forse usata a ragion veduta da qualcuno, per far finta di non sapere e di non vedere, lasciando che buona parte degli ospiti dei centri di accoglienza- detenzione- identificazione, se ne vada dove gli pare (Germania e Nord Europa), senza essere identificati.
Se uno si rifiuta di porgere il ditino sullo scanner per rilevare le impronte digitali, lo può fare e quindi lo fa, punto e basta.
Se è verosimilmente vero che i terroristi non arrivano nei barconi, mischiati agli altri, lo è solo perché la tattica attuale del califfato non contempla per ora tali infiltrazioni, essendo altre le loro priorità.
Ma che il sistema in vigore permetterebbe l’ingresso in Europa di decine o centinaia di terroristi camuffati è altrettanto del tutto evidente.
Se poi si tiene conto della situazione di caos assoluto presente in Libia, il quadro già fosco, diventa veramente preoccupante.
Occorrerebbe una qualche politica.
Ma per elaborare una qualche politica, occorrerebbe una classe politica almeno un po’ informata e capace di farsi venire una qualche idea.
E’ qualche decennio che manca proprio questo : un po’ di idee nuove per affrontare i tempi nuovi.

Speriamo bene.

lunedì 4 maggio 2015

Le devastazioni dei black bloc viste da un sessantottino : allora la polizia era più credibile e persuasiva



La sorte ha voluto che mi laureassi nel mitico sessantotto e che quindi abbia vissuto in diretta un buon numero di episodi di guerriglia urbana.
E’ quindi inevitabile per me rivedere nella memoria quegli episodi e confrontarli con quanto è successo tre giorni fa a Milano.
Inutile dire che non c’è nulla in comune nelle motivazioni che allora spinsero una buona parte dei giovani soprattutto intellettuali a “fare il sessantotto” e le presumibili motivazioni dei teppisti di oggi, che tra l’altro non hanno nemmeno fatto la fatica di spiegarcele, anche perché probabilmente non sono chiare nemmeno a loro stessi.
Significativo il fermo immagine del giovanotto nero vestito, colto dall’obiettivo l’altro giorno nelle vie di Milano con al polso un Rolex da diverse migliaia di Euro.
Significativo anche il fatto che quelli di oggi sono in buon numero stranieri, venuti in trasferta.
Questa volta però, le devastazioni sono riuscite, ma l’obiettivo vero dei Black Bloc che era la ricerca delle telecamere per suscitare delle emozioni a loro favore, è stato radicalmente mancato.
Uno dei più noti esperti di “media”, Aldo Grasso ha scritto oggi sul Corriere che l’effetto ricercato dagli incappucciati è stato non solo mancato, ma è passato un sentimento emozionale a loro fortemente contrario.
La gagliarda reazione dei milanesi, nata in modo spontaneo e immediato, ha poi del tutto surclassato e squalificato l’operato dei ragazzi in nero.
Sono stati estromessi come un corpo estraneo.
Non hanno capito che se mai hanno avuto delle ragioni, questa volta le loro “ragioni” erano del tutto fuori tempo e fuori logica.
La gente è stremata da anni di crisi economica e sta vivendo l’Expo come una occasione formidabile per cambiare rotta e spingere psicologicamente una ripresa che pure si ingravede all’orizzonte.
L’economia, come tutte le attività umane è fortemente influenzata dalla percezione più che dallo stato delle cose.
Se il consumatore esce psicologicamente dalla paura del futuro e vede la luce alla fine del tunnel, la smette di mettere i soldi che gli rimangono sotto il materasso e torna a comprare.
Quando questo succede il gioco è fatto, il sistema riprende e l’economia ricomincia a girare.
I black bloc hanno dimostrato di essere corpi estranei proprio perché non hanno capito che il sentimento della gente era avverso a loro ed alle loro “ragioni”.
Ma non basta perché non hanno capito nemmeno che se in Italia Renzi sta per essere incoronato re per un lungo periodo di regno è perché la gente, cioè noi, sentiamo una grande nostalgia della parola “disciplina”.
Qui occorre mettere ordine fare ordine e pulizia.
Questi poveri black bloc sono risultati quindi del tutto fuori tempo.
Buon per noi e peggio per loro, sperando che se ne accorgano e trovino delle attività più sensate nelle quali esercitarsi.
Ma torniamo al parallelo con gli episodi di guerriglia urbana del sessantotto.
Lasciamo perdere l’analisi politica e sociologica e limitiamoci alla pura tecnica di contrasto usata dalla polizia allora ed oggi.
E’ quasi patetico rivedere nella memoria le orrende e incongrue divise grigio verdi degli agenti di allora.
Non parliamo degli elmetti e dei moschetti in dotazione, anni luce lontani, rispetto alle funzionali divise anti-sommossa, imbottite dove necessario, e a tutto l’armamentario connesso, in uso oggi.
Ma la enorme diversità fra l’allora e l’oggi, sta proprio in questo paradosso.
Quegli uomini dei reparti celeri di allora, pur così male in arnese rispetto a quelli di oggi erano paradossalmente più credibili e quindi esercitavano una migliore funzione di dissuasione proprio perché non caricavano coi manganelli, ma con i moschetti tenuti per la canna.
Chi si beccava addosso un colpo col calcio del fucile, se lo ricordava per un bel pezzo, anche se obiettivamente il mezzo non era affatto “politicamente corretto”.
La guerriglia urbana nel sessantotto era condotta nel significato etimologico del termine, cioè era basata sul movimento di piccoli gruppi.
C’erano gruppi di giovani in eskimo con sacche a tracolla per portarsi dietro le molotov , tirasassi e biglie nonchè limoni usati per contrastare l’effetto dei lacrimogeni, inseguiti da piccoli gruppi di agenti che cercavano il contrasto per almeno identificare i “lottatori continui”, dopo averli “menati” senza buone maniere.
Oggi usa invece la guerra di trincea, basata sulle zone rosse.
Va bene, questa nuova tattica ha un senso, quello di impedire assolutamente l’accesso a determinate zone, ma risulta estremamente carente, se non verrà affiancata dall’impiego di piccole pattuglie di reparti mobili, capaci di inseguire e fermare un congruo numero di black bloc.
Si tratta oggi ,lo abbiamo visto chiaramente nei giorni scorsi di un fenomeno divenuto ormai internazionale.
Ma allora a maggior ragione occorre trovare una tattica per identificare e schedare queste poche centinaia di violenti che si presentano oggi a Milano, ieri e Francoforte e domani chissà.
Non basta garantire che gli eventi pianificati possano tenersi, impiegando cordoni di polizia coi nervi saldi per instaurare le trincee delle zone rosse.
Occorre questi teppisti che verosimilmente sono sempre gli stessi, beccarli e schedarli in modo da bloccarli nei paesi di residenza prima che partano in trasferta per compiere le loro non gloriose imprese.
Occorre poi che in Italia le leggi fortemente garantiste in vigore in materia di ordine pubblico, vengano ripensate sulla base dell’esperienza di oggi, non di ieri.
In base alla normativa vigente, perché il giudice confermi un fermo di polizia fatto sul terreno degli scontri, occorre che la polizia fornisca la prova , foto o testimonianza diretta che certifichi che il Tizio fermato ha lanciato la molotov o ha preso a martellate la vetrina.
E questa è la ragione per la quale i black bloc si mascherano di nero e poi lasciano sul campo sia le divise nere, sia gli “attrezzi”, sia addirittura le scarpe, per impedire di essere identificati.

Visto che la situazione è questa, occorrono leggi che consentano il fermo semplicemente per chi si trovava in quei luoghi in quel momento e non perché stava andando a comprare il latte o a fare altra spesa, diversamente il magistrato è tenuto a rilasciare il fermato e così il lavoro della polizia viene reso vano e i teppisti domano potranno ricomparire tranquillamente, più pericolosi di prima, perché potranno contare su quanto ha insegnato loro l’esperienza.