mercoledì 30 marzo 2016

Il caso di Giulio Regeni torturato a morte al Cairo da la misura di quanto l'Italia conti poco nel mondo



Devo ammettere che quando ho appreso le prime notizie sul caso Regeni, giovane ricercatore italiano trovato morto in uno svincolo stradale alla periferia del Cairo la prima reazione che ho avuto è stata quella di chiedermi come mai un giovane preparato e determinato, e quindi bene a conoscenza della situazione politica e sociale dell'Egitto in questo momento, non abbia avvertito il livello elevatissimo di rischio al quale si sottoponeva ,andando a frequentare e intervistare membri dell'opposizione clandestina al regime di Al Sissi, per mettere insieme una ricerca sullo stato dei sindacati in Egitto.
Che lo stesso Al Sissi usasse la mano molto pesante per neutralizzare l'opposizione al suo regime portata avanti sopratutto dai Fratelli Musulmani, lo sapevamo tutti in Europa.
Lui poi che soggiornava da tempo al Cairo e che aveva condotto studi accademici su quell'area, aveva modo di conoscere nei dettagli quali e quanti gruppi si muovessero per fare opposizione clandestina al regime.
Aveva di sicuro anche notizie di prima mano sui numerosi “desparesidos” nelle oscure galere egiziane, che provenivano dai gruppi di opposizione.
Sicuramente aveva anche ascoltato racconti raccapriccianti sulle torture praticate nelle medesime galere, probabilmente anche di prima mano da parenti o amici dei medesimi desparesidos.
E allora come mai faceva un lavoro organizzato di incontri e interviste con esponenti dell'opposizione clandestina per portare avanti le sue ricerche?
Non sapeva che un regime si regge e sopravvive contando su una rete estesa e organizzata di informatori e di spie?
Solo l'incontrare membri dell'opposizione ad Al Sissi, significava essere “attenzionati “ come si dice con orribile gergo poliziesco dagli informatori del regime.
L'”attenzionamento” si traduce in relazioni che confluiscono non in regolari fascicoli della procura competente, ma nelle sedi dei cosi detti “servizi”, che nel caso di regimi dittatoriali possono avere un'esistenza formalizzata e rappresentano corpi di polizia parallela come erano le SS naziste, o agiscono nell'ombra pur essendo potenti e numerosi.
Tutte queste cose Regeni le sapeva e probabilmente le conosceva anche nei dettagli.
Ed allora perché correre quei rischi.
Anzi, da quello che si è appreso, nelle comunicazioni a familiari ed amici sembra che dicesse di non sentirsi minacciato.
Allora o è stato vittima di un colossale errore di valutazione oppure riteneva che ci fossero altre considerazioni che giudicava di peso sufficiente da bilanciare o superare i rischi ai quali si esponeva.
E' quindi verosimile pensare che abbia fatto questo tipo di considerazioni.
Al Sissi è il principale alleato del governo italiano in quella regione.
Governa con metodi dittatoriali, ma essendo schierato con gli Stati Uniti e l'Europa contro l'Isis e compagni, ha tutto l'interesse a presentarsi almeno formalmente con le mani le più pulite possibili.
Per di più è addirittura il primo partner commerciale del nostro paese.
Quindi, è verosimile che Regeni si sia convinto che se i suoi incontri con personaggi sgraditi al regime fossero arrivati al punto da far ritenere agli “attenzionatori” che la misura fosse colma, questi avrebbero chiesto agli organi governativi ufficiali di espellere quello straniero che metteva il naso dove non doveva metterlo.
Il livello dei rapporti fra Italia ed Egitto avrebbe giustificato una simile procedura, che oltretutto è comune in casi del genere.
Per andare in Egitto ci vuole il “visto” e quindi anche formalmente quello stato avrebbe il diritto di revocarlo qualora reputi uno straniero non gradito.
Il ragionamento mi sembra che non faccia grinze.
Ma allora come è potuto succedere quello che il povero Regeni ha dovuto subire, che èpeggio di quello che gli sarebbe capitato se fosse finito nelle mani del Califfo dell' Isis?
E' talmente inverosimile che un cittadino italiano possa fare quella fine in un paese formalmente amico, che molti commentatori hanno costruito delle dietrologie, ipotizzando la possibilità che i “servizi” nelle cui mani darebbe finito, potevano essere “servizi deviati” che per qualche ragione operavano per mettere in difficoltà lo stesso Al Sissi.
Oppure erano “servizi” normali, ma gestiti da qualche oscuro capetto che non avrebbe capito di non avere l'autorizzazione di fare a un italiano lo stesso trattamento che avrebbe fatto a un egiziano.
Oppure, e questa è l'ipotesi per noi più orribile, si trattava di “servizi” ortodossi che sapevano di avere l'autorizzazione di fare a pezzi un italiano perché l'Italia conta come un qualunque oscuro staterello africano.
L'Egitto a livello ufficiale si è mosso per cercare giustificazioni in un modo così contorto e contraddittorio che ognuna delle tre ipotesi sopra avanzate potrebbe essere suffragata.
E' inutile farsi prendere la mano dalla rabbia che suscita un trattamento così indegno e inumano ed occorre anche riconoscere il fatto che per il governo italiano questo è il momento peggiore per reagire ad una grana di tale portata.
Perchè Al Sissi è l'unico alleato di peso che abbiamo in quella regione per affrontare la ben più gigantesca “grana” rappresentata dalla Libia.
Ma il caso Regeni coinvolge strettamente non solo la salvaguardia della nostra dignità di cittadini italiani, ma proprio per questo, coinvolge strettamente il prestigio e la credibilità del nostro governo.
Si sono riempite piazze e finestre di bandiere e fotografie dedicate agli altrettanto famosi fucilieri di Marina finiti nelle galere indiane.
Figuriamoci oggi con un giovane italiano torturato a morte.
Al Sissi in interviste date ai nostri media è stato abile nel presentare gli argomenti per i quali è nostro interesse nazionale conservarci l'amicizia e l'alleanza del suo Egitto e diciamolo pure per quanto spiacevole sia, del suo regime.
Ma adesso la grana Regeni la deve risolvere lui, perché sono stati verosimilmente i suoi uomini a crearla.
E il governo italiano non può più tirarla in lunga, senza assumere gli atti formali che denuniciano la presenza di un elemento di controversia fra due paesi ,considerato serio.
Almeno il richiamo dell'ambasciatore per consultazioni.
E' sperabile che Renzi , pure politico così anomalo, capisca che, in politica, i casi che coinvolgono la frustrazione del sentimento nazionale, potrebbero montare a dismisura con conseguenze imprevedibili a suo sfavore.



mercoledì 23 marzo 2016

La battaglia contro il Califfato richiederà probabilmente i “Boots on the ground”, ma prima di tutto è una battaglia da combattere sul piano delle idee





My fellow American, we are under attack.
Lo disse Bush quindici anni fa, da qualche bunker segreto dopo l'attacco di AlQuaida alle torri gemelle, che produsse quasi tremila morti.
Frase semplicissima, ma estremamente realistica ed efficace, erano le prime parole di un breve discorso indirizzato a un paese che sapeva bene di essere l'unica superpotenza mondiale dal punto di vista militare.
Gli americani sapevano quindi che nessuno al mondo se sano di mente avrebbe potuto pensare di attaccare l'America per la semplice ragione che questa aveva una forza militare sufficente per incenerire qualsiasi avversario.
Cosa che è regolarmente avvenuta.
La risposta militare che diede Bush, con una tipica reazione ispirata alla filosofia del cow boy, con le guerre in Iraq e in Afganistan la conosciamo bene e da molti è considerata talmente sbagliata da essere indicata come la radice vera dei problemi di oggi.
Era sbagliata perché non era appoggiata da una strategia politica precisa, senza la quale le guerre non servono a nulla.
A che serve infatti,andare in un paese e distruggere tutto l'apparato di potere esistente se non si ha lo scopo di sostituirlo con uno migliore, cioè con un altro gruppo di potere conosciuto e affidabile?
Partiamo, facciamo fuori i cattivi e poi penseremo a cosa fare di quei paesi.
Questo è un ragionamento che non sta in piedi.
Oggi, quindici anni dopo ,AlQuaida non esiste quasi più, ma è stata sostituita dal Califfato di AlBagdadi che è ancora peggio.
Bush non è più presidente da otto anni, ma la leadership americana e mondiale è più fragile di quella ai tempi di Bush e continua a non avere alcuna strategia politica per il Medio Oriente.
Quindici anni dopo è umiliante sentire le leadership mondiali che reagiscono agli attacchi terroristici di Bruxelles di ieri ripetendo un mare di sciocchezze, già sentite mille volte e senza l'indicazione di assolutamente nulla di concreto per contrastare il Califfato.
George Bush non aveva le idee chiare e ha fatto un sacco di pasticci.
I suoi successori però non sono da meno.
Si sta faticando troppo a capire la cosa più importante da capire che è questa : il Califfato di AlBagdadi non è un fenomeno terroristico, messo su da un pazzo senza cultura.
Il Califfato non è il “sedicente Stato Islamico” guidato dal sedicente Califfo.
E' più di uno stato, perché il Califfato è per natura un progetto politico sovra- nazionale a base religiosa teocratica, che vuole ricostruire l'unità delle “umma” , la comunità dei Mussulmani Sunniti che fra il seicento e il settecento si è estesa alla conquista di tutto il Medio Oriente e di gran parte degli stati che danno sul Mediterraneo.
Per usare termini ai quali siamo abituati perché fanno parte della nostra cultura è un impero su base religiosa.
E il suo capo non è uno sprovveduto fuori di testa, ma un qualificato chierico islamico, per la precisione giureconsulto islamico, che ha conseguito passo passo tutti i gradi che contraddistinguono i chierici islamici di alto livello.
E' un uomo che quindi conosce più che bene i testi e le regole della sua religione e sopratutto conosce bene la storia dell'Islam, i miti dell'Islam e li sa riproporre ai popoli islamici sunniti con estrema abilità.
Il suo riferimento è quindi tutto teso al ricreare la società regolata come era regolata negli anni dopo la scomparsa di Maometto.
Lo stesso ricorso alla decapitazione , per quanto appaia una assurda barbarie, è un tassello importante che ha un riferimento preciso in quei costumi.
Riportare i popoli islamici sunniti ai costumi ed al sistema politico del dopo- Maometto comporta una serie di conseguenze precise.
Gli stati medio orientali con i loro confini non hanno più senso, perché nell'ambito del Califfato non si ragiona in termini di stati.
Il primo nemico per gli Islamici sunniti del Califfato sono i musulmani non sunniti e quindi gli Shiiti (Iraniani e Iracheni per primi) e subito dopo i sunniti che non si sottomettono al Califfato (le monarchie del Golfo, Sauditi per primi).
Dopo, ma solo dopo, veniamo noi ,“i Crociati”, “ Roma e l'Andalusia” nel linguaggio immaginifico del Califfato, che ha sempre come primo riferimento la storia dei califfati Ommayydi, Abbassidi e poi Ottomani.
Per contrastare il Califfato c'è quindi da studiare e da capire bene la sua filosofia politica teocratica.
Innanzi tutto il Califfato è in guerra con una parte dell'Islam, l'Occidente viene dopo.
Da noi, c'è ancora un vuoto di conoscenza che cerca di spiegarsi le stragi terroristiche Jihadiste facendo riferimento a realtà superate.
Il Califfato per esempio c'entra poco o nulla con AlQuaida ,Talibani ,Bin Laden eccetera, è una realtà diversa con strategie diverse.
Per noi quindi c'è un problema di sicurezza che potrebbe esigere una risposta anche militare, purché indirizzata su obiettivi veri seguendo una strategia sensata.
Ma ci sarà comunque il problema a medio- lungo periodo di contrastare con decisione senza buonismi e senza infingimenti le radici del Califfato che sono prettamente religiose.
In Occidente non c'è concordanza su molte cose, ma certo si conviene che non sia lecito in nessun paese tollerare la rinascita di partiti nazisti o fascisti o comunque ispirati dalle ideologie nazi-fasciste.
Allo stesso modo ci si deve chiarire le idee in proposito e convenire sul fatto che non si tollererà la propaganda non solo politica ma anche religiosa diretta a sostenere e diffondere le ideologie alle quali si ispira il Califfato.
Ci saranno quindi moschee scuole coraniche e siti web, che dovranno essere controllate e se necessario andranno allontanati e perseguiti i chierici di quella religione che diffondono quel tipo di Islam.
Il problema è delicato e si scontra con nostre idee al riguardo assolutamente poco chiare.
La religione non può essere considerata un tabù inviolabile.
Sarà per molti spiacevole sentirselo dire, ma le religioni hanno la responsabilità di avere fomentato nella storia guerre sanguinosissime per secoli e secoli ed essere quindi state per lo più strumenti di guerra e non di pace.
In Europa vivono 17 milioni di islamici.
Sappiamo che la stragrande maggioranza di loro sono moderati, probabilmente anche perché sono stati influenzati dai nostri costumi e dalla nostra cultura ormai secolarizzati ed in moschea proprio non ci vanno se non per i “riti di passaggio”.
Però ci sono i “foreign fighter” , i giovani sradicati,ci sono i convertiti.
Alcuni di questi sono stati talmente indottrinati da essere divenuti o da essere pronti a divenire Kamikaze nel nome di Allha.
La lotta vera, il contrasto vero e duraturo contro il Califfato è quella che va fatta sul piano delle idee.
A scuola in moschea e sul web.
Lo ripeto è molto più facile pensare di risolvere tutto mandando qualche decina di migliaia di soldati noi e gli altri paesi europei, che assieme a un po di arabi a fare da foglia di fico l'avrebbero vinta momentaneamente sul Califfato.
Magari anche questa ipotesi andrà perseguita se vista strategicamente come una prima fase di una risistemazione completa del Medio Oriente.
Ma le male idee rinascerebbero da qualche altra parte poco dopo.
La battaglia vera è quella da combattere sulle idee e sulla cultura.
E su questo terreno la battaglia sarà ancora più difficile perché su questo terreno siamo ancora più vulnerabili che sul piano militare.
Non abbiamo affatto le idee chiare sul come trattare le idee religiose fondamentaliste.
E anche le nostre gerarchie clericali è ovvio che pensino : attenzione, se la gente facesse due più due, siamo fregati, perdiamo il lavoro.
Cioè se la gente fosse abbastanza acculturata ed avvezza al pensiero critico da assimilare la volontà del Califfato di imporre la sua legge a base religiosa a tutto il mondo, alla volontà anche di gran parte delle gerarchie clericali cattoliche di imporre con leggi civili le proprie interpretazioni religiose (vedi la così detta bioetica e il diritto di famiglia ad esempio) , l'avvenire della casta clericale sarebbe segnato.
Ci troviamo quindi ad essere trattenuti da pregiudizi religiosi nel mettere mano a una lotta dura e serrata al fondamentalismo islamico.
Se non riusciremo velocemente a individuare questo nostro limite, allora sì che saremo veramente in pericolo.
Se prima non saremo capaci di superare i nostri tabu' legati ad interpretazioni delle nostre religioni arcaiche e anacronistiche, non potremo ragionevolmente contrastare il Califfato.
Per fare un altro esempio ,come faremmo a dire agli islamici che è inammissibile dare una interpretazione letterale al Corano, se poi prendiamo per buona l'affermazione liturgica cattolica “parola di Dio” usata tuttora come invocazione dopo la lettura acritica di qualsiasi passo biblico ?
Se non ci convinceremo che occorre espurgare i fantasmi del fondamentalismo a casa nostra, difficilmente potremo espurgare gli stessi fondamentalismi dai seguaci del Corano.
E poi, ovviamente occorrerà raggiungere delle idee chiare sul futuro del Medio Oriente.
E' chiaro che quello di prima con stati e confini come tracciati dai nostri politici alla caduta dell'Impero- Califfato Ottomano non hanno più significato nella realtà di oggi, ammesso che ne avessero mai avuto.
Erano stati artificiali, che oggi o non sono più nulla (Siria e Iraq per esempio), o non stanno più insieme.
E poi bisognerà affrontare come conseguenza immediata il problema dei nostri rapporti con le decrepite monarchie assolute del Golfo, Sauditi in testa.
I Sauditi praticano e indottrinano i popoli con ideologie religiose (il Wahabismo) identiche a quelle del Califfato, e noi li consideriamo come i migliori amici dell'Occidente perché hanno il petrolio.
Bisogna farla finita con queste follie.






mercoledì 9 marzo 2016

Ci stiamo preparando a un intervento militare in Libia, gravoso, costoso e pericolosissimo



Quanto ne sentiremo parlare di Libia nei mesi a venire.
Peccato che oggi ne sappiamo così poco, pur essendo le coste libiche così vicine alle nostre ed essendo quelle terre state addirittura una nostra colonia.
L'occupazione della Libia negli anni 1911-12 da parte del governo Giolitti si studia nelle scuole di diplomazia come un esempio proprio di grande abilità politico-diplomatica di quello statista nel preparare l'operazione militare in modo che le potenze dell'epoca, nostre alleate o meno non avessero avuto praticamente nulla da ridire.
Renzi saprà emulare Giolitti?
Sarà tuttt'altro che facile e a differenza di allora ci sarà un balletto mediatico- diplomatico nel quale nessuno dirà quello che vuole e che pensa veramente.
Ci saranno probabilmente dei prezzi altissimi da pagare perché l'Italia diventerà immediatamente bersaglio dei folli assassini dell'Isis.
Ci saranno nostri militari inviati in una missione difficilissima, perché si troveranno a dover evitare pallottole, granate e missili riuscendo difficilmente a capire chi sparerà e perché sparerà a loro.
Non posseggo alcuna preparazione militare ma presumo che la prima regola di un'azione militare sia quella di individuare il nemico e mettersi nelle condizioni di prendergli le misure nel modo più accurato possibile : quanti sono, come sono armati, dove sono, quali sono le loro linee di approvvigionamento, come sono i loro rapporti con la popolazione civile di quella zona, quali sono i loro alleati ed i loro nemici eccetera.
La missione sarà difficilissima perché rispondere alle domande elementari sopra riportate sarà un bel problema.
Belli i tempi di Napoleone con due schieramenti ben definiti.
Occorreva individuare il prima possibile dove erano schierati i diversi reggimenti di fanteria, dove erano piazzati i cannoni ,da che parte sarebbe comparsa la cavalleria.
Era un'equazione a diverse incognite, ma abbastanza ripetitive e limitate.
In Libia quali sono gli amici e quali sono i nemici ?
Cominciamo dagli amici.
La Libia non è uno stato, ma non perché a causa dell'insipienza politica di Sarkosy e soci improvvisati nel 2011 si è fatto fuori Gheddafi sostituendolo col caos, ma perché Gheddafi uno stato volutamente non lo ha mai costruito.
Il ragazzo sarà stato un dittatore anche sanguinario, con manie di grandezza e vezzi folkloristici, ma non era affatto scemo e conosceva benissimo il suo paese e il mondo arabo.
Aveva quindi realizzato che fare della Libia una sola entità mettendo insieme tre realtà regionali già molto grandi e diverse :Tripolitania e Cirenaica sulla costa col Fezzan nell'interno era un'impresa, ma l'impresa maggiore era trovare un equilibrio fra le ben 150 tribù principali che costituiscono la vera articolazione del paese.
Aveva capito, a differenza di noi europei, che fra le tribù si poteva appunto trovare un equilibrio, ma che era vano cercare di metterle insieme in una sovra-nazione, che non c'era mai stata, perché queste tribù non ritenevano di avere alcun interesse a ricercarla.
Quando andremo in Libia ci troveremo sicuramente a picchiare la prima testata proprio contro questa realtà che ci è completamente estranea per storia e cultura e che quindi per istinto ci rifiutiamo di capire.
Perchè siamo portati a interpretare le cose usando i canoni della nostra cultura e della nostra storia e per questa ragione andiamo a cercare lo stato, dove uno stato, come noi l'intendiamo, non c'è mai stato.
La Libia è una società tribale sulla quale noi europei ci siamo intestarditi nel periodo coloniale a sovrapporre uno stato nell'unico senso che conosciamo, come abbiamo fatto nel resto del Medio Oriente.
Ma è stata una finzione che nascondeva la realtà locale vera di tipo tribale, che poi Gheddafi si è guardato bene dal contrastare.
Chi saranno allora i nostri amici,che formalmente per rispettare la, a volte, perfino ridicola etichetta dell'Onu, dovranno essere un regolare governo locale uscito da elezioni che ci chiamerà in loro aiuto.
Tutti sanno che quel governo sarà una finzione giuridica perche in realtà sarà espressione di parlamentari rappresentanti dei capi tribù ,che hanno ritenuto di partecipare alle elezioni.
Capi tribù che in assenza di un sostituto di Gheddafi stanno dimostrando, come era prevedibile, di non avere nessuna intenzione di dare disco verde a qualcuno di loro che si metta sopra gli altri, diminuendo così il loro potere.
Esiste già un possibile sostituto di Gheddafi, che non a caso è un ex suo generale, ed è il generale Aftar, con studi e amicizie militari in America, capo delle forze armate del governo di Tobruk e alleato di ferro del generale Al Sissi, presidentissimo dell'Egitto.
Ma quelli della Tripolitania non hanno alcuna intenzione di sottomettersi a lui.
Idem come sopra quelli del Fezzan.
E quindi i nostri amici saranno una accozzaglia di tribù, che momentaneamente e per interessi immediati ,per loro ben definiti , decideranno che vada loro bene che arrivino a casa loro i nostri militari ed gli altri di una coalizione in fieri ,per togliere loro le castagne dal fuoco, dato che loro non ci riescono.
Purché noi si faccia appunto quello che loro considerano il loro interesse in questo momento, cosa che è tutt'altro che facile da definire sopratutto in presenza di un numero elevato di tribù con relative milizie, alcune delle quali sono bande di fuori legge e trafficanti di tutti i tipi.
Che ci sia o che non ci sia a nostra formale copertura la foglia di fico del consenso al nostro intervento dei governi di Tobruk e di Tripoli, poco cambia ,perché il potere reale non è lì, ma è distribuito nel territorio fra le tribù.
Gli studiosi più accreditati della materia dicono che il paragone più vicino ai nostri canoni culturali per cercare di immaginarci la struttura del potere effettivo in Libia è quella di una galassia di città-stato.
Quindi individuare chi saranno i nostri amici sarà un bel problema.
Per non andare a navigare completamente nella nebbia dovremmo però, come cittadini, che saranno messi gravemente a repentaglio nella nostra sicurezza quotidiana, pretendere che almeno si individuino e si spacchettino gli interessi che andremo a proteggere o a conseguire.
Che ce lo dicano e che ce lo dicano chiaramente.
Si presume che questi interessi siano la difesa di alcuni pozzi petroliferi, di alcune piattaforme in mare e del gasdotto.
Tutta roba dell'Eni, una società oggi in gran parte privata.
Niente da scandalizzarci, dato l'interesse strategico del procurarci l'energia, ma lo si dica apertamente, senza nascondersi dietro a sciocchezze tipo la difesa di presunti interessi umanitari.
Subito dopo il secondo interesse prioritario dovrebbe essere il controllo delle coste per impedire il traffico dei migranti su-sahariani.
Anche qui è auspicabile che si finisca con pietismi penosi, quando è evidente a tutte le persone di buon senso, che il traffico dei migranti e sopratutto di quelli così detti economici, va se non stoppato, perché appare tecnicamente impossibile farlo, ma almeno controllato militarmente e regolamentato, istituendo campi profughi in Libia, Tunisia, Egitto, non a Lampedusa o in Sicilia o in Puglia.
Dette due parole sui momentanei amici, che andremmo ad aiutare, ma sopratutto sugli interessi che andremmo a difendere, passiamo ai nemici.
Qui il discorso diventa forse più semplice, almeno a livello di comprensione ideologica.
I nemici sono l'Islam fondamentalista di al Baghdadi ,il Califfo.
In tutto il nostro Occidente si tenta di esorcizzare le efferatezze quotidiane operate dal tagliagole di Raqqa, usando locuzioni tipo “il sedicente stato islamico” o “il sedicente Califfo”.
Ma queste sottigliezze semantiche fanno ridere, rispetto ai danni che il Calffo è ormai in grado di fare usando una macchina di propaganda aggiornatissima e raffinata sul Web tramite i social media, che padroneggia disinvoltamente.
Come al solito, un po', per pigrizia ,un po' a causa della modestia delle leadership dei nostri stati, il Califfo è stato vergognosamente sottovalutato.
Un anno fa si parlava di bande di ragazzotti senza arte né parte, poche centinaia, poi poche migliaia.
Oggi i governanti del Kurdistan iracheno, che sono gli unici che hanno dimostrato la capacità di tenere testa e sconfiggere i Jihadisti di Al Baghdadi, parlano di un esercito di 200.000 uomini.
Ora Al Baghdadi fa paura davvero perché è diventato una minaccia orribile per tutti noi.
Al Baghdadi ,leggiamo, ad esempio, negli ottimi e documentatissimi libri ,che ha dedicato al Califfato Maurizio Molinari, a lungo inviato speciale in Medio Oriente della Stampa e oggi divenuto direttore di quel giornale, non è un personaggio da prendere sottogamba, è un colto giureconsulto islamico, che ha conseguito tutti i titoli accademici attinenti alla religione e cultura islamica.
Con quel bagaglio culturale alle spalle è stato capace di proporre alle masse arabe un obiettivo per loro alto ed esaltante : la Jihad per conseguire la “umma” l'unificazione di tutti i musulmani sotto l'autorità di un unico Califfo, legittimo discendente di Maometto.
Chi ha interesse per le storia medioevale e della Chiesa cattolica non potrà non rilevare le similitudini impressionanti che ci sono con la ricerca praticata anche con la forza delle armi per secoli di mettere insieme cosa una unica “Cristianità”, predicata anche recentemente fino a Pio XII nel primo dopoguerra col motto : “omnia instaurare in Christo”.
Come nel cristianesimo medioevale (ma non solo) l'ideale della commistione fra religione e politica per conseguire obiettivi religiosi da imporre totalitariamente a tutto il mondo è stato un ideale estremamente forte, così occorre rendersi conto che questo richiamo del Califfo alla umma attraverso la Jihad, cioè la lotta per estendere la fede, che noi abbiamo chiamato per secoli missionaria, rappresenta un valore alto per le masse musulmane.
Il fatto che gran parte dei musulmani in Occidente, ma anche nei paesi, dove gli islamici sono maggioranza, una volta arrivati allo status di ceto medio, tendono a secolarizzarsi né più né meno di come è capitato e capita ai cristiani, non deve fare sottovalutare l'enorme attrazione ideologica che può provocare l'ideale della umma per tutti i musulmani da raggiungersi con la stretta osservanza della shaharia, la legge islamica, da praticarsi purificandosi col rifiuto di ogni contaminazione occidentale e moderna, e promuovendo il ritorno agli usi e costumi rigidamente uguali a quelli in uso ai tempi di Maometto e dei primi Califfi, suoi successori.
Da questa visione rigida e fondamentalista dell'Islam, al Bagdadi fa derivare come logica e importantissima conseguenza la lotta senza quartiere non solo agli infedeli , cioè ai non musulmani, ma prima di tutto agli apostati, come sono considerati i musulmani non sunniti.
I primi condannati sono quindi tutti i musulmani shiiti (Iran, Iraq, Siria ecc.).
Altra conseguenza pratica di prima grandezza della visione di Al Baghdadi consiste nel rifiuto sistematico del concetto di stato in Medio Oriente, perché la umma non conosce confini.
Le tribù arabe nella loro storia non hanno mai dato peso ai confini.
Da qui la messa in discussione dei confini artificialmente tracciati da noi occidentali alla fine delle guerre mondiali in Medio Oriente, dopo la dissoluzione del Califfato Ottomano (diretto discendente delle dinastie dei Califfi successori di Maometto : Ommaidi, Abbassidi e infine Ottomani).
Al Baghdadi non parla a vanvera, perpetra i crimini più orrendi ,che si sono visti dopo il nazismo, ma è un dotto musulmano che sa bene riproporre in modo corretto i simboli e gli obiettivi della storia islamica.
Per lui, la Libia è un'altra possibile provincia del Califfato e non gli mancano né gli argomenti né i mezzi materiali per attrarre seguaci.
Sarà un nemico durissimo determinato e difficile.
E la guerra durerà non si sa quanto né a quale prezzo.
Non è una bella prospettiva ma è bene saperlo prima di partire.