mercoledì 4 agosto 2021

Beatrice Gallelli : La Cina di oggi in otto parole – recensione

 



I lettori di questo blog ricorderanno che ho già recensito di recente altri tre libri sulla Cina contemporanea, uno scritto da un sinologo Adriano Madaro e gli altri due da giornalisti Filippo Santelli e Simone Pieranni.

Il libro del quale parliamo ora è scritto da una sinologa qualificata docente alla Ca Foscari e all’Università di Bologna che a mio avviso ha fatto un piccolo capolavoro consistente nel fatto che è riuscita a esprimere quello che è essenziale per trasmettere le idee fondamentali sulla Cina contemporanea in sole 180 pagine.

Pagine documentate e provviste di note e bibliografia come si conviene a un’ accademica perfino riportando per ogni concetto importante la translitterazione in Mandarino, cosa che invece di appesantire fa entrare in modo affascinante nel mondo del quale si parla.

Ci sono le nozioni fondamentali della storia della Cina.

Così come c’è il tentativo di presentare l’essenziale della civiltà cinese come storia, filosofia, cultura.

Ma a mio avviso c’è sopratutto la volontà di prendere il toro per le corna affrontando dal principio alla fine il problema dei problemi per chi come noi in quanto Occidentali non riusciamo a fare a meno di pensare in fondo in fondo che la Cina, ormai a un soffio dall’essere la prima superpotenza del mondo, dovrà necessariamente passare per illuminismo e democrazia rappresentativa.

Ecco la Gallelli come gli autori che abbiamo sopra citati ci ammonisce a volte direttamente, più di frequente indirettamente che se c’è un modo per non capire pressoché nulla della Cina questo è partire dalla pretesa di esportare in quell’enorme paese le nostre filosofie culture e istituzioni.

Questo non significa ovviamente che sia inevitabile fare il contrario, cioè che siamo noi che dovremmo importare i sistemi vigenti in Cina.

Ma forse è giunto il tempo di togliere di mezzo i pregiudizi, i luoghi comuni, spesso frutto di semplice non conoscenza delle realtà asiatiche per cercare di capire cose che sono diverse dalle nostre e che è verosimile che diverse rimarranno.

Veniamo anche noi allora al nocciolo del problema.

La Cina è governata da un partito unico, quello Comunista e si dice nei nostri media da un solo autocrate in modo autoritario Xi Jinping.

E questo ci risulta indigesto in modo abbastanza radicale tanto da farci pensare che come il comunismo è caduto nell’Europa dell’Est insieme al muro di Berlino nell’89 non si capisce perché lo stesso non stia accadendo in Cina.

Ma non basta, il contenzioso si aggrava ancora se ci aggiungiamo il fatto che i nostri media continuano a ripetere che in Cina non c’è rispetto dei diritti umani.

Il problema è quasi tutto qui.

Ma le due affermazioni sopra riportate sono vere o false?

Formalmente sono vere, la realtà però è complessa, sfaccettata e contraddittoria, tanto da non consentire una risposta netta a livello di vero-falso.

Partiamo allora da un altro punto di vista : il regime cinese così come si presenta negli ultimi anni funziona o non funziona?

Xi Jinping l’anno scorso ha notificato al suo paese senza essere smentito in Occidente che ila Cina aveva raggiunto l’obiettivo prefissato anni prima di debellare la povertà entro il 2020.

Non mi sembra cosa di poco conto.

Aggiungiamo che la Cina continua ad essere la “fabbrica del mondo” dopo decenni di globalizzazione se pure in misura leggermente inferiore al passato.

Last but not least la Cina ha superato da tempo lo stadio sopra citato di fabbrica del mondo per prodotti a basso prezzo per entrare alla grande nell’alta tecnologia e questa è la ragione per la quale Donald Trump si era messo a fare il diavolo a quattro sull’esportazione della tecnologia del 5G elaborata dalla Huawei che stava coprendo tutto il mondo, lasciando l’America a bocca asciutta.

Non parliamo della capacità di contrastare la diffusione del Covid 19 dimostrata a Wuhan, con misure poi copiate in ritardo dal resto del mondo.

Questo che significa, che i regimi autoritari funzionano meglio delle democrazie?

La domanda è politicamente scorretta ma però i politologi e non solo se la stanno stanno ponendo con imbarazzo e sofferenza un pò dovunque.

Ecco probabilmente anche questo è un dilemma che non ammette una risposta netta del tenore di vero-falso, perché vanno ben studiate le sfumature.

I tre autori che si sono citati all’inizio hanno chiarito ai lettori dei loro libri che per capire la Cina occorre innanzi tutto partire dalla loro filosofia che è molto differente dalla nostra, nel senso che mentre noi poniamo come fine ultimo la realizzazione dell’individuo, la civiltà cinese si pone come obiettivo primario realizzare l’armonia della comunità.

Corollario che mi sembra importantissimo da aggiungere all’affermazione precedente è il fatto largamente condiviso fra gli esperti di cose cinesi e consiste nella constatazione che la popolazione pare condividere in larghissima parte questo presupposto filosofico.

E’ chiaro che se si tiene conto di questi presupposti culturali si capisce subito che esportare in Cina il nostro decalogo sui diritti umani diventa un problema serio perché la sensibilità è diversa.

Chiariamo subito che un’adesione alla sostanza di quello che intendiamo per diritti umani c’è ed è condivisa, ma le priorità sono diverse.

Non trascuriamo poi il fatto che il peso dell’indegno comportamento delle potenze colonialiste che con la “guerra dell’oppio” hanno umiliato quella millenaria civiltà grava ancora nel portato culturale di quel popolo non disponendolo certo a prendere per buona e migliore della loro la “civiltà occidentale”.

Mettiamo poi in conto il fatto che non siamo portati a dare il giusto peso al fatto che siamo condotti fuori strada nei nostri giudizi dalla potentissima propaganda dei media americani sui temi sensibili di Hong Kong,del Tibet, della condizione della minoranza islamica uiguri nello Xinjiang ,dei fatti di Tien an Men e di Taiwan.

Non che manchi la uguale e contraria offensiva propagandistica del governo cinese, ma è un fatto che gli Usa, per perseguire i loro interessi, che spesso non coincidono affatto coi nostri in quanto europei ci condizionano pesantemente ripetendo all’infinito gli stessi ritornelli fino a convincerci nel profondo che solo la loro versione sia quella buona.

Ma non è così.

Faccio un esempio che credo sia calzante.

Se chiedessimo a un passante se sulla base delle sue conoscenze il Tibet del Dalai Lama è un paese indipendente che è stato a un certo momento invaso dai Cinesi , sono certo che questi risponderebbe di sì.

Perché così credono quasi tutti in Occidente sulla base della propaganda americana.

La realtà come recitano i libri di storia occidentali compresi è che il Tibet è sempre stato una provincia dell’Impero cinese salvo mi pare per tre anni, dicesi tre, quando a seguito della crisi dell Impero è stato momentaneamente dichiarato indipendente.

Sugli Uiguri, idem come sopra, sarebbe opportuno leggersi oltre alla versione della propaganda americana anche la versione cinese e qualcuna indipendente, cercando di verificarne l’indipendenza.

Ma torniamo al punto della autocrazia.

Poco si sa da noi sul fatto che in Cina esistono elezioni a livello di villaggio e di quartiere urbano da decenni.

Ma non è questo il nocciolo del problema che sta da un’altra parte.

La meritocrazia.

Siamo abituati anche in questo caso influenzati dalla propaganda americana a considerare gli Usa il paese nel quale vigerebbe il più alto rispetto della meritocrazia.

Poi il diffondersi di ineguaglianze sempre più marcate insieme a segnali di diffuso razzismo ci hanno insinuato qualche dubbio.

In Cina nessuno può mettere in dubbio il fatto che la meritocrazia sia stata alla base delle istituzioni imperiali da sempre.

Infatti i testi di storia che si usano nelle nostre università parlano in modo approfondito degli “esami imperiali” estremamente selettivi che stavano alla base dell’apparato istituzionale del millenario impero cinese.

Oggi le cose incredibilmente non sono cambiate.

E’ vero c’è un partito unico ma per diventare dirigenti non si fanno le primarie ma si fanno esami seri e molto selettivi.

Non basta ,più il livello della carica è alta e più oltre al superamento degli esami è richiesto un solido curriculum che comprenda l’avere svolto attività dirigenziale amministrativa a livello territoriale inferiore.

Per di più nell’era attuale di Xi Jimping, si dà una preferenza di fatto a lauree nei più prestigiosi atenei nelle materie che da noi si indicano con la sigla STEM (scienza,tecnologia,ingegneria e matematica).

Il Partito Comunista Cinese è diretto da ingegneri non da avvocati come da noi e la cosa ha di per sé conseguenze.

Se si studia la reale situazione delle istituzioni cinesi e il seguito o consenso che hanno nella società è inevitabile accorgersi che non ci troviamo di fronte a un dilemma fra autocrazia e democrazia, ma fra meritocrazia e populismo come si direbbe oggi.

Non a caso i Cinesi hanno vissuto l’assalto al Congresso Usa dei seguaci di Trump come una palese dimostrazione dal loro punto di vista della superiorità delle istituzioni meritocratiche.

E’ una bella riflessione alla qual invito il lettore, senza dimenticare i punti deboli che il nostro Platone vedeva nella democrazia scrivendone nel libro sesto de La Repubblica duemilaquattrocento anni fa.

Guarda caso lui prediligeva quella che chiamava la repubblica dei filosofi, traducibile oggi con meritocrazia.

Qualcuno ricorda che Confucio era grosso modo contemporaneo di Platone., altra interessante coincidenza?








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