Il genocidio degli
Armeni, un problema serio trattato in
modo superficiale
Ci sono avvenimenti storici che riguardano la vita di un popolo che hanno da sempre ampia copertura e che quindi sono noti
praticamente a tutti, altri invece
che stentano terribilmente ad
essere presi in considerazione e di
conseguenza sono poco studiati e su di loro per
lo più si dicono e si scrivono
cose approssimative.
E’ antipatico dirlo, però in questi ultimi casi, la colpa
non è quasi mai di un ipotetico “fato”,
ma è quasi sempre dei popoli
interessati.
Il genocidio armeno, perpetrato nel 1915 è un esempio
emblematico di fatto di per sé eclatante, ma quasi ignorato, perché poco noto e poco noto perché
gli stessi Armeni, spiace dirlo, hanno
fatto pochissimo per metterlo sotto i
riflettori della storia.
Questa impressione,
che ho sempre avuto sull’argomento, e
che avevo riportato in diversi precedenti articoli su questo blog , è stata
confermata da un articolo apparso due giorni fa su Repubblica a firma di Nadia Urbinati, politologa che insegna
scienze politiche alla Columbia
University di New York, e che riporta quanto Antonio Gramsci aveva commentato
in proposito.
La cosa è di grandissimo interesse, non solo perché si tratta del parere di uno dei massimi intellettuali
italiani, ma soprattutto perchè Gramsci
è stato per ragioni di età ,un testimone dei fatti in questione.
Ebbene, dai brani gramsciani riportati dalla Urbinati si ricava quasi lo stupore di Gramsci stesso
per il fatto che quel popolo non ha ritenuto
o non è stato capace di comunicare col resto del mondo.
Gramsci scriveva in un articolo del 1916 che perché un fatto
ci tocchi e ci commuova è necessario che riguardi gente che ci è vicina
geograficamente, e della quale abbiamo sentito parlare ,in modo che così entri
“nel cerchio della nostra umanità”.
Perché qualcosa venga percepita come vicina, abbiamo bisogno
di averne notizie, diversamente rimaniamo indifferenti.
Gli Armeni hanno avuto il torto storico di non essersi fatti
conoscere, e di conseguenza la tragedia
che li ha colpiti non ha suscitato niente di più di una generica pietà.
Così non è mai scattata né allora né dopo quell’empatia
capace di far sentire quei fatti loro come fatti nostri.
Se io personalmente
ho conoscenza e mi sono documentato sul genocidio degli Armeni è solo perché il
caso ha voluto che avessi una parente stretta di origine armena, diversamente,
non ne saprei praticamente nulla.
E ricordo che quando quella mia parente mi raccontava quelle
vicende, mi veniva da pensare : ma come mai questo popolo martoriato non ha
saputo reagire e non ha utilizzato i decenni successivi a quei fatti tragici
per costruirci sopra la propria riscossa?
Rimanendo in quella regione,
mi veniva da pensare alla vicenda
dei Palestinesi, anche loro strappati e sradicati dalle loro case e dal loro
paese.
Però che reazione che hanno avuto, hanno creato un movimento
anche armato, Al Fath ,si sono scelto un capo come era Yasser Arafat, che aveva
saputo anche troppo apparire per decenni sulle prime pagine dei giornali per
fare in modo che nessuno potesse fare a meno di pensare alla causa palestinese.
Gli Armeni, purtroppo
per loro, non hanno fatto niente di tutto questo e quando la storia ha
dato loro l’occasione della grande rivincita nella la guerra locale con i
vicini dell’Azerbagian per mettere le
mani sul petrolio, non erano preparati né militarmente, né prima ancora
spiritualmente e psicologicamente per impegnarsi allo spasimo per sfruttare la
loro grande occasione e l’hanno persa.
Hanno subito quello che sappiamo, ma guai a fare seguire a
un’ingiustizia, per quanto grave, l’atteggiamento di piangerci sopra e
dimostrarsi incapaci di reagire.
Sempre rimanendo in quella regione non parliamo dei Kurdi.
Oggi tutti li conoscono e sanno cosa vogliono.
Gli Armeni la gente non li conosce e non sa cosa vogliono al
punto che lasciano pensare di non volere
nulla, e cioè che si accontentino del fazzoletto di terra nel quale vivono.
E’ singolare questa incapacità di reazione, quando il popolo
che viene a loro accostato più di frequente, gli ebrei israeliani , per l’ovvia
ragione che loro hanno subito l’olocausto più scioccante della storia
contemporanea, sono proprio la dimostrazione del fatto che per ottenere
qualcosa occorre reagire e combattere.
Al punto che i primi
coloni del movimento sionista, consci dell’errata e controproducente immagine
che la gente si era fatta dell’ebreo pecorella sacrificale, debole e imbelle,
dopo la shohà, hanno stabilito l’obbligo per i seguaci del movimento di seguire
corsi di educazione fisica proprio per dare l’immagine di un uovo tipo di ebreo.
Questo fatto è significativo.
La non conoscenza con la conseguente non partecipazione alla
vicenda del loro genocidio, fa sì che ancora oggi che si celebri il centenario
in mezzo agli equivoci.
Quando non c’è chiarezza, ci salta subito dentro la
politica, ognuno tira acqua al proprio mulino e la situazione diventa ancora
più oscura.
Si veda l’equivoco sull’atteggiamento della Turchia.
La Turchia non nega affatto che in quei mesi del 1915 i fondatori
del loro paese abbiano perpetrato il massacro di un numero enorme di Armeni,
cacciandoli dalle loro case e costringendoli a una lunga marcia senza
rifornimenti, fatta apposta per farli morire strada facendo.
Addirittura Erdogan si era spinto di recente ad evocare quei
fatti ed a chiedere scusa.
Quello che l’attuale governo turco contesta è il numero
delle vittime, generalmente riportate (un milione) che viene giudicato per lo
meno doppio del reale, sostenendo quel governo che a quel tempo vivevano in
Turchia solo proprio mezzo milione di Armeni.
Contestano poi l’uso del termine olocausto, che vuol
significare la volontà di estinguere un popolo, ma usano loro stessi i termini
analoghi di massacro, sterminio di massa, eccetera.
Questa però è l’ennesima conferma del fatto che i politici è
bene che facciano i politici e che gli storici facciano gli storici.
Non sono né i governi, né i parlamenti, né le organizzazioni
internazionali che si possono arrogare il lavoro e le conclusioni (sempre
provvisorie) che spettano al rigoroso lavoro degli storici.
Detto questo è ovvio che giudico poco sensate le
deliberazioni di consessi politici per denominare quello armeno un genocidio
invece che uno sterminio di massa.
La differenza, se si ragiona pacatamente e con un po’ di
buon senso è solo politica.
Spiace che il Papa si sia trovato invischiato in questa
questione di lana caprina, facendo una dichiarazione che aveva un senso in
tutto un contesto, ma che usata da lui probabilmente in modo imprudente in questa
situazione di grande confusione sui termini del problema, ha fatto sì che i
media di tutto il mondo abbiano convinto i lettori che le intenzioni del papa
fossero ben diverse da quelle che e non potevano essere altrimenti : invitare
alla concordia , non certo alla polemica e all’odio, per di più retrospettivo.
Non è un caso che il Segretario di Stato Parolin, il giorno
dopo si sia dovuto premurare di precisare quale era la reale intenzione del
papa, ma il danno ormai era fatto.
Se si va a rileggere quel discorso del papa si vede in modo
lampante che alla citazione del termine
“olocausto” seguiva una esortazione ovvia a superare gli orrori del passato.
Il papa ha detto chiaramente che la gente deve rendersi
conto che i Turchi di oggi non sono i Turchi di ieri e comunque sarebbe
insensato e folle ritenerli responsabili degli errori dei loro padri o nonni.
Così come gli Armeni di oggi non sono autorizzati a
coltivare alcun odio per il popolo turco
di oggi, che non c’entra nulla con quello di un secolo fa.
Di qui le basi serie per la susseguente esortazione a
parlarsi ed a costruire un futuro di concordia.
Perché mai il papa avrebbe dovuto essere tanto sciocco da
voler suscitare una polemica politica proprio in un momento nel quale brucia
sempre più viva la brace delle guerre di religione e i Turchi sono a pochi mesi
da elezioni nazionali?
Qualcuno in Vaticano ed alla Segreteria di Stato non è stato certo professionale e diligente
nell’informare il papa della situazione e gli ha reso un pessimo servizio.
Sembra di essere
tornati alla scivolata di papa Ratzinger nell’infelice discorso di
Ratisbona.
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