Diversi anni fa ho letto la bellissima
autobiografia di Nelson Mandela, sull’onda dell’euforia, derivante dalla
possibilità di acquistare per la prima volta sul web libri nel circuito
internazionale, senza sovra- costi di intermediari e con spedizione di una
celerità sconosciuta, diversi anni prima della sua uscita in Italia.
Il personaggio era già un mito nella cerchia dei
sessantottini e affini, anche se ne avevamo solo una conoscenza superficiale,
ma era ben poco conosciuto dal più grande pubblico.
Purtroppo in
Italia ha avuto troppa poca eco anche la figura, che è stata vicinissima a
Mandela nella fase della pacificazione nel dopo- apartheid, quella del vescovo
anglicano Desmond Tutu.
La figura di Mandela risultava estremamente
accattivante .
Come leader politico carismatico era anomalo per la
sua epoca e per il suo continente, perché non era affatto un ideologo fanatico
ed ancor meno era un sobillatore della lotta armata.
Per il mondo culturale nel quale è nata e cresciuta
la mia generazione (quella dei non più giovani baby-boomers), Mandela risultava
affine perché aveva più di qualcosa, che richiamava le figure austere e pulite
del nostro Risorgimento.
A me, come a chissà quanti altri lettori, ha
colpito il numero impressionante di anni che il nostro ha passato nella galera
di quella piccola isola, che da lontano faceva intravedere il Sud Africa.
Ventisette anni, al primo colpo pensavo fosse un
errore di stampa.
Per noi si tratta di un numero di anni di galera
addirittura superiore a quello che in media passano gli ergastolani.
E’ molto interessante il modo come Mandela in quel
libro descrive la sua lunghissima vita carceraria.
L‘impegno quotidiano, sistematico e caparbio di dedicare tempo per istruirsi,
tenersi al corrente e fare, nei limiti delle restrizioni carcerarie, scuola di
politica con i suoi compagni.
Si era costruita una cultura anglosassone classica,
e questo ovviamente lo favoriva nel cercare di capirsi con i suoi avversari del
governo bianco Sud Africano, che pure erano di cultura anglosassone.
Con lo stesso impegno e caparbietà si dedicava con
metodo all’esercizio fisico.
Sarà sempre uno sportivo appassionato, che del
calcio e del rugby si servì anche come di strumenti potenti per fare
aggregazione, al di là delle differenze di colore della pelle, di cultura e di
lingua.
Di stirpe reale, in una piccola etnia di quella
regione, si era trovato nella condizione di essere un africano, che sentiva di
portarsi addosso la responsabilità per la sua gente.
Era un po’ nella condizione, che in Europa avevano
quei cadetti di famiglie nobili, un tempo potenti e poi decadute, che però
avevano nelle loro radici la cultura della nobiltà in senso positivo.
E poi la lunga preparazione, e infine la lotta per
abolire l’apartheid, senza scatenare la guerra civile, cercando
contemporaneamente di non cadere nella trappola dei contrapposti schieramenti
geopolitici, in quegli anni di piena guerra fredda.
Ebbe successo, anche perché aveva la qualità
principale del diplomatico di razza: cioè la capacità e la naturale
inclinazione a fare lo sforzo intellettuale per mettersi nei panni
dell’avversario, per cercare di individuare le sue esigenze e possibilmente anche per entrare nei meandri
delle loro motivazioni inconsce, passionali.
Ma la battaglia più grossa, perché più
difficile e coinvolgente sul piano umano
l’ha dovuta combattere con le diverse componenti del suo schieramento, nel
quale militavano molti compagni, troppo “compagni” nel senso di filo-comunisti.
Mosca era interessatissima ad inserirsi in quelle
lotte e non badava a spese, cosa questa pericolosissima per quella congrega di
intellettuali squattrinati.
La storia,
è lunga ed è andata a finire come sappiamo.
Mandela, primo presidente africano del Sud Africa
ex bianco, anche se a stragrande maggioranza nera e premio Nobel per la pace.
Anche se questa è una storia bella e, una volta
tanto, a lieto fine, non è però certo stata priva di ombre.
Anzi, soprattutto oggi, si vedono ambre molto
fitte, costituite da una diffusa corruzione e da una impreparazione, a volte
sorprendente di quella classe politica.
Madela era nato per volare alto e non per scendere
nelle quotidiane grane dell’amministrazione e dell’economia.
Immaginiamoci, per fare un paragone, a noi più
vicino, cosa sarebbe stato, se la sorte avesse voluto, che a fare l’unità
d’Italia fosse riuscito non a Cavour, ma a Mazzini.
Ora Mandela è nel Panteon dell’umanità, perché è
stato con umiltà e con sobrietà abbastanza grande da essere percepito come un
eroe universale.
La lotta contro le discriminazioni di ogni tipo
avranno sempre nella figura di Mandela il loro punto di riferimento.
Diversi anni fa ho letto la bellissima
autobiografia di Nelson Mandela, sull’onda dell’euforia, derivante dalla
possibilità di acquistare per la prima volta sul web libri nel circuito
internazionale, senza sovra- costi di intermediari e con spedizione di una
celerità sconosciuta, diversi anni prima della sua uscita in Italia.
Il personaggio era già un mito nella cerchia dei
sessantottini e affini, anche se ne avevamo solo una conoscenza superficiale,
ma era ben poco conosciuto dal più grande pubblico.
Purtroppo in
Italia ha avuto troppa poca eco anche la figura, che è stata vicinissima a
Mandela nella fase della pacificazione nel dopo- apartheid, quella del vescovo
anglicano Desmond Tutu.
La figura di Mandela risultava estremamente
accattivante .
Come leader politico carismatico era anomalo per la
sua epoca e per il suo continente, perché non era affatto un ideologo fanatico
ed ancor meno era un sobillatore della lotta armata.
Per il mondo culturale nel quale è nata e cresciuta
la mia generazione (quella dei non più giovani baby-boomers), Mandela risultava
affine perché aveva più di qualcosa, che richiamava le figure austere e pulite
del nostro Risorgimento.
A me, come a chissà quanti altri lettori, ha
colpito il numero impressionante di anni che il nostro ha passato nella galera
di quella piccola isola, che da lontano faceva intravedere il Sud Africa.
Ventisette anni, al primo colpo pensavo fosse un
errore di stampa.
Per noi si tratta di un numero di anni di galera
addirittura superiore a quello che in media passano gli ergastolani.
E’ molto interessante il modo come Mandela in quel
libro descrive la sua lunghissima vita carceraria.
L‘impegno quotidiano, sistematico e caparbio di dedicare tempo per istruirsi,
tenersi al corrente e fare, nei limiti delle restrizioni carcerarie, scuola di
politica con i suoi compagni.
Si era costruita una cultura anglosassone classica,
e questo ovviamente lo favoriva nel cercare di capirsi con i suoi avversari del
governo bianco Sud Africano, che pure erano di cultura anglosassone.
Con lo stesso impegno e caparbietà si dedicava con
metodo all’esercizio fisico.
Sarà sempre uno sportivo appassionato, che del
calcio e del rugby si servì anche come di strumenti potenti per fare
aggregazione, al di là delle differenze di colore della pelle, di cultura e di
lingua.
Di stirpe reale, in una piccola etnia di quella
regione, si era trovato nella condizione di essere un africano, che sentiva di
portarsi addosso la responsabilità per la sua gente.
Era un po’ nella condizione, che in Europa avevano
quei cadetti di famiglie nobili, un tempo potenti e poi decadute, che però
avevano nelle loro radici la cultura della nobiltà in senso positivo.
E poi la lunga preparazione, e infine la lotta per
abolire l’apartheid, senza scatenare la guerra civile, cercando
contemporaneamente di non cadere nella trappola dei contrapposti schieramenti
geopolitici, in quegli anni di piena guerra fredda.
Ebbe successo, anche perché aveva la qualità
principale del diplomatico di razza: cioè la capacità e la naturale
inclinazione a fare lo sforzo intellettuale per mettersi nei panni
dell’avversario, per cercare di individuare le sue esigenze e possibilmente anche per entrare nei meandri
delle loro motivazioni inconsce, passionali.
Ma la battaglia più grossa, perché più
difficile e coinvolgente sul piano umano
l’ha dovuta combattere con le diverse componenti del suo schieramento, nel
quale militavano molti compagni, troppo “compagni” nel senso di filo-comunisti.
Mosca era interessatissima ad inserirsi in quelle
lotte e non badava a spese, cosa questa pericolosissima per quella congrega di
intellettuali squattrinati.
La storia,
è lunga ed è andata a finire come sappiamo.
Mandela, primo presidente africano del Sud Africa
ex bianco, anche se a stragrande maggioranza nera e premio Nobel per la pace.
Anche se questa è una storia bella e, una volta
tanto, a lieto fine, non è però certo stata priva di ombre.
Anzi, soprattutto oggi, si vedono ambre molto
fitte, costituite da una diffusa corruzione e da una impreparazione, a volte
sorprendente di quella classe politica.
Madela era nato per volare alto e non per scendere
nelle quotidiane grane dell’amministrazione e dell’economia.
Immaginiamoci, per fare un paragone, a noi più
vicino, cosa sarebbe stato, se la sorte avesse voluto, che a fare l’unità
d’Italia fosse riuscito non a Cavour, ma a Mazzini.
Ora Mandela è nel Panteon dell’umanità, perché è
stato con umiltà e con sobrietà abbastanza grande da essere percepito come un
eroe universale.
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