giovedì 31 dicembre 2020

Vittorino Andreoli : le sorgenti del sogno - recensione

 





Vittorino Andreoli è uno scienziato fra i più noti al grande pubblico perché usufruisce del fatto di essere diventato un personaggio a seguito delle innumerevoli apparizioni televisive che ha avuto per decenni.

Oggi è “solo” un ottantenne ma appare molto meno di frequente.

Qualche anno fa teneva banco solo lui e ogni volta che c’era da commentare un avvenimento spesso un delitto efferato o inspiegabile tutti sapevamo che al telegiornale ci saremmo trovati davanti la sua singolare figura con quella pettinatura alla Albert Einstein, che lo ha fatto diventare familiare ovunque.

Anche perché ,contiamocela giusta ,visto che parliamo di psichiatria ,nell’immaginario collettivo, quando uno pensa a uno “strizza-cervelli” se lo immagina proprio con le fattezze alla Vittorino Andreoli.

Ma il tempo passa inesorabile ed oggi lo psichiatra di riferimento dei media è diventato probabilmente il più giovane Massimo Recalcati della Statale di Milano, anche lui bravo come divulgatore scientifico.

Andreoli ha comunque un curriculum accademico di primissimo ordine incentrato sul Dipartimento di Psichiatria dell’Università di Verona passando però anche da Cambridge e Harvard.

Per decenni si è dedicato meritoriamente anche alla divulgazione scientifica con una lunga serie di volumi.

Questo sull’origine dei sogni è un agile volumetto di novanta pagine.

Un volumetto che si lascia leggere bene ma che richiede un certo livello di attenzione e concentrazione perché la materia non è proprio da lettura d’evasione.

Una delle pietre miliari della psicanalisi è “l’Interpretazione di sogni” di Sigmund Freud del 1899 e quindi è inevitabile che quando ci si trovi davanti a un’opera sui sogni si sia portati a pensare a quella.

Andreoli da subito chiarisce che il suo lavoro non riguarda l’interpretazione dei sogni ma la loro origine da analizzare sulla base di una ricerca basata su esperienze verificabili in gran parte da quanto accade in materia a ciascuno di noi.

E qui sta il grande interesse del libro.

Quanto a Freud l’autore rende rispettoso omaggio al fondatore della moderna psicanalisi, ma nei fatti ne demolisce pressoché totalmente le teorie a cominciare dal concetto principale che sta nel riferimento all’Inconscio.

Non mi avventuro volutamente nel riassumervi il significato che Freud dava all’inconscio, perché Andreoli lo fa ovviamente molto meglio di me e quindi troverete questo argomento nel libro.

L’autore in breve fa presente che le moderne tecnologie consentono di stabilire ormai con precisione quali sono le aree del cervello nelle quali avvengono i fenomeni che in lui si formano, ma che in nessun posto si è trovata la sede dell’inconscio di Freud.

Rispettosa, ma pesantina l’argomentazione a carico del Maestro.

Demolendo senza dirlo apertamente alcune delle leggende metropolitane che sono comunemente condivise l’Autore per esempio ci dice che il pensare di ricorrere al sogno come a una terapia liberatoria, interpretando correttamente o strampalatamente Freud è pericolosissimo, tanto che in psichiatria si usano farmaci per inibire i sogni perché si verificano dei casi in cui il risveglio dopo un incubo che abbia riproposto un trauma, anziché dare l’effetto di svegliarsi liberati fa sì che ci si svegli con alterazioni psico fisiche che possono arrivare fino all’infarto.

Attenzione anche all’uso senza specifica indicazione della melatonina oggi usata a casaccio perché una dose non calibrata su specifiche esigenze può portare addirittura ad alterazioni della psiche.

Interessante e perfino divertente il fatto che l’autore basi tutte le sue argomentazioni ragionando su esperienze concrete.

E quindi leggendo il libro veniamo a conoscere cosa sogna Vittorino Andreoli.

Per esempio ci racconta che gli capita di sognare di trovarsi in un ambiente non conosciuto molto vasto con una porta che conduce a una area che immette in acqua mare o lago.

Lui si immerge e nuota con molta destrezza usando sopratutto la forza delle braccia e va lontano molto lontano fino ad arrivare quasi al buio e ad avvertire che i muscoli delle braccia fanno male a causa della durata dello sforzo.

Peccato che, ci confessa l’Autore, lui non abbia mai saputo nuotare, non ami affatto l’acqua e in acqua ci sia stato l’ultima volta da bambino.

Questa esperienza di sogno per dire che l’esperienza onirica è spesso legata a qualche accadimento che è stato richiamato alla memoria prima di addormentarsi o che abbia esercitato una influenza sensibile sulla propria psiche, una preoccupazione, una emozione positiva o negativa.

Nel sogno si va in un territorio dove la forma di coscienza permane ma è di tipo diverso rispetto ai momenti di veglia.

Andreoli ci spiega da par suo cioè da formidabile divulgatore scientifico da cosa è costituito il cervello, delle famose sinapsi, cioè le unioni complesse e plurime fra i neuroni, della rete che si forma fra i neuroni eccetera.

Ci fa capire che se sono nate le neuroscienze è perché l’attività del cervello consiste in un attività di tipo elettrico che come tale è misurabile e individuabile.

Sappiamo che lo strumento classico per queste misurazioni è l’elettroencefalografo e Andreoli lo cita ma ne mette in evidenza i limiti che consistono in una sua non precisione e approssimazione perfino nel segnalare il momento della morte e questo sinceramente suscita qualche apprensione.

Non si trova però in questo libro nemmeno un accenno a tutte quelle tecniche di “imaging” che usando apparecchiature recenti e sofisticate riescono a misurare i fenomeni cerebrali in modo talmente straordinario da far ipotizzare che non sia azzardato usarle un giorno per individuare addirittura cosa stia pensando in quel momento un’altra persona.

Ma può essere che ne abbia parlato in altri libri.

Peccato però perché l’argomento è di grandissimo interesse.




lunedì 28 dicembre 2020

Jim Al Kalili “il futuro che verrà” recensione

 





Come di consueto nelle mie recensioni riporto per estratto la voce di Wikipedia relativa all’autore.

Jim Al Kalili professore di fisica teorica all’Università del Surrey è nato a Bagdad ma vive in Inghilterra dal 1979.

E’ noto al grande pubblico sopratutto per la sua attività come divulgatore scientifico, tramite diverse produzioni edite dalla BBC.

Conduce la rubrica La vita scientifica sul canale 4 della medesima BBC.

E’ presidente della Associazione Umanistica Britannica,che “rappresenta le persone che hanno deciso di vivere serenamente senza religione né superstizione, che tra l’altro sostiene l’abolizione dei privilegi goduti dalle religioni in ambito legale e sui media”.

Traducendo in italiano tutto questo se mi posso permettere ci vedo una evidente sintonia con la galassia radicale.

Iniziando a parlare del libro non posso nascondere che durante la lettura mi veniva spontaneo confrontare le argomentazioni esposte con quelle sui medesimo argomenti che ritroviamo nella trilogia di Yuval Noah Harari.

Harari non è uno scienziato come Al Kalil è uno storico e la differenza di approccio fra i due sta proprio in questo.

Harari in più di una occasione mi ha dato l’impressione di tendere un po’ a farsi prendere la mano dando per scontate certe sue previsioni e deduzioni come se fossero dimostrate forse per sorprendere e destabilizzare il lettore stroncando le sue opinioni correnti.

Tanto per fare un esempio cito il discorso di Harari sulla presunta inevitabile scomparsa dell’ “io”.

Al Kalil da fisico qual’è azzarda molto meno o non azzarda praticamente mai, dato che previsioni e deduzioni le enuncia solo accompagnandole con la citazione della loro verosimile probabilità sulla base delle conoscenze scientifiche dimostrabili.

Harari sopratutto quando enuncia la “pars destruens” delle sue argomentazioni ,mirata a fare traballare e cascare i pregiudizi correnti compie a mio avviso un lavoro meritevole per aprire la mente dei lettori.

Ma se ci rivolgiamo alla enunciazione degli scenari futuri più probabili e vicini, il lavoro di Al Kalil è senz’altro più accurato e attendibile.


Questo libro è una raccolta di saggi di specialisti nei vari settori dall’intelligenza artificiale alla robotica alla bioingegneria alla fisica quantistica, ovviamente interpellati da Al Kalil, che direttamente si limita a contribuire con il saggio conclusivo che coglie un po’ di sorpresa.

Perchè a differenza degli altri autori che si occupano dell’argomento “futuro” si scrolla di dosso ogni pregiudizio scaramantico e apertamente affronta il tema dei possibili scenari apocalittici.

Cioè non solo le possibili evenienze distopiche, ma quelle apocalittiche pure e semplici.

Da una eruzione tipo Pompei operata però da un maxi-vulcano come quello di Yellostone ,all’impatto con un meteorite o addirittura con una cometa, ad emissioni solari di tipo catastrofico.

Tutte cose purtroppo scientificamente possibili, delle quali però è praticamente impossibile verificare la probabilità.

Per la nostra salute mentale allora focalizziamoci saggiamente sul bicchiere mezzo pieno e godiamoci ancora una volta il panorama dei favolosi scenari futuri fondati su tecnologie che in gran parte già esistono e che quindi non sono questionabili sul “se mai si potranno applicare” ma solo sul “quando”.

Di grandissimo interesse ad esempio il saggio sulle prospettive dei viaggi interplanetari.

Per andare su Marte ci vuole quasi un anno.

Probabilmente è troppo e quindi si stanno studiando forme di propulsione diverse da quelle usate oggi.

Elon Musk dovrà pazientare un po’, anche se il suo impulso è forse determinante per convincere tutti che la conquista dello spazio non è una chimera.

La robotica ha raggiunto livelli di diffusione a costi contenuti dei quali non ci si rende ancora conto.

Nella assistenza familiare come baby sitter o come badante per esempio.

Concordo pienamente con Al Kalil quando dice che i problemi etici (i bimbi e gli anziani non possono prescindere da un rapporto affettivo con chi si occupa di loro) oltre a quelli pratici (cancellazione di posti di lavoro) inducono a concentrarsi non sulla ricerca del robot umanoide tutto fare o capace di espletare tutte le mansioni di una baby sitter o di una badante, ma solo su un formidabile ausilio per espletare compiti limitati come per esempio sollevare correttamente persone allettate per metterle in poltrona o in una vasca da bagno.

Anche questo libro solleva il tema della città del futuro che dovrà essere smart e quindi completamente riprogettata.

Il concetto di proprietà verrà completamente rimodulato.

Non avrà più senso ad esempio avere una macchina di proprietà se si pensa alla percentuale ridicola di uso effettivo.

Le strade per cambiare direzione sono molteplici dal car sharing al funzionamento senza guidatore, fino all’avveniristico ma possibile radicale miglioramento del trasporto pubblico impiegando una specie di razzo che corre in un tubo, capace di unire città lontane con la cadenza e i tempi di percorrenza usuali in una metropolitana.

Non può mancare la prossima rivoluzione dell’assistenza sanitaria fruibile anche nei paesi meno dotati di mezzi, con l’impiego a tappeto della tele medicina, nel campo diagnostico mettendo a disposizione banche dati immense che renderebbero le diagnosi enormemente più accurate, o con la possibilità di consultare i migliori specialisti di una materia anche dalla parte opposta del mondo in collegamento telematico.

Per non parlare della tele chirurgia anche impiegando robot molto più precisi nei micro-movimenti di qualsiasi umano.

Con il dovuto realismo questo libro parla anche, anzi parte proprio dall’esame del problema demografico.

Argomento quanto mai spinoso perché considerato politicamente scorretto e divisivo.

Se mettiamo i piedi per terra però non possiamo non sapere che non ha alcun senso pensare che le condizioni attuali del mondo sviluppato possano essere condivise da chi la lotteria biologica ha messo a vivere nei paesi meno sviluppati, per la semplice ragione che gli specialisti hanno fatto due calcoli dai quali hanno dedotto che per dare il medesimo livello di vita a tutta l’umanità attuale occorrono le risorse di tre pianeti Terra e non di uno solo.

Questa è l’evidenza, ma come si fa ad andare a dire agli abitanti del terzo mondo che solo loro devono finirla di fare figli?

E’ un problema etico obiettivamente serio, ma quanto meno va messo in discussione senza nascondersi dietro a un dito, anche perché una delle ovvie e macroscopiche conseguenze di questa situazione consiste nell’altrettanto enorme e irrisolto problema delle migrazioni incontrollate.

Un libro del genere non poteva non parlare di “machine learning”, di “singularity” e di “transumanesimo”.

Per singularity gli specialisti del settore intendono il momento storico che si verificherà non solo quando la potenza computazionale di computer sopravanzerà in modo irreversibile l’intelligenza umana, ma anche il punto quando il processo di autoapprendimento delle macchine tramite intelligenza artificiale doterà le macchine medesime di facoltà molto simili alla coscienza di sé.

A questi punti la cosa più verosimile sarebbe una ibridazione fra uomo e macchina con un superamento della biologia come la conosciamo oggi.

E’ chiaro che il punto nel quale si arriverà è quello che Harari chiama l’Homo Deus e che rappresenta la vetta di tutte le argomentazioni sul futuro.

Verosimile? Possibile? E quando?

I pareri dei vari specialisti divergono su questi parametri.

L’inventore della singularity Raymon Kurzweil vedeva questo punto storico estremamente vicino.

Harari non si sbilancia troppo sui tempi ma ritiene l’evento praticamente sicuro e inevitabile.

Al Kalil è più pragmatico.

Ritiene la cosa possibile e verosimile ma non si pronuncia sui tempi e sopratutto si interroga sugli enormi problemi etici e filosofici che comporterebbe una simile evenienza.

Mi sembra che tenda ad affrontare questo problema come ha fatto relativamente alla robotica, cioè invitando a non concentrarsi su un diverso tipo di uomo che ibridando la propria biologia con parti cibernetiche inorganiche diventi ormai altra cosa diversa dall’Homo Sapiens, ma piuttosto ci si limiti ad accontentarsi di usare queste forme di ibridazione ormai possibili per migliorare in modo sorprendente la macchina umana in modo progressivo.

Libro di enorme interesse, che si lascia leggere bene pur essendo scritto da specialisti.





venerdì 18 dicembre 2020

Christopher Skaife : Il signore dei corvi - recensione

 



Libro singolarissimo questo e non potrebbe essere diversamente visto che l’autore non è altri che quel signore nella incredibile divisa da Ravenmaster di Sua Maestà che appare nella copertina dell’edizione inglese.

La tradizione della real casa inglese è assimilabile a una vera religione civile e quindi leggendo il libro vedrete che quella divisa, ogni parte di essa compresi ovviamente i colori sono tutti simboli di qualcosa per identificare qualcosa : il reggimento, la mansione, il grado, le decorazioni, eccetera.

L’autore si descrive come un qualunque monellaccio da strada di Dover, sì proprio la città delle famosissime bianche scogliere, che avrebbe benissimo potuto diventare anche un delinquente, a causa della sua decisa vocazione a provarle tutte, se non avesse per caso avuto l’opportunità di arruolarsi nella fanteria del reale esercito britannico ancora giovanissimo nell’età della prima adolescenza, come è stranamente consentito in quel paese.

Da quel momento come per ogni militare di professione la sua famiglia è divenuta l’esercito, il che da un punto di vista pratico significa che si è trovato a vivere per breve tempo in ogni angolo della terra, acquisendo ovviamente un buona preparazione militare, che lo ha portato a scalare tutti i gradini riservati ai sottufficiali fino a comandare un plotone come sergente, ma a dover faticare sul versante di una istruzione scolastica così dispersa fra le varie basi militari dell’ex impero britannico nelle quali è brevemente vissuto.

L’autore ci dice anche che nel corso della sua carriera militare si è trovato a seguire corsi non proprio da forze speciali, ma qualcosa di simile.

Ci troviamo quindi di fronte a una specie di Rambo, addestrato a cavarsela in qualunque situazione sul campo.

Uomo di muscoli, addestramento e astuzia.

Proprio così, ma allora, mi chiedo come ha fatto una persona con queste abilità più di tipo fisico che intellettuale riuscire a scrivere un libro brillante e ben fatto,come questo?

Perchè questo è un libro scritto decisamente bene a metà fra la divulgazione scientifica e la buona narrativa storica e anedottica e quindi fra la narrativa e la saggistica e quindi difficile da manovrare.

E’ chiaro che l’autore quando dopo anni di carriera militare si è trovato ad essere assunto come Yeoman Warden alla Torre di Londra ha provato realmente, come dice nel suo libro a provare una forte passione per quello che si trovava a fare, e questa passione è stata la molla di tutto.

Il singolare lavoro consisteva nell’ essere un tramite fra i custodi di un bene culturale forse più di ogni altro simbolo della storia inglese dato che il complesso di antiche fortificazioni della Torre risale al tempo dei Romani e un pubblico di turisti di ogni cultura e provenienza che visita quei luoghi con numeri assimilabili a quelli dei più gettonati santuari mariani.

Non trascuriamo poi l’elemento che rende ancora più attraente quei luoghi : il mito, le leggende.

Tanto per fare un esempio è ben noto che dall’esecuzione di Anna Bolena è sorta la narrazione del suo fantasma che da allora si aggirerebbe nei meandri della antica fortezza.

Fortezza, prigione, forziere che custodisce i gioielli della Corona e gli omaggi di ogni genere che nel corso dei secoli i visitatori illustri provenienti da ogni parte dell’impero portavano ai Monarchi inglesi, compresi animali esotici di ogni genere.

Ma è chiaro che il vero protagonista di questo libro non sono tanto gli umani quanto l’animale simbolo di tutte le storie sulla Torre cioè i corvi della specie Raven in inglese, non volgari crow o peggio normali cornacchie.

Odino o Thor, le divinità Vichinghe non si sarebbero mai serviti di una volgare cornacchia per comunicare coi mortali, ma solo di un corvo reale, cioè di un volatile poderoso, quanto a becco,artigli,struttura fisica ed apertura alare, splendido e unico piumaggio di un nero più nero del nero.

E qui viene fuori il fascino perfino ambiguo di questi oggi rari volatili, che non sono solo belli per per la loro possente struttura fisica, ma sono temibili e temuti fin dall’antichità, perché come le civette sono associati al mondo dei morti ,come anche a quello degli dei che li avrebbero usati come messaggeri simbolici.

Ma la ragione più profonda del fascino che godono i corvi sta nell'essere contemporaneamente icone di morte e di vita.

Tutti ricordiamo infatti l'antichissimo mito del diluvio presente non solo nella narrazione biblica con il corvo che viene inviato in avanscoperta fuori dall'arca e che o non ritorna a dimostrazione che ha trovato la terra ferma o torna con un rametto nel becco a dimostrazione che la terra è vicina e quindi che l'umanità è salva.

Se cercate raven su wikipedia una voce vi dice che si tratta di un animale selvatico che si ciba di carcasse.

Il nostro Sergente Skaife senza privarsi delle sue abilità da Rambo deve aver passato ben tanto tempo ad osservare come un appassionato naturalista i comportamenti e le abitudini dei suoi corvi della Torre e poi altrettanto tempo a leggersi delle belle pigne di libri sull’argomento, per poter scrivere un libro come questo.

Senza parlare degli innumerevoli riferimenti storici che deve conoscere il personaggio che non solo comanda i guardiani dei corvi imperiali della Torre di Londra, ma che dopo avere accudito a questi splendidi animali deve fare da cicerone alle autentiche folle dei turisti che quotidianamente visitano questi luoghi.

Non anticipo nulla per non privare il lettore del piacere di assimilare le mille cose sorprendenti e singolari che sono custodite in questo libro, se non i due principi che l’autore ci dice che abbiano ispirato la sua filosofia nel rapportarsi a questi volatili unici.

Primo principio non pensare neanche lontanamente di antropomorfizzare il rapporto coi corvi, cioè con un linguaggio più terra terra non mettere in atto nulla che possa far pensare a un tentativo di addomesticare i corvi reali come si fa coi pappagalli o le cornacchie e i merli.

Si tratta di animali selvatici che devono e vogliono rimanere selvatici.

Secondo questi volatili hanno una ritualità innata, che va assolutamente rispettata rapportandosi a loro e se questa non viene rispettata alla lettera, questi animali diventano incontrollabili.

Questo significa che la loro giornata è ritmata da fasi e procedure fisse che si ripetono giorno dopo giorno.

Sono animali territoriali e quindi va rispettato lo spazio che si sono scelti come territorio loro.

Sono animali fra loro di norma socievoli che vivono in coppia per di più generalmente monogama.

Non è facile farli riprodurre.

Hanno una vista molte volte superiore alla nostra e quindi per loro è facilissimo tenerci d’occhio anche quando non li vediamo.

Pare che abbiano una memoria di ferro con conseguente capacità di ricordarsi di eventuali sgarbi da parte nostra, che si legheranno al dito indefinitamente.

In compenso se si riesce a instaurare una buona relazione con loro rimarranno fedeli ad essa.

Vivono più a lungo di quanto normalmente si pensa.

Ah, dimenticavo.

Ma forse lo sappiamo già tutti.

Il loro fascino sta forse principalmente nella leggenda secondo la quale se lasciassero la Torre di Londra, con loro finirebbe la Monarchia britannica.

E quindi si capisce perché la real casa è disposta a mantenere un apparato logisticamente impressionante per accudire con la massima cura ai 7 corvi reali che risiedono e svolazzano presso il complesso della Torre di Londra che si trova quasi sul Tamigi a pochi passi dell’altrettanto famoso London Bridge, sì proprio quello con le due torrette, che si può aprire per far passare le navi più grandi.

Il punto di forza di questo libro a mio parere sta nella capacità che ha avuto l’autore nel saper offrire al lettore un gran quantità di nozioni di comportamento animale di quella particolare specie di volatili e di storia inglese ricorrendo a brevi narrazioni basate sulla sua vita coi corvi della Torre, intercalati da una altrettanto grande quantità di aneddoti inerenti alla storia della quale ogni pietra della Torre è portatrice.

Forse avrebbe potuto evitare le elencazioni delle classificazioni scientifiche di quegli animali.

Ci sta bene invece l’ampio elenco dei brani letterari che in qualche modo parlano dei corvi.

Probabilmente avrebbe contribuito a dare al libro una ulteriore attrattiva un uso più moderno delle immagini, usate con troppa moderazione.

Forse l’autore aveva la preoccupazione di cadere nell’equivoco della guida turistica, mentre il libro è di tutt’altra specie.

Il risultato comunque è veramente soddisfacente.



mercoledì 9 dicembre 2020

Vito Mancuso : “Quattro maestri” recensione

 



L’ultimo libro di Vito Mancuso segna il definitivo e formale distacco dell’autore dal Cristianesimo e se si pensa che questo filosofo teologo è stato a suo tempo ordinato sacerdote si capisce quanto questo significhi in termini anche di coraggio personale.

Anche se bisogna aggiungere che l’abito talare l’ha vestito per ben poco tempo fino a quando ha dovuto riconoscere che dei dogmi del “depostum fidei” erano più quelli che gli apparivano privi di un minimo fondamento logico, di quelli che condivideva e ne ha tratto le dovute conseguenze.

Per sua fortuna incassando l’appoggio non solo morale di quella grande anima del suo Arcivescovo di allora, che era quel Cardinale Martini che aveva troppo stima dei soggetti pensanti, per non capire che la vivissima intelligenza di quel suo giovane prete, andava coltivata anche a costo di perdere un chierico per guadagnare un intellettuale che prometteva molto se lasciato alla sua libertà di ricerca.

Oggi si definisce post-cristiano riconoscendo con questa onesta dichiarazione l’enorme peso che l’eredità della cultura cristiana, impastata nelle nostre radici lascia a chiunque viva nei paesi occidentali e questo succede anche per chi non è mai stato sacerdote e magari non ha neanche avuto simpatia per questa categoria di persone.

Mancuso con questo libro dice in modo articolato che è ormai giunto il tempo di distinguere bene fra religione e spiritualità proprio per non rischiare di buttare via come si dice anche il bambino con l’acqua sporca.

Fuor di metafora, se le religioni sembrano non avere verosimilmente una possibilità di futuro, sarebbe una follia lasciare affondare questo nostro mondo nel nichilismo senza fare alcuno sforzo per riaffermare il primato dell’etica e della giustizia attraverso appunto il coltivare la spiritualità senza bisogno di appoggiarla ad alcun apparato delle religioni storiche.

Basterebbe appoggiarci all’altrettanto enorme eredità della filosofia classica, visto che anche lei per nostra fortuna impasta le nostre radici.

Ma opportunamente Mancuso, come altri grandi intellettuali di formazione cattolica,allarga il campo visivo verso le tradizioni religiose e culturali orientali che possono fornire altrettanti validi punti di riferimento.

Non per mettere insieme una improbabile nuova religione con elementi multicolori di tipo sincretistico, ma per lasciare alla libertà di ricerca individuale la facoltà di prendere spunti di meditazione o di riferimento anche in queste importantissime culture oltre che nella filosofia classica.

Ecco allora venire fuori i quattro maestri che sono in ordine di apparizione del libro : Socrate, Buddha, Confucio e Gesù.

Attenzione, Gesù, cioè il personaggio storico Joshua ben Jossef e non il Cristo della fede, costruito a tavolino da San Paolo e arraffato da Costantino per farne instrumentum regni con quella montagna di dogmi sopravvenuti e accumulati per secoli che col Gesù storico hanno poco a che fare.

Di fronte a tali nomi sarebbe penoso se cercassi di fare un riassuntino.

Abbiamo davanti un libro di oltre cinquecento pagine di limpido e illuminante pensiero e quindi non immiseriamone il contenuto.

Mi limiterò quindi ad accennare al particolare “taglio” col quale l’autore affronta i quattro maestri.

Mancuso ha avuto la fortuna di iniziare la sua attività accademica al fianco di due filosofi e spiriti liberi come lui del calibro di Massimo Cacciari e di Roberta de Monticelli, ma i suoi libri non sono saggi accademici e il suo successo editoriale è dovuto anche a questo.

Questo libro, pur essendo documentatissimo e dotato di una bibliografia e note di ottimo livello è scritto per essere letto dal grande pubblico.

Socrate

Ne consegue che non ci parla di Socrate come fanno i manuali di storia della filosofia di cara e simpatica memoria dei nostri studi liceali, ma per la verità riesce a dirci quello e anche qualcosa di più, e sopratutto riesce a presentaci la figura storica di quello che è riconosciuto come il padre della nostra cultura occidentale.

Figura storica nel senso di storia viva come fortunatamente la si intende oggi.

Di Socrate ci dice come era di persona bello o brutto, per intenderci era più che brutto.

Ci dice, udite udite che in vita sua aveva anche dovuto lavorare e duramente come facciamo tutti per sbarcare il lunario come non era affatto costume dei grandi intellettuali dell’antichità.

Moglie e figli.

Cosa mangiava, che attitudini sessuali aveva (singolari si direbbe).

E ovviamente sopratutto come la pensava.

Navigava alto, se no non sarebbe stato Socrate, ma amava perdutamente l’uomo e l’umanità e credeva fortemente nella capacità di noi tutti di elevarci con lo studio per arrivare alla vita più degna che si possa vivere sulla terra per gustare il massimo di felicità conseguibile.

Se c’è stato un maestro nella storia e per di più con la convinzione di avere avuto dal Cielo la missione del maestro come un comandamento, questi era lui.

Buddha

Personalmente non avevo una grande conoscenza delle filosofie orientali se non quella derivante dalla lettura di alcuni libri del Dalai Lama e quindi ho trovato di grandissimo interesse la decisione di Mancuso di inserire fra i maestri proposti alla meditazione dei suoi lettori ben due delle figure fondamentali di quell’universo culturale : Buddha e Confucio.

Il libro del quale parliamo da la precedenza al più radicale dei due.

Il forte interesse che si è manifestato negli anni recenti per il Buddismo qui in occidente sopratutto fra i giovani e gli scienziati ha colto di sorpresa i nostri preti, che hanno reagito affrettandosi a dire con tono condiscendente che il Buddismo non è nemmeno una religione, ma solo una morale e che Buddha nemmeno credeva in dio.

Giudizi sommari e superficiali per disfarsi di un concorrente con poco sforzo.

Ma Buddha merita di più perché il suo pensiero è tutta una tensione per aiutare l’umanità a non essere infelice.

Come per Socrate anche per Buddha il punto di partenza è l’uomo e la sua condizione, che lo stesso Buddha vede con preoccupata costernazione come una preda della sofferenza che cerca di avvilupparlo da tutte le parti.

Concentrato in questa ottica constata che il problema di dio è secondario e quindi lascia sospeso il giudizio sulla sua esistenza e consistenza.

Il modo di ragionare di Buddha pragmatico e filosofico, riscuote con tutta evidenza una particolare simpatia da parte dell’autore, perché chiaramente lo aiuta nella sua transazione da un cattolicesimo istituzionale dal quale sentiva l’esigenza di staccarsi per le troppe falle logiche del suo costrutto.

Lo si capisce per esempio quando dice che la presunta rivelazione cristiana, i tre sola di Lutero (sola fides ,sola gratia, sola scriptura) o il principio di autorità (dio,creazione,sacrificio di Gesù,resurrezione e divinizzazione, chiesa gerarchica e dogmi) sarebbero dei non sensi assoluti per il pensiero del Buddha basato sulla assoluta libertà di pensiero, fiducia nella capacità dell’uomo di raggiungere il superamento della sofferenza fino al Nirvana con le sue sole forze.

Non è agevole accostarsi al Buddismo per chi proviene da una diversa tradizione culturale, ma la cosa può diventare addirittura entusiasmante quando si scopre come ha fatto Mancuso che risolve i problemi fondamentali dell’uomo senza passare per rivelazioni,dogmi,scritture, istituzioni, chiese.

Il “ gnothi sauton” conosci te stesso inciso sul frontone del tempio di Delfo, divenuto il mantra del pensiero occidentale lo ritroviamo nella sostanza alla base del pensiero buddista che si situa temporalmente quasi nel medesimo periodo storico.

Ma non nel cristianesimo che arriva quattro secoli dopo e che pone il suo fulcro tutto sul dio personale e creatore che non pare avere una buona opinione della sua creatura uomo ,che infatti senza la sua grazia si perderebbe miseramente.

Non mi avventuro nelle descrizioni della ruota della vita che gira e ritorna, la ruota del Karma,che trova nello stesso asse la ruota dentata del Dharma che l’uomo può far muovere se lo vuole a spirale verso l’alto uscendo dai cicli delle rinascite per conquistare l’illuminazione del nirvana.

O nell’altro concetto chiave del buddismo della genesi interdipendente, linguaggio al quale non siamo abituati ma nel cui significato ci ritroviamo immediatamente quando ne scopriamo la incredibile vicinanza con il “panta rei” tutto scorre di Eraclito.

Buddha lascia in sospeso il problema dell’esistenza di dio perché ritiene che la eventuale risposta non servirebbe a risolvere il vero problema pratico dell’uomo e cioè il superamento della sofferenza, ma chiaramente dichiara la non esistenza dell’anima.

Questa affermazione mette in crisi uno dei capisaldi della nostra cultura occidentale e quindi è opportuno il chiarimento che ne dà Mancuso quando sostiene che Buddha coerentemente col suo pensiero nega l’esistenza di quello che si può definire io psichico,in quanto entità in costante trasformazione rivolto alla prioritaria ricerca del piacere narcisistico che è considerata la principale fonte di sofferenza per il buddismo , ma non nega certo l’esistenza di un sé capace di esercitare la sua libera volontà firmando ogni proprio atto con “l’intenzione” altro concetto chiave di questa filosofia.

L”impermanenza” di ogni sostanza non toglie il fatto che il concetto di Karma o azione si fonda sulla convinzione che ogni nostra azione o pensiero da qualche parte rimane incancellabile aumentando o diminuendo l’energia positiva che le nostre azioni buone o cattive generano secondo l’intenzione che le ha fatte nascere.

Confucio

E veniamo a Confucio, personaggio che ha ispirato la bellezza di venti secoli di impero cinese ma che in occidente non trova colpevolmente posto nei manuali di filosofia.

Mancuso dice che se Socrate rappresenta la figura del maestro e Buddha quella del medico, Confucio non può essere visto se non come il politico.

La sua è infatti una religione civile.

Come gli altri due maestri sopra citati , ma come vedremo non Gesù, Confucio nutre grande fiducia nella capacità dell’uomo di scandagliare la propria interiorità per trovare lì la capacita di migliorare e realizzare sé stesso con le sue sole forze senza ricorrere ad alcuna rivelazione né all’autorità di alcun dio esterno.

Come Buddha Confucio è un pragmatico che crede nella libertà dell’uomo e della ricerca.

Quella che la tradizione orientale chiama il Tao, la via, per Confucio sta principalmente non nella meditazione ascetica come in Buddha, ma nello studio sistematico.

Confucio per usare un termine oggi di moda dovrebbe essere ritenuto il precursore del concetto di meritocrazia.

A differenza di Buddha non crede nell’uguaglianza degli uomini,perchè studiando ne scopre le evidenti diversità e su questa base insegnava che attraverso lo studio sistematico è possibile per tutti raggiungere l’aristocrazia dello spirito, che è il suo ideale.

Confucio non è certo animato da idee liberali o progressiste.

Il suo ideale non è un futuro progressivo, ma il mito di un passato ritenuto meglio del presente perché idealizzato.

Vede l’individuo capace di realizzare sé stesso solo come parte di un insieme di una relazione proficua con gli altri.

La priorità è una società ben gestita politicamente, non l’individuo.

La buona gestione della politica la si ottiene applicandosi a interpretare i rapporti sociali seguendo quelli che Confucio chiama i “riti”.

Che non sono cerimonie liturgie laiche o semplici manifestazioni di conformismo, ma sono un usufruire della saggezza antica praticando i rapporti sociali manifestando gentilezza e uniformandosi alle norme di condotta riportate dalla tradizione.

Come ad esempio il lutto di tre anni, norme abbastanza dettagliate perfino nell’alimentazione anche se Confucio mangiava di tutto e per di più sembra che alzasse un po il gomito nel bere birra o qualcosa di simile.

Ma il suo insistere nell’osservanza dei riti è forse accostabile all’invito di Aristotele di perseguire la virtù facendone un “abitus”, cioè l’indicazione di un mezzo utile per praticare la virtù in modo sistematico.

Per la verità devo ammettere che non mi risulta del tutto chiaro dall’esposizione in proposito di Mancuso cosa Confucio intendesse per riti, forse non è agevole ricavarne il concetto dai “dialoghi” che sono l’opera dalla quale ricaviamo le basi del pensiero di Confucio.

Mancuso li commenta asserendo che Confucio era sì un politico conservatore per definizione, ma che che i riti non erano invito al conformismo e che il suo essere conservatore non riduceva la sua assoluta fiducia nelle capacità di ognuno di elevarsi alla nobiltà che intendeva a livello spirituale e quindi non per nascita o per ricchezza.

Il suo ideale era l’armonia e per un politico questa andava declinata come società ordinata, pacifica.

Gesù

Ed eccoci al quarto maestro che stante il passato personale e professionale di Mancuso non poteva che essere Gesù.

Si è accennato sopra come l’autore si pone oggi col cristianesimo, cioè nel senso di un superamento

definitivo.

Ho trovato di particolare interesse questo ultimo capitolo anche perché nessuno di noi può ignorare l’enorme influenza che il cristianesimo ha avuto sulla nostra storia e quindi più o meno direttamente a seconda della storia di ognuno anche su noi stessi.

Temo però che la lucida analisi di Mancuso sulla distinzione netta fra Gesù di Nazaret e il Cristo della chiesa risulti difficile da affrontare sia per i pregiudizi che la gran parte di noi ha assorbito dall’indottrinamento subito non solo da fanciulli, sia diciamolo pure per la pacchiana e spesso voluta ignoranza delle più elementari nozioni di teologia della quale si soffre in Italia.

Ma lo sforzo di Mancuso è ugualmente meritorio.

Mancuso ricorre a un esempio visivo efficacissimo quello della piramide rovesciata, questa è l’operazione che ha operato la chiesa nella storia.

Al vertice c’è il Gesù storico.

Il suo pensiero è semplice e lineare e lo si può elencare in pochi concetti fondamentali :

il discorso della montagna, il padre nostro, il famoso precetto detto della regola aurea (non fare gli altri quello che non vorresti che fosse fatto a te) e poco altro.

Punto fermo la sua convinzione che quello che chiamava il Regno di Dio fosse imminente e consistesse in qualcosa di assolutamente drammatico e tragico.

Chi non si fosse convertito in fretta si sarebbe dannato eternamente.

Il Gesù vero quello della storia credeva nell’inferno, perché nel suo riferimento che era l’ebraismo c’era un dio che privilegiava la giustizia all’amore e quindi non era disposto a concede più di un’altra occasione a chi si fosse comportato moralmente da reprobo.

Prevedendo come imminente la fine di questo mondo con un intervento diretto di dio che non avrebbe distrutto il creato ma avrebbe distrutto questa era del mondo per farne partire un’altra nella quale non ci sarebbe però stato posto per chi non si fosse convertito in tempo.

Il pensiero del Gesù vero era assolutamente radicale e apocalittico perché vedeva vicina la fine del mondo così come era e quindi non riteneva che avesse senso procreare o fare sesso, fare soldi, fare carriera eccetera.

Purtroppo però Gesù si sbagliava perché il mondo non sarebbe finito.

Sbagliandosi ha messo in grave difficoltà i discepoli che si ritrovarono spiazzati.

Cosa potevano fare?

Ammettere l’errore del maestro profeta e andare avanti a predicare il suo messaggio non parlando più di imminente fine del mondo o come?

Sappiamo solo che Giacomo uno dei capi più carismatici del primi cristiani proponeva di andare avanti a usare il contenuto della predicazione di Gesù per farne la base di una nuova setta nell’ambito dell’ebraismo.

Prevalse invece nell’ambito delle prime comunità la costruzione mentale di Paolo di Tarso che si inventò l’idea della divinizzazione di Gesù per farne il Cristo cominciando a costruirci sopra i primi gradoni della piramide.

Il messaggio allora non era più : attenzione sta per arrivare la fine del mondo ed è imminente l’avvento del Regno di Dio, convertitivi altrimenti per voi sarà pianto e stridor di denti,

ma diventa : la salvezza per voi è già venuta dal sacrificio dell’agnello di dio morto in croce e resuscitato per liberarvi dai vincoli del peccato originale dei vostri progenitori che fra l’altro ha fatto sì che nella condizione umana apparisse la morte, ma questa salvezza vi può venire dispensata solo se seguirete le prescrizioni della gerarchia della chiesa.

Purtroppo con l’invenzione del cristianesimo è anche cominciata la strumentalizzazione della religione che divenne ben presto con Costantino instrumentum regni e da qui la degenerazione nel corso della storia con il libro nero del cristianesimo (persecuzione dei presunti eretici, crociate,guerre di religione,inquisizione, schiavismo tollerato pedofilia,ecc.).

Così la salvezza non è più opera della libertà umana come aveva insegnato Gesù, ma diviene un atto unilaterale di dio e sulle capacità dell’uomo incombe un cupo pessimismo (nel quale sguazzerà Sant’Agostino altro costruttore della piramide).

Mancuso non mi convince sinceramente quando dice : dopo la manifestazione dell’errore di Gesù di credere fermamente nella prossimità della fine del mondo, cosa dovevano fare le prime comunità cristiane per sopravvivere? Hanno sbagliato a seguire l’invenzione di San Paolo del cristianesimo ?

Cioè la fondazione del cristianesimo ha rappresentato un tradimento del messaggio di Gesù?

Mancuso risponde con un incomprensibile no,e dice che si trattò di un processo necessario.

Qui non riesco proprio a seguirlo anche perché questa sua opinione non viene appoggiata da alcuna adeguata spiegazione e mi sembra in evidente contrasto logico con tutto il discorso che aveva prima fatto sul Gesù storico, che chiaramente considera come quello autentico.

Peccato perché l’analisi complessiva della figura di Gesù che troviamo in questo libro costituisce una buona sintesi della lettura ormai seguita da decenni da gran parte degli studiosi e il contrasto fra il Gesù storico e l’invenzione ex novo del cristianesimo col Gesù della fede era stata delineata in modo netto e ben appoggiato da documentazione adeguata.

Tra l’altro Mancuso nella elaborazione della sua teologia per alcune migliaia di pagine delle opere precedenti aveva finalmente fatto ampio ricorso ai dati scientifici incontestabili che contrastano in modo insuperabile con la dogmatica cattolica (la piramide) non ultima l’evoluzione con la datazione della storia dell’universo dal big bang a noi.

Questo processo ha evidenziato il fatto che l’apparizione del Sapiens è avvenuta in un’epoca estremamente recente se ci riferiamo al metro da usare guardando a queste epoche e che il racconto fondamentale nella dogmatica cattolica che fa derivare l’apparizione della morte come conseguenza del presunto “peccato originale” , con l’apparizione del Sapiens non ha il minimo senso dato che è assolutamente certo che le cose stanno diversamente nel senso che la vita e la morte sono nate insieme nella dialettica che tiene insieme l’universo.

E quindi se la “creazione” della morte come una pena accessoria del peccato originale è un’invenzione senza fondamento ,allora anche il peccato originale è un’invenzione senza fondamento,la divinità di Gesù, il suo sacrificio morte e resurrezione, la fondazione della chiesa, gerarchia e sacramenti sono tutte cose prive di fondamento.

Oh, queste cose non le dico io, le scrive Mancuso e quindi come faccia a poi a dire che l’invenzione del cristianesimo da parte di san Paolo e seguaci non sia da intendersi come un tradimento del messaggio del Gesù storico proprio non lo capisco.

Il Gesù storico non è stato il figlio di dio, non è stato il Cristo della fede, ma un profeta (che significa uno che parla in nome di dio) escatologico – apocalittico che usava un linguaggio molto duro e diretto con un registro di fondo fortemente radicale e rivoluzionario che essendo ben radicato nella tradizione culturale ebraica aveva come riferimento il dio biblico che metteva la giustizia davanti all’amore e che quindi aveva ben chiara l’idea della dannazione eterna dei reprobi.

Non era affatto il dolciastro “buon Gesù” della nostra infanzia e dei nostri nonni.

Facciamocene una ragione e seguendo l’indicazione di Mancuso consideriamo il Gesù storico un valido maestro fra altri altrettanti validi maestri, Socrate,Buddha e Confucio.

Senza dimenticarci che come Mancuso sussurra dobbiamo sempre e comunque riferirci al quinto maestro che è nel nostro io più profondo che dobbiamo imparare a conoscere e a costruire.

E così torniamo al nosce te ipsum di Socrate.