Pochi probabilmente
sanno che il più grande intellettuale laico italiano, recentemente
scomparso, aveva avuto una formazione cattolica e che nel movimento
cattolico aveva militato negli anni giovanili.
Era addirittura
transitato e non di passaggio nei locali della presidenza nazionale
della GIAC, la Gioventù Italiana di Azione Cattolica, in via della
Conciliazione assieme al suo coetaneo, anche lui piemontese e
compagno alla facoltà di filosofia di Torino, Gianni Vattimo.
Lo stesso Vattimo lo
ha opportunamente ricordato in un articolo del 22 scorso sulla
Stampa.
E in effetti si
rimane sconcertati a realizzare che il più importante degli
intellettuali italiani, ben noto per il suo pensiero laico, avesse
portato negli anni giovanili quel medesimo distintivo col sole a
raggi, che è sempre stato sul doppio petto del Presidente Scalfaro,
personaggio difficilmente accostabile ad Eco.
Eppure questa è
stata una parte non certo marginale della formazione di Umberto Eco,
fresco di laurea in filosofia con una tesi inevitabilmente
sull'estetica in San Tommaso.
Era nato
culturalmente come medioevalista.
La storia del
Movimento Cattolico italiano annovera gli anni 50 fra quelli più
interessanti, perché in essi sotto l'apparente torpore degli ultimi
anni di pontificato di un Pio XII che cercava di far dimenticare la
sua posizione più che imbarazzante negli anni del nazi-fascismo,
facendo ricorso a continue manifestazioni di massa trionfalistiche, i
fermenti dei tempi nuovi venivano raccolti e diffusi da grandi figure
come Mario Rossi, Don Arturo Paoli,Carlo Carretto.
Per Pio XII il ruolo
dei giovani cattolici era quello di marciare in lunghe e affollate
processioni eucaristiche, cantando piamente “Noi vogliam Dio”,
seguiti, ma senza mescolarsi, dalle ragazze delle Figlie di Maria, in
ciador d'ordinanza, costituito da un velo, preferibilmente bianco
giglio.
Eco, come ricorda
Vattimo, era un cultore di Emmanuel Mounier e di Jaques Maritain, che
ebbe la prima traduzione italiana per opera di un certo Giovan
Battista Montini.
E come ancora
ricorda Vattimo, quell' Umberto Eco degli anni 50 sosteneva sulla
base di quei due grandi ispiratori che Dio non poteva essere che di
sinistra, perché la creazione continua è per sua intrinseca natura
un dinamico superamento di situazioni precedenti.
Ma in quegli anni
non c'era solo un Pio XII, ormai completamente distaccato dalla
realtà delle cose, c'era un Card. Ottaviani, Prefetto
ultra-conservatore del Sant'Uffizio, e il laico più noto e più
osannato in Vaticano era quell'incredibile figura del Prof. Gedda,
l'inventore dei Comitati Civici, visceralmente anticomunisti e
antisocialisti.
Il Vaticano non si
fidava nemmeno della DC, voleva occupare la scena politica
direttamente, nascondendo le tonache, ma non troppo, proprio
dietro i Comitati Civici, con sedi proprie, ma che lavoravano in
tutte le parrocchie.
Difficilissimo, se
non impossibile, per giovani brillanti convivere con questo tipo di
cultura cattolica, che era proprio l'antitesi della cultura, che è
libera ricerca o non è cultura.
Il Movimento
Cattolico era visto dalla gerarchia di quel tempo come un'enorme
macchina di propaganda delle solite idee antiquate e confliggenti in
modo insanabile con la cultura e la scienza moderna.
Chi voleva rivedere
almeno alcuni aspetti della dogmatica, usando il vaglio del pensiero
critico e della libertà di ricerca veniva messo ben presto alla
porta.
E così il
cattolicesimo degli anni 50 si è tenuto Gedda e compagni, ed ha
costretto ad andarsene menti del calibro di Umberto Eco , di Gianni
Vattimo e di tanti altri.
Umberto Eco, come
tutti i grandissimi ,era un genio che si sapeva esprimere in più
settori, filosofo, scrittore, semiologo, storico, con interessi
vivissimi in storia dell'arte, eccetera, eccetera.
Tutto il mondo lo
conosce almeno per “Il nome della rosa”ed è giusto che sia così
,perché in questo romanzo di straboccante successo, Eco ci ha messo
sé stesso, ci ha messo la complessità del suo genio.
Da subito tutti i
critici avevano notato che quel romanzo non era solo un romanzo e che
comunque poteva essere letto e riletto seguendo diverse chiavi di
lettura.
Ed allora come non
vedervi la riflessione di Eco su quegli anni giovanili alla Giac.
La figura ,che
nell'ombra incombe su tutte le vicende di quel convento benedettino,
caratterizzata come l'incarnazione dell' incultura oscurantista, che
vuole fare andare le lancette della storia al contrario.
Quel cupo frate,
vecchio e cieco, ma con in mano ben saldo il bastone del comando, pur
non essendo formalmente il priore del convento, il venerabile Jorge
da Burgos, sarò malizioso, ma quando ho letto il nome della rosa, me
lo sono subito raffigurato come il Cardinale Ottaviani, anche lui
vecchio e quasi ceco ma con in mano il bastone del comando.
Con quella sua folle
e fanatica determinazione nel voler nascondere nella libreria
qualsiasi opera che orientasse al riso, alla gioia, alla bellezza.
E il suo
competitore, nella figura del frate ospite di brillante intelligenza
critica, Gugliemo di Baskerville, nel quale l'autore trasmette tutta
la sua non celata simpatia.
La lotta fra il
pensiero critico e l'apparato clericale, che in realtà non difende
una dottrina tradizionale, perché ci crede, ma perché sa che su
quella è basato tutto il suo potere sul controllo delle coscienze, e
quindi il più grande e pervasivo dei poteri.
Leggendo il nome
della rosa, chiunque è in grado di capire l'essenziale sul medioevo,
e meditare sulle storture della dogmatica cattolica e della storia
della chiesa.
Non fosse altra
l'eredità culturale di Eco, basterebbe anche solo questo.
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