mercoledì 24 febbraio 2016

Umberto Eco era di formazione cattolica, ma per la gerarchia clericale era troppo intelligente e quindi era pericoloso



Pochi probabilmente sanno che il più grande intellettuale laico italiano, recentemente scomparso, aveva avuto una formazione cattolica e che nel movimento cattolico aveva militato negli anni giovanili.
Era addirittura transitato e non di passaggio nei locali della presidenza nazionale della GIAC, la Gioventù Italiana di Azione Cattolica, in via della Conciliazione assieme al suo coetaneo, anche lui piemontese e compagno alla facoltà di filosofia di Torino, Gianni Vattimo.
Lo stesso Vattimo lo ha opportunamente ricordato in un articolo del 22 scorso sulla Stampa.
E in effetti si rimane sconcertati a realizzare che il più importante degli intellettuali italiani, ben noto per il suo pensiero laico, avesse portato negli anni giovanili quel medesimo distintivo col sole a raggi, che è sempre stato sul doppio petto del Presidente Scalfaro, personaggio difficilmente accostabile ad Eco.
Eppure questa è stata una parte non certo marginale della formazione di Umberto Eco, fresco di laurea in filosofia con una tesi inevitabilmente sull'estetica in San Tommaso.
Era nato culturalmente come medioevalista.
La storia del Movimento Cattolico italiano annovera gli anni 50 fra quelli più interessanti, perché in essi sotto l'apparente torpore degli ultimi anni di pontificato di un Pio XII che cercava di far dimenticare la sua posizione più che imbarazzante negli anni del nazi-fascismo, facendo ricorso a continue manifestazioni di massa trionfalistiche, i fermenti dei tempi nuovi venivano raccolti e diffusi da grandi figure come Mario Rossi, Don Arturo Paoli,Carlo Carretto.
Per Pio XII il ruolo dei giovani cattolici era quello di marciare in lunghe e affollate processioni eucaristiche, cantando piamente “Noi vogliam Dio”, seguiti, ma senza mescolarsi, dalle ragazze delle Figlie di Maria, in ciador d'ordinanza, costituito da un velo, preferibilmente bianco giglio.
Eco, come ricorda Vattimo, era un cultore di Emmanuel Mounier e di Jaques Maritain, che ebbe la prima traduzione italiana per opera di un certo Giovan Battista Montini.
E come ancora ricorda Vattimo, quell' Umberto Eco degli anni 50 sosteneva sulla base di quei due grandi ispiratori che Dio non poteva essere che di sinistra, perché la creazione continua è per sua intrinseca natura un dinamico superamento di situazioni precedenti.
Ma in quegli anni non c'era solo un Pio XII, ormai completamente distaccato dalla realtà delle cose, c'era un Card. Ottaviani, Prefetto ultra-conservatore del Sant'Uffizio, e il laico più noto e più osannato in Vaticano era quell'incredibile figura del Prof. Gedda, l'inventore dei Comitati Civici, visceralmente anticomunisti e antisocialisti.
Il Vaticano non si fidava nemmeno della DC, voleva occupare la scena politica direttamente, nascondendo le tonache, ma non troppo, proprio dietro i Comitati Civici, con sedi proprie, ma che lavoravano in tutte le parrocchie.
Difficilissimo, se non impossibile, per giovani brillanti convivere con questo tipo di cultura cattolica, che era proprio l'antitesi della cultura, che è libera ricerca o non è cultura.
Il Movimento Cattolico era visto dalla gerarchia di quel tempo come un'enorme macchina di propaganda delle solite idee antiquate e confliggenti in modo insanabile con la cultura e la scienza moderna.
Chi voleva rivedere almeno alcuni aspetti della dogmatica, usando il vaglio del pensiero critico e della libertà di ricerca veniva messo ben presto alla porta.
E così il cattolicesimo degli anni 50 si è tenuto Gedda e compagni, ed ha costretto ad andarsene menti del calibro di Umberto Eco , di Gianni Vattimo e di tanti altri.
Umberto Eco, come tutti i grandissimi ,era un genio che si sapeva esprimere in più settori, filosofo, scrittore, semiologo, storico, con interessi vivissimi in storia dell'arte, eccetera, eccetera.
Tutto il mondo lo conosce almeno per “Il nome della rosa”ed è giusto che sia così ,perché in questo romanzo di straboccante successo, Eco ci ha messo sé stesso, ci ha messo la complessità del suo genio.
Da subito tutti i critici avevano notato che quel romanzo non era solo un romanzo e che comunque poteva essere letto e riletto seguendo diverse chiavi di lettura.
Ed allora come non vedervi la riflessione di Eco su quegli anni giovanili alla Giac.
La figura ,che nell'ombra incombe su tutte le vicende di quel convento benedettino, caratterizzata come l'incarnazione dell' incultura oscurantista, che vuole fare andare le lancette della storia al contrario.
Quel cupo frate, vecchio e cieco, ma con in mano ben saldo il bastone del comando, pur non essendo formalmente il priore del convento, il venerabile Jorge da Burgos, sarò malizioso, ma quando ho letto il nome della rosa, me lo sono subito raffigurato come il Cardinale Ottaviani, anche lui vecchio e quasi ceco ma con in mano il bastone del comando.
Con quella sua folle e fanatica determinazione nel voler nascondere nella libreria qualsiasi opera che orientasse al riso, alla gioia, alla bellezza.
E il suo competitore, nella figura del frate ospite di brillante intelligenza critica, Gugliemo di Baskerville, nel quale l'autore trasmette tutta la sua non celata simpatia.
La lotta fra il pensiero critico e l'apparato clericale, che in realtà non difende una dottrina tradizionale, perché ci crede, ma perché sa che su quella è basato tutto il suo potere sul controllo delle coscienze, e quindi il più grande e pervasivo dei poteri.
Leggendo il nome della rosa, chiunque è in grado di capire l'essenziale sul medioevo, e meditare sulle storture della dogmatica cattolica e della storia della chiesa.
Non fosse altra l'eredità culturale di Eco, basterebbe anche solo questo.


Nessun commento: