venerdì 12 ottobre 2012

Marchionne non funziona perché non ha mai usato un cacciavite





Dicono gli statistici che il vero dominus nella nostra vita è il caso.
Ieri ho impiegato diverso tempo a montare una scrivania appena comprata e conseguentemente a smontare quella che doveva andare in discarica.
Provare per credere.
Come mai oggi è possibile comprare nei grandi magazzini a 100 mobili che una volta costavano 200 o più?
Ovvio, in buona parte perché dovete caricarveli voi in macchina voi, portarveli in casa e poi montarveli voi.
Quante viti ho dovuto avvitare e svitare? All’incirca 150.
Dopo di che il caso ha voluto che mi mettessi a leggere la presentazione del libro scritto dal sindacalista Giorgio Airaudo ,grande esperto di metalmeccanici e soprattutto di Fiat intitolato “la solitudine dei lavoratori”.
La presentazione era firmata dal sociologo del lavoro dell’Università di Torino Luciano Gallino e quindi persona più che qualificata.
Pur essendomi sempre ritenuto “persona informata dei fatti” ,come si dice in gergo giudiziario, sia sul piano dello studio del mondo del lavoro sia per la  frequentazione sul piano professionale della logistica aziendale sono rimasto veramente scosso dal dover constatare per l’ennesima volta di come questo mondo, tutto basato sull’immagine e sull’apparire riesca a manipolare la nostra percezione delle cose, perché quello che scrive Airaudo è verissimo : il lavoratore è scomparso, non è più a fuoco per i mezzi di comunicazione e quindi ha cessato di esistere, non conta più niente.
Oggi sui giornali c’è Marchionne coi suoi fatti e misfatti, ma di cosa sia la realtà quotidiana di chi le macchine le fa veramente in Fiat la gente, noi, non sappiamo niente.
Ricordo che ancora ai tempi dell’ultimo Gianni Agnelli ci avevano raccontato la favoletta della fabbrica a misura d’uomo, con i robot che alleviavano la fatica manuale, la linea  formata da gruppi lavorativi di piccole dimensioni quasi una famigliola artigiana che prendeva il sopravvento sulla cieca tecnologia della catena.
Ci avevano decantato le virtù dell’importazione in Italia di quanto sopra riassunto e pomposamente denominato “il metodo Toyota”: una rivoluzione epocale si era detto, che avrebbe combinato la funzionalità della catena di montaggio con l’inventiva e la creatività dei singoli operatori, si sarebbe tornati nella grande industria a ricreare il metodo di lavoro della bottega artigianale del rinascimento.
Era talmente bello che ci avevamo creduto.
Oggi finalmente qualcuno, raccontando non delle favole, ma la vita reale di alcuni operai Fiat ci riporta alla dura celeberrima immagine di Charlot in “Tempi moderni”, che passa la giornata a girare bulloni con la chiave inglese, immerso in ingranaggi enormemente più grandi di lui, che non può controllare in alcun modo.
Pensavamo fosse una vecchia immagine da lasciare alla storia della rivoluzione industriale del così detto “fordismo”, ma pare che invece sia ancora la realtà quotidiana, benedetta improvvidamente  anche da una parte del mondo sindacale italiano, disposta a svendere la dignità del lavoro per una presunta sicurezza del posto che nessuno può più garantire.
Ci viene descritta la vita di un operaio addetto al montaggio sulla scocca sempre della stessa portiera, sempre nella stessa posizione, sempre dallo stesso lato.
Quattro viti di sopra, quattro viti di sotto da sistemare esattamente in tre minuti per un totale di 1.000 viti posizionate al giorno.
Il “metodo Marchionne”, che tanti tromboni hanno lodato sui giornali italiani di suo ci ha messo solo un ulteriore peggioramento delle condizioni di  lavoro di quell’operaio diminuendo i tempi di pausa e togliendo ogni potere ai delegati sindacali sui tempi di movimento della catena.
E poi gli stessi tromboni ci ripetono sino alla noia che il segreto nella globalizzazione, la vera parola magica è flessibilità, elasticità, o meglio ancora in inglese “resilience”.
Peccato che il ragionamento sia solo a senso unico, la flessibilità solo per l’imprenditore.
Per l’operaio che gira il cacciavite siamo ancora all’età della pietra , ubbidire e  girare, coi tempi decisi altrove.
Se l’apporto della creatività umana sta solo nel girare il cacciavite senza potere modificare nulla, dove va a finire il metodo Toyota?
La bottega del rinascimento allora era tutto solo propaganda, per girare una vite allora sarebbe  stato più dignitoso metterci un robot.
Perché l’uomo è più di un robot e può fare quello che un robot non potrà fare mai?
Per rispondere a questa domanda bisogna nella propria vita avere usato il cacciavite molte volte e in molte circostanze diverse, diversamente si parla alla luna.   
Questo, cioè la pratica del cacciavite è quello che sicuramente Marchione non avrà presumibilmente mai fatto, perché se lo avesse fatto si occuperebbe non solo di finanza ma anche di gestione manageriale, di tempi della linea, di organizzazione del lavoro nella linea con i problemi concreti annessi e connessi.
Se uno è pratico di cacciavite sa che le viti non sono tutte uguali, che qualcuna  è più rifinita di un’altra, sa che qui non siamo nel campo della meccanica di precisione degli orologi svizzeri e che quindi le sbavature hanno la loro influenza, e dall’altra parte i fori possono avere scanalature più o meno ben rifinite e che si conseguenza ci vuole appunto elasticità nel calcolare i tempi.
Questo significa che i tempi non  possono essere sempre uguali, devono avere margini di elasticità, che l’operatore padroneggia e il robot non padroneggia.
E più il lavoro è ripetitivo e abbassa l’attenzione dell’operatore, più dovrebbero essere le pause per consentirgli di riprendere il controllo della propria mente frustrata e della propria umanità anche solo ai fini del buon andamento produttivo.
Di questo è necessario tornare a parlare invece che di spread,  derivati e  sigle varie, inventate per non far capire di cosa si sta parlando e così di fatto si fa passare  il concetto di non disturbare il manovratore.
Questa storia deve finire, i cittadini Cipputi e Fantozzi in democrazia esercitano il potere e quindi devono essere messi in condizione di capire di cosa si parla.
E anche loro però questo potere devono pretendere di riprenderselo e non continuare a inchinarsi al signor barone.

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