Giornali e
telegiornali ci hanno informati che Papa Francesco il 24 ottobre
scorso ha affrontato pubblicamente il discorso su come potrebbe
essere il Paradiso, argomento che dovrebbe essere quello principe per
la chiesa cattolica ,che da sempre dice che quello che succede e si
fa nell’al di qui, ha sostanzialmente valore solo per quello che ci
fa perdere o guadagnare nell’al di là, quando verrà il momento di
andarci.
Argomento che
dovrebbe essere principe si diceva, ma che non lo è affatto perché
su questa questione la chiesa medesima è sempre stata estremamente
prudente al limite della reticenza.
Come è possibile?
Si potrebbe pensare.
La ragione di tale
ritegno è semplicissima, ma allo stesso tempo sconcertante e
consiste nel fatto, citato proprio dal Papa nella catechesi del 24
scorso, che
il Nuovo
Testamento parla del Paradiso incredibilmente una volta sola e in
modo indiretto, quando Gesù dice al buon ladrone : “in
verità ti dico tu oggi sarai con me in
Paradiso” (Luca 23-48).
E per di più
Matteo,Marco e Giovanni non fanno cenno di questo passo nei loro
Vangeli.
Inutile dire che
questo vuoto nella Scrittura costituisce un punto fra i più deboli
dell’intiera predicazione cristiana, tutta orientata sull’al di
là.
E’ quindi una
inspiegabile contraddizione il fatto che la chiesa quel luogo dell’al
di là non sa come descriverlo, tanto che molti teologi, oggi ne
parlano non più come di un luogo fisico, ma come di uno “status”
esistenziale, un modo di essere.
Il Papa, lo abbiamo
detto, ne ha parlato come “la meta della nostra speranza” e “Gesù
lo promette
a un povero diavolo che, sul legno della croce, gli rivolge la più
umile delle richieste: ricordati di me”.
Per
conquistare il Paradiso basta un umile pentimento per i nostri
peccati, commenta
il Papa,
che poi
entra direttamente
nell’argomento : “Che
cos'è il Paradiso? “Non
è un luogo da favola e nemmeno un giardino incantato” ”Il
Paradiso è l’abbraccio con Dio amore infinito e ci entriamo grazie
a Gesù” e
poi soggiunge “ Gesù ci vuole portare nel posto più bello che
esiste perché nulla vada perduto di ciò che aveva già redento”.
“Se crediamo in questo, conclude papa Francesco, possiamo pensare
di partire da questo mondo con serenità e fiducia. “In
quell’istante finalmente non avremo più bisogno di nulla, non
piangeremo più inutilmente perché tutto è passato, anche le
profezie, anche la conoscenza. Ma l’Amore no, quello rimane perché
la Carità non avrà mai fine”.
Belle
parole, immaginifiche, che come visione teologico-filosofica sposano
la tesi della quale si diceva sopra del non luogo fisico, ma
piuttosto
dello
“stato dello spirito”.
La
cosa singolare è che questo spinoso argomento lo stesso papa
Francesco lo aveva già trattato in
altre occasioni e in particolare nei colloqui con Eugenio Scalfari,
ultranovantenne intellettuale ateo -
agnostico, fondatore di “Repubblica”.
Con
Scalfari papa
Francesco aveva ribadito il concetto che essendo tutto basato sulla
misericordia di dio, in Paradiso ci andrebbero
quasi tutti, purché
pentiti o almeno consapevoli delle proprie mancanze, mentre coloro
che nemmeno riconoscono le male azioni compiute come tali (il grande
e compianto Card. Martini usava dire “ coloro che non pensano”)
andrebbero incontro alla fine che probabilmente desideravano, cioè
semplicemente ad una fine vera, nel senso che la loro anima si
dissolverebbe nel nulla (quindi
niente inferno).
Naturalmente
i soliti “cattoliconi” esponenti del tradizionalismo cattolico,
auto-nominatisi
difensori della fede, anche contro le presunte deviazioni dottrinali
del papa, si sono stracciate le vesti : “ma come ! Il
papa parla di argomenti così delicati e basilari con un laico e per
di più non credente?
La
solita ignoranza, nel senso di non conoscenza, del tradizionalismo
cattolico.
Come
non ricordare che il papa più intellettualmente preparato del secolo
scorso, Paolo VI
amava passare lunghe ore confrontandosi in discussioni con l’amico
Jean Guitton, filosofo neo-tomista, guardando dai palazzi apostolici
il favoloso panorama romano, che finiva nei colli cantati da Ovidio?
O l’accademico
Papa Ratzinger ,che era uso rivedersi periodicamente con quelli che
considerava i suoi allievi più vicini (quasi tutti laici) per
intrattenere con loro lunghe discussioni.
O Papa Woytila che
per tutta la vita, a costo di alimentare anche il più maligno dei
“gossip” vaticani, ha continuato a mantenere per tutti gli anni
del suo pontificato un profondo sodalizio intellettuale con la sua
amica di gioventù, la neuropsichiatra infantile Wanda Poltawska,
ospitandola per lunghi periodi addirittura nel sacro palazzo.
E così di seguito,
forse i tradizionalisti cattolici rimpiangono i tempi dei Pii XII
che si auto-relegavano in una torre d’avorio, tempi finiti da un
bel pezzo.
Fatto sta che
il bisogno perfino dei papi di confidarsi privatamente su argomenti
di fede, anzi su argomenti principe di fede come quello dell’al di
là, con amici sicuri, documentano il fatto che per nessuno, compresi
i papi esistono in realtà verità così evidenti da non aver bisogno
di essere discusse e di sentirne in merito il parere degli
amici, con buona pace degli ultra-tradizionalisti, convinti di essere
gli unici ad avere la verità in tasca.
Ma torniamo a noi.
E’ bello ma
obiettivamente non è molto quello che il
papa ci ha detto in proposito dell’”al di là”, anche
se ,quando si tratta di cose provenienti dai sacri palazzi, occorre
avere l’accortezza di “leggere fra le righe” nel senso che
spesso quello che non viene detto, può essere più importante di
quello che viene detto esplicitamente.
Mi ha fatto pensare
alla necessità di adottare questo procedimento la piccata critica
alla predicazione papale della quale stiamo parlando, fatta di
recente con molta cautela e rispetto formale dall’ex prefetto del
sant’uffizio, Card Mueller, recentemente giubilato, che sembrava
dire nella sostanza (non esplicitata) : comodo per il papa
accattivarsi folle plaudenti, battendo continuamente sul solo tasto
della misericordia di dio, ma il resto della dottrina, sarebbe suo
dovere ribadirlo, invece che saltarlo.
Non posso dargli
torto nella sostanza, se cerco di ragionare seguendo il punto vista
dei tradizionalisti e degli apparati clericali, che appaiono
preoccupati più della sorte della loro “bottega”, che della
felicità dei fedeli, perché
dire quello
che il papa ha detto a Scalfari e nella catechesi del 24 scorso
significa non dire appunto, per esempio, che
paradiso, inferno, purgatorio e peggio ancora limbo sono concetti
finiti nella più polverosa delle soffitte e destinati
a rimanerci.
E poi, non voglio
essere eccessivo nel lanciarmi in deduzioni, ma se in paradiso ci
vanno tutti, come in pratica ha detto il papa, fidando nella
misericordia di dio, purchè abbiano un minimo di cervello e di
coscienza, che ce ne facciamo dei sacramenti? E delle liturgie?
Alla fin fine i
preti perderebbero il lavoro.
In questa
prospettiva infatti il papa riempirà sempre più piazze, ma i
presbiteri rimarranno sempre più senza lavoro e chi pensa sopratutto
a questo si preoccupa con qualche fondamento.
Non se ne
preoccupano affatto invece i “preti da strada” perché il loro
lavoro sta aumentando, non diminuendo, ma qui proprio sta il
discrimine, che probabilmente papa Francesco non riuscirà ad
evidenziare prendendo il toro per le corna della curia, per non
essere incornato dalla forza enorme degli apparati autoreferenziali
di tutti quelli che pensano al loro servizio come impiego che non
rende poi così poco, se si pensa anche solo alle entrate da 8 per
mille in Italia, molto di più in Germania, eccetera.
Se poi pensiamo al
valore venale dei beni immobili ecclesiastici…….dovremmo
beatificare Napoleone che li aveva espropriati a favore dello stato,
tanto poi di fatto sono tornati dove stavano prima.
Tutto questo
per dire che il “poco” che ha espresso il papa non è poi così
poco.
Poco però è
e rimane dal punti di vista di una presunta spiegazione razionale
dell’al di là.
E infatti
chiediamocelo : pur essendo questo “poco” significativamente
molto più consistente per l’umanità rispetto al puro invito alla
acritica e irrazionale sottomissione al “mistero” miracolistico e
sacrale dei tempi di Pio XII, basta per soddisfare la sete di
conoscenza dell’uomo moderno?
Temo di no.
Papa Francesco
tradisce continuamente una autentica ansia di condividere la
condizione umana e l’anelito a conseguire per quanto possibile la
felicità della gente e questo ovviamente va benissimo e ci rende
caro questo personaggio straordinario.
Personaggio che però
forse per una sua insufficiente preparazione o interesse specifico in
materia di scienza sembra non comprendere quanto l’uomo moderno si
sia impossessato oramai forse inconsciamente ma decisamente dei
fondamentali del pensiero scientifico.
L’uomo
moderno ormai ha addestrato il suo cervello a richiedere conoscenza
e la “conoscenza” è in una posizione di insuperabile contrasto
con la “fede” che quindi non può in alcun modo essere
considerata nel mondo moderno come un
merito o una virtù, ma piuttosto come una superstizione, un
pregiudizio, perché non è in grado di superare la minima verifica,
affidata alla critica razionale.
La fede per
definizione è un’operazione di “wishfull thinking” che
wikipedia traduce come : pensiero illusorio, pio desiderio, pensiero
desideroso.
Chi crede per fede,
crede non perché ha elaborato e ottenuto una verifica razionale,
dimostrabile almeno sul piano logico, a favore delle sue credenze,
ma crede solo perché “vuole” credere, facendo in qualche modo
violenza alla sua sete di conoscenza di interpretazioni della realtà
che siano dimostrabili da qualche evidenza.
E qui ci si arresta,
purtroppo.
Il pensiero
scientifico sulla base delle moderne acquisizioni non può
riconoscere l’esistenza di un “al di là” ,perché non c’è
allo stato delle conoscenze alcuna evidenza a favore, ed al
contrario, tutte le evidenze sono a favore del no.
Per il pensiero
scientifico non esiste allo stato delle conoscenze alcuna possibilità
di riconoscere un’esistenza autonoma a quelle che noi intendiamo
come “realtà spirituali” : pensiero, sentimenti eccetera.
Queste realtà
esistono con tutta evidenza, e in un certa misura la ricerca
scientifica nelle neuroscienze oggi è vicina a poter riscontrare una
loro presenza empirica, attraverso l’uso di macchine sempre più
sofisticate che sono in grado di evidenziare le operazioni che sta
compiendo in un certo momento il nostro cervello, compreso quelle che
definiamo pensiero ed espressione di sentimenti.
Si sta arrivando in
qualche modo a “misurare “ il pensiero e i sentimenti.
Questo evidentemente
è un bene perché consentirà di affrontare per la prima volta la
cura di malattie prima ritenute non trattabili empiricamente, come i
disturbi mentali, quelli che una volta erano definiti “pazzia”.
Ma nello
stesso tempo questi progressi delle neuroscienze, sembrano
sottolineare la dipendenza di pensiero-sentimenti dall’hardware che
li produce, l’organo cervello, estremamente complesso,ma sempre più
studiato e conosciuto.
Mi pare che si parli
di qualcosa come formato da 100 miliardi di neuroni, che per di più
non sono tanto importanti di per sé e per il fatto che sono un
numero enorme, ma per il modo con il quale questi neuroni formano le
famose sinapsi, cioè i collegamenti fra di loro.
Uno scienziato che
parla in quanto scienziato, può anche essere credente, queste sono
scelte personali,che ognuno fa come meglio ritiene, ma non potrà mai
dire , sulla base dello stato delle cose attuale, che ha trovato
l’evidenza di una esistenza autonoma dello “spirito”, una volta
che è perito l’hardware cervello, che lo ha prodotto.
Questo è un dato di
fatto che sarebbe sciocco ignorare.
Purtroppo ! E
dico purtroppo perché personalmente pur essendo agnostico o meglio
“beliver but non denominational” cioè credente ma non
etichettabile in nessuna delle denominazioni religiose, sono fra
coloro che non si ritengono assolutamente soddisfatti da una simile
constatazione negativa.
Mi tocca
riconoscerla sul piano razionale, perché l’evidenza è quella che
è, ma continuo a chiedermi se non c’è una qualche ipotesi
razionalmente plausibile che consenta di pensare ad una esistenza
autonoma di pensiero e sentimenti, cioè di quello che la filosofia
chiama spirito e la teologia chiama anima.
Molti scienziati pur
consapevoli delle risposte delle loro discipline in questa materia
hanno manifestato interesse e sensibilità nei riguardi della
questione della quale stiamo parlando perché cruciale per definire
la condizione umana.
E’ per
esempio di estremo interesse andare a leggere i passi nei quali
Darwin affronta l’argomento religione, quello stesso
Darwin, che obiettivamente ha dato il colpo di grazia a tutte le
mitologie religiose, era anche una persona che soffriva nel suo animo
a dover riconoscere le conseguenze che avrebbero avute le sue
scoperte, non fosse altro per il grande affetto che nutriva verso la
moglie che non solo era credente ma che praticava una fede molto
tradizionalista, lontanissima dallo spirito critico.
Albert
Einstein ha ribadito più volte in modo esplicito la sua sensibilità
e il suo interesse nei confronti della religione.
Bisogna intendersi
però sul significato delle parole perché se Einstein rivendicava il
fatto di essere credente, probabilmente questo termine per lui aveva
il medesimo significato di “pensante” che troviamo nelle
meditazioni del Card.Martini, come si era accennato sopra.
Il dio di Einstein è
lecito trovarlo nella enunciazione filosofica di Spinoza, quel “deus
sive natura” e infatti di certo era concepito come “non
personale” e come collegato col cosmo, coll’universo.
Veronesi altro
scienziato dotato di una sensibilità aperta a ragionare sulle
ipotesi religiose diceva che l’unica forma di immortalità
nell’uomo risiede nella trasmissione ai discendenti del suo
patrimonio genetico e di quello che ha fatto in vita.
Insomma nel
pensiero in proposito al quesito sull’”al di la” da parte degli
scienziati che hanno manifestato interesse al problema, si riscontra
regolarmente l’intuizione a un legame con la natura che fa
pensare che se esiste un divino questo deve essere connesso con la
natura stessa.
C’è un filone di
pensiero che si snoda da sempre su questa strada e che parte dalla
constatazione che l’universo è estremamente complesso, ma è
indiscutibilmente leggibile medianti costanti matematiche e fisiche
che sono interpretbili dall’uomo, che quindi ha la facoltà per
svilupparne al conoscenza.
Dio è la
matematica?
Per certi
aspetti c’è qualcosa di razionale in questa apparentemente strana
affermazione.
Affermazione
condivisa filosoficamente da molti scienziati come ipotesi di
spiegazione della condizione umana, che ha delle conseguenze
abbastanza drastiche perché taglia fuori tutte le mitologie, le
narrazioni sulle quali si basano le scritture e le dottrine di tutte
le religioni.
Forse sono stati
troppo sbrigativi i positivisti e gli illuministi che ritenevano le
religioni frutto di pregiudizi e ignoranza che sarebbero scomparse
con il diffondersi dell’istruzione.
Molte belle anime
ripetono in modo acritico uno degli argomenti ritenuti forti dagli
apparati clericali, che affermano : vedete la nostra chiesa ha
resistito per duemila anni e questa è la prova della sua forza.
Peccato che si
dimentichino di aggiungere che la forza delle chiese non è stata
basata nei secoli sulla obiettiva capacità di convincere
razionalmente la gente di quanto andavano predicando, ma proprio
sulla forza bruta del potere laico che ha da sempre usato le
religioni per legittimare il loro potere e puntellarsi.
E quindi nessuno
poteva permettersi di non credere, bella forza!
Ho capito perché i
preti ,anche senza leggerlo, odiano e consigliano di non leggere Dan
Brawn, leggendo l’ intervista che ha fatto di prammatica per il
lancio del suo nuovo romanzo “Origin” in Italia, quando lo stesso
Brawn afferma candidamente di ritenere che i miti religiosi
(cristiano, musulmano, buddista, induista,confuciano, shintoista
eccetera) abbiano i giorni contati, cioè che in un futuro
probabilmente anche prossimo non avranno più alcun credito.
Temo di essere
portato a condividere la profezia di Dan Brawn anche perché sul
piano storico mi sono convinto che le religioni tradizionali abbiano
dato all’umanità più problemi e guai che soluzioni di problemi.
Ma questa è altra
cosa rispetto all’ipotetico possibile riconoscimento di un qualche
modo di potere pensare a una esistenza autonoma di pensiero e
sentimenti anche quando il cervello perisce con il resto del nostro
corpo.
Naturalmente non
sono tanto sciocco da dire ai miei lettori che dopo tanti anni di
meditazione ho formulato una mia ipotesi sul problema dei problemi.
Non ho scoperto
l’acqua calda, sono solo uno dei tantissimi che da sempre pensano e
ricercano possibili risposte senza andare oltre a quegli orientamenti
che si sono citati sopra.
In questi
giorni mi sono imbattuto per caso in una lirica del poeta senegalese
di lingua francese,Birago Diop, che se pure con linguaggio
appunto poetico, tratta il nostro tema con una forza espressiva
veramente notevole.
C’è tutta la
forza ancestrale della sua Africa, che è non dimentichiamolo, come
risulta scientificamente dimostrato, la nostra comune patria di
origine come Homo sapiens.
In francese il
titolo è “le souffle des ancetres”, la manifestazione dello
spirito degli antenati. Bellissimo il modo di rappresentare le realtà
spirituali in una perenne natura, le credenze ancestrali che si
combinano con il filone di pensiero di alcuni dei più grandi
scienziati che si sono sopra citati, senza bisogno di tirare in ballo
le narrazioni mitiche delle varie religioni.