venerdì 17 aprile 2015

Il genocidio degli Armeni, un problema  serio trattato in modo superficiale



Ci sono avvenimenti storici che riguardano la  vita di un popolo che hanno da  sempre ampia copertura e che quindi sono noti praticamente  a tutti, altri  invece  che stentano  terribilmente ad essere presi  in considerazione e di conseguenza sono poco  studiati e su  di loro per  lo più si dicono e si scrivono  cose approssimative.
E’ antipatico dirlo, però in questi ultimi casi, la colpa non è quasi mai di un  ipotetico “fato”, ma è quasi sempre dei popoli  interessati.
Il genocidio armeno, perpetrato nel 1915 è un esempio emblematico di fatto di per sé eclatante, ma quasi  ignorato, perché poco noto e poco noto perché gli stessi  Armeni, spiace dirlo, hanno fatto pochissimo per metterlo  sotto i riflettori della storia.
Questa  impressione, che ho sempre  avuto sull’argomento, e che avevo riportato in diversi precedenti articoli su questo blog , è stata confermata da un articolo apparso due giorni fa su Repubblica a firma di  Nadia Urbinati, politologa che insegna scienze politiche alla  Columbia University di New York, e che riporta quanto Antonio Gramsci aveva commentato in proposito.
La cosa è di grandissimo interesse, non solo perché si  tratta del parere di uno dei massimi intellettuali italiani, ma  soprattutto perchè Gramsci è stato per ragioni di età ,un testimone dei fatti in questione.
Ebbene, dai brani gramsciani riportati dalla Urbinati  si ricava quasi lo stupore di Gramsci stesso per il fatto che quel popolo  non ha ritenuto o non è stato capace di comunicare col resto del mondo.
Gramsci scriveva in un articolo del 1916 che perché un fatto ci tocchi e ci commuova è necessario che riguardi gente che ci è vicina geograficamente, e della quale abbiamo sentito parlare ,in modo che così entri “nel cerchio della nostra umanità”.
Perché qualcosa venga percepita come vicina, abbiamo bisogno di averne notizie, diversamente rimaniamo indifferenti.
Gli Armeni hanno avuto il torto storico di non essersi fatti conoscere, e  di conseguenza la tragedia che li ha colpiti non ha suscitato niente di più di una generica pietà.
Così non è mai scattata né allora né dopo quell’empatia capace di far sentire quei fatti loro come fatti nostri.
Se io  personalmente ho conoscenza e mi sono documentato sul genocidio degli Armeni è solo perché il caso ha voluto che avessi una parente stretta di origine armena, diversamente, non ne saprei praticamente nulla.
E ricordo che quando quella mia parente mi raccontava quelle vicende, mi veniva da pensare : ma come mai questo popolo martoriato non ha saputo reagire e non ha utilizzato i decenni successivi a quei fatti tragici per costruirci sopra la propria riscossa?
Rimanendo in quella regione,  mi veniva da  pensare alla vicenda dei Palestinesi, anche loro strappati e sradicati dalle loro case e dal loro paese.
Però che reazione che hanno avuto, hanno creato un movimento anche armato, Al Fath ,si sono scelto un capo come era Yasser Arafat, che aveva saputo anche troppo apparire per decenni sulle prime pagine dei giornali per fare in modo che nessuno potesse fare a meno di pensare alla causa palestinese.
Gli Armeni, purtroppo  per loro, non hanno fatto niente di tutto questo e quando la storia ha dato loro l’occasione della grande rivincita nella la guerra locale con i vicini dell’Azerbagian  per mettere le mani sul petrolio, non erano preparati né militarmente, né prima ancora spiritualmente e psicologicamente per impegnarsi allo spasimo per sfruttare la loro grande occasione e l’hanno persa.
Hanno subito quello che sappiamo, ma guai a fare seguire a un’ingiustizia, per quanto grave, l’atteggiamento di piangerci sopra e dimostrarsi incapaci di reagire.
Sempre rimanendo in quella regione non parliamo dei Kurdi.
Oggi tutti li conoscono e sanno cosa vogliono.
Gli Armeni la gente non li conosce e non sa cosa vogliono al punto che lasciano pensare di non  volere nulla, e cioè che si accontentino del fazzoletto di terra nel quale vivono.
E’ singolare questa incapacità di reazione, quando il popolo che viene a loro accostato più di frequente, gli ebrei israeliani , per l’ovvia ragione che loro hanno subito l’olocausto più scioccante della storia contemporanea, sono proprio la dimostrazione del fatto che per ottenere qualcosa occorre reagire e combattere.
Al  punto che i primi coloni del movimento sionista, consci dell’errata e controproducente immagine che la gente si era fatta dell’ebreo pecorella sacrificale, debole e imbelle, dopo la shohà, hanno stabilito l’obbligo per i seguaci del movimento di seguire corsi di educazione fisica proprio per dare l’immagine di un uovo tipo di ebreo.
Questo fatto è significativo.
La non conoscenza con la conseguente non partecipazione alla vicenda del loro genocidio, fa sì che ancora oggi che si celebri il centenario in mezzo agli equivoci.
Quando non c’è chiarezza, ci salta subito dentro la politica, ognuno tira acqua al proprio mulino e la situazione diventa ancora più oscura.
Si veda l’equivoco sull’atteggiamento della Turchia.
La Turchia non nega affatto che in quei mesi del 1915 i fondatori del loro paese abbiano perpetrato il massacro di un numero enorme di Armeni, cacciandoli dalle loro case e costringendoli a una lunga marcia senza rifornimenti, fatta apposta per farli morire strada facendo.
Addirittura Erdogan si era spinto di recente ad evocare quei fatti ed a chiedere scusa.
Quello che l’attuale governo turco contesta è il numero delle vittime, generalmente riportate (un milione) che viene giudicato per lo meno doppio del reale, sostenendo quel governo che a quel tempo vivevano in Turchia solo proprio mezzo milione di Armeni.
Contestano poi l’uso del termine olocausto, che vuol significare la volontà di estinguere un popolo, ma usano loro stessi i termini analoghi di massacro, sterminio di massa, eccetera.
Questa però è l’ennesima conferma del fatto che i politici è bene che facciano i politici e che gli storici facciano gli storici.
Non sono né i governi, né i parlamenti, né le organizzazioni internazionali che si possono arrogare il lavoro e le conclusioni (sempre provvisorie) che spettano al rigoroso lavoro degli storici.
Detto questo è ovvio che giudico poco sensate le deliberazioni di consessi politici per denominare quello armeno un genocidio invece che uno sterminio di massa.
La differenza, se si ragiona pacatamente e con un po’ di buon senso è solo politica.
Spiace che il Papa si sia trovato invischiato in questa questione di lana caprina, facendo una dichiarazione che aveva un senso in tutto un contesto, ma che usata da lui  probabilmente in modo imprudente in questa situazione di grande confusione sui termini del problema, ha fatto sì che i media di tutto il mondo abbiano convinto i lettori che le intenzioni del papa fossero ben diverse da quelle che e non potevano essere altrimenti : invitare alla concordia , non certo alla polemica e all’odio, per di più retrospettivo.
Non è un caso che il Segretario di Stato Parolin, il giorno dopo si sia dovuto premurare di precisare quale era la reale intenzione del papa, ma il danno ormai era fatto.
Se si va a rileggere quel discorso del papa si vede in modo lampante che alla   citazione del termine “olocausto” seguiva una esortazione ovvia a superare gli orrori del passato.
Il papa ha detto chiaramente che la gente deve rendersi conto che i Turchi di oggi non sono i Turchi di ieri e comunque sarebbe insensato e folle ritenerli responsabili degli errori dei loro padri o nonni.
Così come gli Armeni di oggi non sono autorizzati a coltivare  alcun odio per il popolo turco di oggi, che non c’entra nulla con quello di un secolo fa.
Di qui le basi serie per la susseguente esortazione a parlarsi ed a costruire un futuro di concordia.
Perché mai il papa avrebbe dovuto essere tanto sciocco da voler suscitare una polemica politica proprio in un momento nel quale brucia sempre più viva la brace delle guerre di religione e i Turchi sono a pochi mesi da elezioni nazionali?
Qualcuno in Vaticano ed alla Segreteria di Stato non è  stato certo professionale e diligente nell’informare il papa della situazione e gli ha reso un pessimo servizio.
Sembra di essere  tornati alla scivolata di papa Ratzinger nell’infelice discorso di Ratisbona.




Nessun commento: