domenica 9 settembre 2018

L’incriminazione di Salvini discende da un uso corretto della procedura penale oppure rappresenta un improprio ingresso a gamba tesa della magistratura nel campo della politica?








Se Salvini fosse stato colto dalla sicurity di un supermercato Coop a mettersi nella borsa una confezione di biscottini succulenti per non pagarli alla cassa, nessuno avrebbe avuto nulla da ridire a proposito di una inevitabile conseguente azione penale verso un cittadino, colto in frangranza del reato di furto, magari con destrezza.

Ma ben altra cosa è indagarlo per sequestro di persona (relativamente al divieto di sbarco per i clandestini raccolti dalla nave Diciotti, divenuta ormai famosa), e cioè per un atto emesso assolutamente nell’esercizio delle sue funzioni di ministro degli interni , che guarda caso è anche perfettamente conseguente al suo programma elettorale, cioè alle direttive politiche per le quali i cittadini elettori gli hanno garantito ampi consensi, che tra l’altro i sondaggi ci dicono che nel frattempo si sono allargati di molto.
Il Procuratore che si è preso la briga di costruirci sopra un’azione penale, sapeva dal principio che il suo lavoro avrebbe prodotto un grandissimo effetto mediatico, ma un bel nulla sul piano pratico, perché la tanto decantata Costituzione prevede che un ministro non può venire giudicato dalla magistratura ordinaria, ma solo dai suoi pari, e cioè dal così detto Tribunale di Ministri, e quindi i suoi atti non gireranno per tribunali, ma per i palazzi del potere.
E dato che l’attuale governo del quale il ministro Salvini fa parte gode di una maggioranza parlamentare fra le più ampie che si ci siano mai state.
Per di più se vogliamo occuparci delle conseguenze politiche di quest’azione penale, non potremo fare a meno di notare che nulla sarebbe stato più efficace per ricucire in modo robusto le relazioni rima sfilacciate fra Salvini e Berlusconi, che si vede emotivamente ricaricare nel ricordo di quelle che lui ha sempre giudicato “persecuzioni giudiziarie” e che forse dato l’assolutamente abnorme numero di azioni intentategli contro, in parte lo saranno anche state.

Con il che nel Tribunale dei Ministri la maggioranza pro-Salvini si prospetta addirittura “bulgara” cioè a livello di due terzi, dato che Berlusconi lo appoggerà questa volta con sincero entusiasmo.
E allora perché l’incriminazione di Salvini in una materia che dal punto di vista tecnico giuridico è quanto mai complessa, scivolosa e tutt’altro che univoca?
Non credo che quel procuratore si sia mosso per mettersi sotto i riflettori, perché non può non sapere bene che fra pochissimo quegli atti passeranno in altre mani e del suo nome nessuno più si ricorderà.
Probabilmente lo ha fatto in assoluta buona fede e nella convinzione di dover difendere la forma del dettato della legge, anche se come si è appena detto, quel dettato in questa fattispecie è tutt’altro che evidente.

Molti magistrati sono stati educati in modo da privilegiare la forma sopra qualsiasi cosa, e questo non è certo un merito delle nostre facoltà giuridiche.
A titolo di esempio vorrei ricordare il caso di quella procuratrice, per di più molto giovane che si è trovata ad emettere un atto che di fatto sospendeva il lavoro all’Ilva , la maggiore acciaieria d’Italia e forse d’Europa, con conseguenze catastrofiche per le famiglie dei lavoratori e le commesse in corso dell’azienda.

Questo per dire che anche se la grande maggioranza delle vicende giudiziarie non va oltre i confini privati delle parti, in alcuni casi, ci sono atti delle procure o dei tribunali che hanno conseguenze più che rilevanti sulla vita di tutta la comunità nazionale e che quindi in termine tecnico, sono altamente “politiche”.
Non riconoscerlo significa fare la politica dello struzzo, che non è mai una cosa intelligente e razionale.
Il barone di Montesquieu quando scrisse “De l’esprit des loix”, ed eravamo nel 1748, cioè, onore a lui, ben quarant’anni prima della Rivoluzione Francese, fece prendere forma in modo organico alla teoria della divisione di poteri dello stato, creando uno dei concetti più fondamentali sui quali si fondano le nostre democrazie moderne.
Ma sia lui che Alexis de Tocqueville, altro genio fondatore della moderna scienza politica, che un secolo dopo Montesquieu ha ampliato la portata delle sue teorie, hanno capito da subito che la divisione è essenziale ma che non si può fare usando l’accetta.

Prova ne è che nella democrazia francese contemporanea è previsto esplicitamente un collegamento fra esecutivo e giudiziario con una figura del governo presso la procura generale col compito di farsi portavoce presso l’apparato giudiziario di quelle istanze che i cittadini elettori hanno favorito nei programmi dei partiti che sono stati portati al governo dalle ultime elezioni.

Non parliamo degli Stati Uniti, dove , i lettori e gli spettaori dei “legal triller” americani ben sanno, i “District Attorney”, cioè i procuratori che gestiscono la pubblica accusa sono regolarmente eletti dai cittadini nel corso delle elezioni locali.
Quindi quando Salvini dice ,facciano quello che vogliono, ma io sono stato eletto e loro no, non è che parla da eversore, ma semplicemente dice che nel sistema italiano, previsto dalla presunta “costituzione migliore del mondo”, c’è molto a cui sarebbe bene mettere mano.

Purtroppo la nostra Costituzione è stata scritta è vero da una costituente formata da personalità di elevate qualità, ma che purtroppo erano ossessionate prima di ogni altra cosa, dal terrore quasi paranoico che li spingeva a costruire dighe che impedissero la rinascita del fascismo in Italia.
Ed allora la spinta a costruire organi dotati di poteri limitati e superbilanciati da altri poteri.
Sempre pensando a fare al contrario di quello che avrebbero fatto i fascisti, salvo la magistratura, che doveva essere ultra-indipendente dal potere politico.
E’ comprensibile che allora ragionassero così, ma oggi, che senso ha?
L’unico legame fra politica e magistratura è il Vicepresidente (Presidente di fatto) del Consiglio Superiore della Magistratura, che è un esponente politico.
Nella prima repubblica,che oggi è di moda screditare, quando partiva un’azione penale di chiara rilevanza pubblica (vedi il sopra citato caso Ilva) o che implicava la politica (come il caso Salvini), l’azione veniva iniziata dal procuratore aggiunto o sostituto x o y, ma quasi subito per iniziativa diretta o a seguito di qualche autorevole telefonata, il “caso” veniva avocato a sé per via gerarchica
dalla procuratore capo o dalla procura generale.
Orrore! Strillava la sempreterna “sinistra al caviale”, vogliono insabbiare!

Certo che il rischio c’era, ma c’era anche in ballo l’interesse pubblico, cioè “politico” che solo gli eletti sono legittimati a trattare per elementare definizione delle istituzioni democratiche, perché così è la democrazia.
La “moral suasion” del Quirinale, che viene regolarmente invocata in questi casi dai “padri nobili”, in genere ex membri della Consulta vissuti per anni a quasi mezzo milione al mese alla nostra salute
è del tutto insufficiente e sopratutto manca del requisito essenziale della trasparenza.
La “moral suasion” officiata dal Vice presidente del Csm è ancor meno trasparente e spesso pare che proprio non ci si sforzi più di tanto.
E allora?
E allora il sistema attuale di equilibrio dei poteri per quanto riguarda la magistratura è sbilanciato.
Ai tempi deprecati della DC, la balena bianca, il potere che quel partito assommava in sé era tale per cui nei caso sopra citati, bastava che il presidente del consiglio del momento alzasse il telefono per parlare con qualche toga di alto livello e il problema si risolveva miracolosamente.
Ma oggi siamo lontanissimi da quei tempi e non è affatto male che sia così.
Oggi c’è lo strombazzato “governo del cambiamento” e quindi che la cosa ci sia o non ci sia nel “contratto”, dovrebbe essere evidente ai due partiti partner che il problema della giustizia è grosso come una casa e che quindi è una delle priorità metterci le mani.
Se il prode “Giggino” di Maio lo capisse prima di beccarsi la sgradevole comunicazione giudiziaria che prima o poi capiterà anche a lui, sarà veramente una bella cosa.


domenica 2 settembre 2018

Dopo il memoriale dell’Arcivescovo Viganò ,Papa Francesco : che disastro. Ora che Papa Benedetto ha aperto la strada, Francesco ne segua l’esempio facendo esercizio di umiltà







Il memoriale dell’Arcivescovo Viganò, non è un libello di poche righe, scritto da un anziano alto prelato, che decide di buttare in pasto al pubblico tutta la rabbia che avrebbe maturato dentro di sé per una mancata berretta cardinalizia, come blaterano i vaticanisti e i media allineati col Vaticano.

E’ invece un elenco circostanziato di parecchi eventi concatenati fra loro che vedono protagonisti le più alte gerarchie vaticane, capo in testa compreso, in gran parte già note agli addetti ai lavori e facilmente verificabili dai non pochi che sono sufficientemente addentro alle un tempo “segrete cose”, che con le moderne tecnologie sono diventate segreti di Pulcinella.
Per troncare queste pietose illazioni- giustificazioni , basti dire che lo stesso Viganò afferma che la berretta gli era stata anticipata da Papa Benedetto in due colloqui, se avesse assunto la carica che ha rifiutato al Governatorato.
Questa precisa affermazione del Viganò non è stata smentita, e tutti sappiamo che il famoso “padre” Georg Gaenswein, anche lui Arcivescovo di Santa Romana Chiesa, e tuttora segretario in carica del papa regnante (per pura formalità perché i segretari effettivi sono altri) ma anche del papa emerito Benedetto, lo avrebbe fatto immediatamente se del caso.

Mons. Viganò non è il primo pretino che passa per la strada, non tanto e non solo per le cariche e le dignità che si porta dietro, ma per il suo passato, questo sì condotto fra le più segrete delle segrete cose della curia vaticana : soldi , potere e corruzione.
Tanto che di lui avevamo già parlato su questo blog nel post del 28 giugno 2012 dove si diceva del monsignore in questi termini :” l’arcivescovo che dopo una lunga carriera in diplomazia, era stato nominato segretario del Governatorato del Vaticano, con l’espresso compito di cercare di fare pulizia in un ambiente, che si sapeva corrotto da sempre e che dopo che questi (lo stesso Viganò) aveva addirittura riportato in attivo il bilancio, stroncando il malaffare, si è visto cacciare in malo modo e spedito alla Nunziatura di Washington” .

Questa vicenda del Viganò, non è quindi la vendetta di un oscuro burocrate che aveva messo in luce le deviazioni peccaminose nel campo della pecunia della curia romana, su espressa delega del papa (Benedetto) ,ma potrebbe essere addirittura un tassello importante nella storia della chiesa se ha influito come sembra abbia fatto in modo robusto nella fine anticipata di un papato.
Le impreviste e spiazzanti dimissioni di Papa Benedetto sono state infatti interpretate da molti analisti come il riconoscimento di una persona di grande dirittura morale che pensa di avere fatto il possibile per sanare il marcio nella Chiesa, ma che ha dovuto anche riconoscere davanti alla propria coscienza di vere avuto il potere formale, ma non quello di fatto per rendere effettive le sue volontà di far pulizia.

Per farla breve, Segretario di Stato era allora il cardinale che abitava nell’attico più famoso di Roma, Tarcisio Bertone, capo di tutta una potentissima cordata di Curia.
Visto come sono andate le cose , è più che probabile che allora di fatto comandasse lui e non Papa Benedetto.
Nel memoriale del quale parliamo, Mons. Viganò gli restituisce il favore (della spedizione in America per toglierselo dai piedi) parlando di lui in questi termini non proprio amichevoli e laudatori : “l’allora primo collaboratore del Papa,Cardinale Tarcisio Bertone, notoriamente favorevole a promuovere omosessuali in posti di responsabilità, e solito gestire le informazioni che riteneva opportuno far pervenire al Papa...”.
E sì perché il memoriale è tutto incentrato su un filo conduttore che vuole portare allo scoperto le malefatte della “lobby gay” presente in forze e potentissima in Vaticano.
Di questa lobby il personaggio che ha fatto saltare il tappo con i suoi eccessi sarebbe il Cardinale McCarry, porporato che ha ricoperto la carica pesantissima di arcivescovo di Washington, la capitale americana né di più né di meno.
Vedendo ieri i funerali del Senatore McCain, eroe di guerra e personaggio di primissimo piano della politica americana funerali celebrati nella cattedrale di Washington mi chiedevo dove sarebbe finito il prestigio residuo della chiesa se a celebrarle fosse rimasto McCarrik (costretto alle dimissioni lo scorso luglio a seguito del venire alla liuce dei suoi eccessi sessuali).
Purtroppo non si può rendere l’idea dei comportamenti licenziosi attribuiti al cardinale senza accennarvi un momento.
Il Viganò cita la denuncia presentata a suo tempo da padre Ramsey contro il McCarrik, risalente addirittura al 2000 con la quale questo domenicano così scriveva :”era voce ricorrente che il McCarrik nel seminario della sua sede arcivescovile di Newark divideva il suo letto con seminaristi, invitandone cinque alla volta a passare il fine settimana con lui nella sua casa al mare, (seminaristi) alcuni dei quali erano poi diventati sacerdoti ed avevano condiviso il letto con l’arcivescovo.

Ma non basta l’eccesso di libidine, il Viganò scrive di libidine finita in aperti atti sacrileghi quando parla di :”crimini di adescamento sollecitazione ad atti turpi, di seminaristi e sacerdoti ripetuti e simultaneamente con più persone ,dileggio di un giovane seminarista che cercava di resistere alle seduzioni dell’arcivescovo in presenza di altri due sacerdoti , assoluzione del complice in atti turpi celebrazione sacrilega dell’eucaristia con i medesimi sacerdoti dopo aver commesso tali fatti”
Queste vicende Viganò dice di averle denunciati a Bertone nel 2006 appoggiandosi ad un documento del Rev. Littelton, sacerdote ridotto allo stato laicale per abusi sui minori, che però si dice a sua volta vittima degli abusi del McCarrick.
Secondo il memoriale del Viganò il Mc Carrick avrebbe ricevuto quello che si meritava , cioè una destituzione di fatto con obbligo di ritirarsi in preghiera ed espiazione con istruzioni personali di papa Benedetto, che però non avrebbero portato a nulla fra il tira molla delle sue potenti amicizie, sia per le dimissioni dello stesso papa Benedetto.
Come sopra citato solo nello scorso luglio il McCrrick è stato costretto alle dimissioni da arcivescovo di Washington, dopo però che aveva avuto tutto il tempo di fare nominare a detta del Viganò, prelati amici nei posti più importanti delle diocesi americane.
Quello che Viganò dice su NcCarrick era già ormai diventato pubblico negli Stati Uniti e quindi difficilmente può essere contestato.
Il problema di dimensioni enormi quindi è : chi ha coperto per decenni il McCarrick e fra questi non ci sarà mica anche il capo in testa?
Viganò non lo dice esplicitamente ma lo dice ugualmente quando afferma di avere per due volte di seguito in udienze con Papa Francesco parlato del caso McCarrick e che il papa avrebbe fatto finta di nulla.
Che farà il papa?
A quanto pare nulla, ma questo non sarà ovviamente senza un prezzo disastrosamente alto per la sua credibilità e per quella della chiesa.
E’ curioso, ma anche terribilmente penoso per chi aveva creduto che papa Francesco fosse arrivato con il piglio dell’innovatore per portare la chiesa ad attuare lo spirito del Vaticano II l’equazione che l’ultra-navigato Viganò fa delle varie fazioni della chiesa in perenne lotta di potere quando equipara la corrente di sinistra con la lobby gay.
Ma a questo punto mi sembra addirittura verosimile, dopo vere preso atto del fatto che come dice in un recente libro il vaticanista Marco Marzano (del quale si era parlato nel precedente post del 1 aprile 18) il Bergoglio non è mai stato progressista in vita sua ma non rappresenta altro che un tentativo di portare avanti lo strapotere della curia con qualche concessione al terzomondismo, al buonismo misericordioso, ai diritti dei gay eccetera e niente di sostanziale.
Sesso, soldi e potere.
Già visto nella storia, ma chi crede nel messaggio che veniva dalla Palestina duemila anni fa sa che si trattava di tutt’altra cosa.




venerdì 17 agosto 2018

Il contratto capestro di concessione autostradale è l’icona del fallimento con disonore delle classi politiche del renzismo, del berlusconismo e del prodismo






Ricordo di avere bollato come eccesso di cinismo il commento che un amico manager pubblico mi faceva anni fa dicendomi : guarda vedendo operare questi politici mi chiedo se fanno queste cose perché sono insanabilmente dei corrotti a livello africano o se lo fanno perché non capiscono nemmeno che dismettendo in questo modo industrie e servizi che erano dello stato stanno facendo dei regali folli a imprenditori privati.

Dovendo scegliere fra essere governato da corrotti o da assoluti incapaci quell’amico mi diceva che si augurava che fossero “solo” corrotti.
Certo che quando ci si trova davanti l’ormai famoso articolo del contratto di concessione autostradale che consente ovviamente il recesso allo stato, ma col vincolo di pagare il corrispettivo della concessione fino alla scadenza normale del medesimo contratto non si può non bloccarsi in quello stesso tormentoso quesito : ma questi erano “solo” corrotti o erano proprio così incapaci da non capire la follia che stavano facendo sul piano economico e politico?
Se poi si pensa al modo come quella scadenza lunga in modo folle è passata come ha descritto il prode “Giggino” Di Maio cioè nottetempo, calata in mezzo ad altri provvedimenti perché non desse subito nell’occhio….
Se poi si rileva che i Fratelli Benetton non hanno ancora trovato né il tempo né il modo di comportarsi umanamente verso le vittime del disastro, e peggio ancora hanno lasciato la parola a comunicati aziendali di ragionieristica freddezza e che a loro difesa non si sa se richiesta o meno si è avventurato solo il fotografo -immagine della ditta Oliviero Toscani, che non ha trovato di meglio che inveire contro il popolo italiano……
Se poi si pensa alla puerile inevitabile autodifesa di Renzi che non ha saputo dire altro che non aveva preso soldi dai Benetton……
Non parliamo del povero ex ministro alla partita Del Rio, ancora più penoso nel dire che sì non ci dorme di notte, ma che nessuno gli aveva parlato di quel ponte come a rischio, senza fare cenno ovviamente al sistema dei controlli a quanto pare tutti solo di parte, cioè controllati-controllori…..
E’ una disgrazia nazionale veramente di grande portata quella del crollo del ponte Morandi, sopratutto per gli insanabili costi umani che si porta dietro.
Ma politicamente è la pietra tombale messa sopra una classe politica, quella degli ultimi tre decenni che va condannata senza se e senza ma, perché è troppo grosso quello che è successo.
E’ ovvio che nessuno pensa a responsabilità dirette sul crollo del ponte del Polcevera, per questo ci pensa la magistratura pur con i tempi biblici che purtroppo le sono propri.
Si sta parlando di responsabilità politica di quelle classi politiche che sull’onda dell’affermarsi del pensiero unico liberista poi diventato ultra liberista si è avventurata spensieratamente nella demolizione dell’IRI e nelle liberalizzazioni all’italiana e quindi si va piuttosto lontano, ma è chiaro che c’è continuità fra il disastro di oggi e quelle improvvide scelte di allora, perché il disegno politico sottostante è rimasto lo stesso.
Dalle dismissioni scientificamente operate da tecnici- politici prima da Prodi su incarico di De Mita, fino ad arrivare alle “lenzuolate” di Bersani.
Oggi sul Corriere Galli della Loggia punta il dito sopratutto sul berlusconismo che illudendo gli italiani creduloni di avere trovato la ricetta per modernizzare l’Italia nel sostituire i vecchi politici di professione con esponenti della “società civile” .
“Ghe pensi mi!”
Invece facendo arretrare lo stato da ogni dove si è lasciata una società sempre più nell’anarchia dove chi poteva perché ricco e potente aveva non solo la sensazione ma spesso la certezza di poter fare tutto quello che gli pareva, in barba a regole, buon senso e diritti della comunità.
Le responsabilità del berlusconismo nello sfascio odierno di questo paese ci sono e sono evidenti, ma la filosofia confusa e incerta del prodismo, che storicamente lo ha accompagnato, non è stata da meno.
La parte politica che è finita nel PD a rappresentare la tradizione politica del cattolicesimo democratico e sociale, rappresentata da Prodi e purtroppo da poco altro non ha saputo fare altro che balbettare, come del resto è successo nel resto del mondo in casa socialista e social-democratica, trovandosi del tutta priva di idee.
E’ risultata vincente la bella pensata di Tony Blair di far convivere la tradizione socialista e sindacale con il credo liberista, in pratica sotterrando quello che rimaneva della tradizione ideologica del socialismo.
La crisi di credibilità della Chiesa cattolica in Italia forse ha contribuito ad aumentare la confusione ideologica del prodismo che non ha saputo produrre nulla, anzi disgraziatamente proprio il suo porta bandiera è costretto a passare alla storia come il commissario fallimentare dell’IRI e l’imbonitore che ha convinto gli italiani ad accettare l’introduzione dell’Euro senza alcuna preparazione, e le successive nefaste teorie liberiste pro austerità della Commissione di Bruxelles.
Ancora peggio è andata alla classe politica che si è accollata l’onere di seppellire la tradizione comunista.
Su di loro il giudizio della storia temo che sarà ancora più severo.
Perchè non solo non hanno mai avuto il coraggio di rompere con Mosca prima della caduta del muro del 1989, ma poi non hanno mai saputo né condannare in modo credibile la subordinazione allo stalinismo spesso criminale del regime moscovita, né trovare il modo di presentare la loro ideologia in modo convincente per i tempi nuovi.
E non si dica come voleva far credere Berlusconi che la era la loro ideologia ad essere il male assoluto, basta vedere nella pubblicistica contemporanea quanti saggi si sono scritti per dire che oggi, Marx ha avuto ragione, nel senso che gran parte della sue teorie sono confermate dai fatti dei nostri giorni.
E allora?
Allora per favore la piantino i conservatori a oltranza di fare dell’ironia sulla impreparazione della presente classe politica grillino-leghista.
Di fronte al contratto di concessione autostradale meditino con serietà sulla vergognosa incapacità della classe politica che ha svenduto l’Iri e che solo ieri con i suoi nipotini faceva le concessioni che ha fatto
I nuovi saranno alle prime armi, ma non possono certo essere peggiori dei loro precedessori, dei quali c’è solo da vergognarsi.
C’è poco o nulla da rimpiangere.
Si salva solo la classe politica in prevalenza di estrazione cattolica ma anche laica risorgimentale che ha ricostruito l’Italia dal dopoguerra agli anni del boom e del suo consolidamento.
Dopo il vuoto.



domenica 29 luglio 2018

La parabola professionale di Sergio Marchionne mi fa pensare a quella di Enrico Mattei






Due giganti dell’industria vissuti in tempi tanto diversi da far giudicare avventato il confronto fra le loro esperienze.
Però in uno dei mille “coccodrilli” pubblicati in questi giorni una cosa mi ha colpito e mi ha costretto a fare immediatamente l’accostamento, quando l’articolista diceva che

le condizioni della Fiat all’arrivo di Marchionne erano così disastrose che il ruolo reale del nuovo amministratore delegato in quel momento era quello del “commissario liquidatore”, perché nessun esperto del settore era tanto sognatore da prendere seriamente in considerazione la reale possibilità di un salvataggio del gruppo Fiat ridotto a quel modo con concorrenti irraggiungibili.
E’ quindi probabile che il primo Marchionne fosse stato costretto a fare il giro delle sette chiese dai suoi azionisti per cercare di convincerli che secondo lui avrebbe valso la pena di rimanere nell’investimento senza liquidare e magari di metterci ancora un po di soldi, perché qualcosa di buono si sarebbe potuto fare ancora, cercando di non essere preso per pazzo.

Proprio come Enrico Mattei , anche lui ufficialmente commissario liquidatore dell’Eni, che al primo giro di colloqui con gli uomini del potere di allora doveva prima di tutto cercare di dissuaderli dall’idea della liquidazione.
E’ chiaro che se non era stato buttato fuori dalla porta subito era solo perché non era pensabile che il primo governo dopo la liberazione buttasse fuori dalla porta uno dei più noti comandanti partigiani.
Oltre tutto Mattei aveva smesso di girare armato, ma non aveva certo dismesso il carattere che tutti conoscevano.

Mattei era già un personaggio e Marchionne no, ma è’ chiaro che invece il compito di Mattei era molto ma molto più difficile di quello che si sarebbe assunto Marchionne qualche decennio dopo, perché come Mussolini aveva suggerito al Professor Ardito Desio di bersi lui la fiaschetta di petrolio libico che quel geologo illustre gli aveva portato a Palazzo Venezia, come un prezioso trofeo, perché proprio non riusciva a capire l’enorme potenzialità che c’era un quella fiaschetta, la prima classe dirigente post fascista, anzi, anti-fascista non è che avesse allora vedute molto più lungimiranti di quelle del duce in materia di politica energetica.
Se Mattei è diventato quello che è diventato, cioè addirittura l’odiatissimo concorrente delle “sette sorelle” incontrastate regine del cartello del petrolio, che coi primi contratti “fifty – fifty” con lo Shià dell’Iran e con i satrapi della penisola arabica abituati a subire dagli americani contratti tipo tutto a noi (sete sorelle) e un bel regalino a voi ed alle vostre numerose signore, è perché per anni ha dovuto usare di tutto il suo coriacissimo carattere per contrastare forze enormemente più potenti della sua Eni.

Per capire cosa ha fatto Marchionne occorre necessariamente fare uno sforzo di memoria e cercare di visualizzare i modelli che la Fiat avrebbe dovuto piazzare quando è arrivato lui.
Erano invendibili, prima di tutto perché erano inguardabili.
Lasciamo perdere il confronto dei dati tecnici e diamo per scontato che quelle macchine almeno andassero.
Ma cosa poteva fare La Fiat con quei modelli vecchi di progettazione, di tecnica ed ancor più di estetica in concorrenza con Toyota e Volkswagen ?
Quelli erano dieci anni avanti e la Fiat era dieci anni indietro.
Il Marchionne laureato prima di tutto in filosofia è probabile che per forma mentis prima di accettare si fosse già messo in mente la filosofia di un piano industriale radicalmente nuovo.
La Fiat lo sappiamo bene era quello che era perché aveva avuto la capacità di dare una macchina decente ma con la dovuta efficienza che consentisse all’ampio ceto medio italiano di allora di mettersi in macchina firmando cambiali per due o tre anni, negli anni del boom economico cioè nei primi anni ‘60.
La 500, la 600 fino alla 1100 per chi poteva permettersela.
Ma è con le prime due che la Fiat è diventata la Fiat a Mirafiori, stabilimento allora avveniristico con la pista di collaudo sul tetto.

In altre parole il core business della Fiat è sempre stata la produzione di utilitarie a prezzo basso per allora.
Tutte le rare volte che la Fiat ha tentato di mettere fuori un modello di fascia alta è sempre incorsa in fiaschi clamorosi, producendo macchine assolutamente non competitive rispetto alla concorrenza.
Ed allora cosa avrebbe dovuto fare Marchione a partire dal 2004?
Teniamo conto che l’uomo oltre che alla pur preziosa laurea in filosofia aveva acquisito anche quella in economia (e un’altra in giurisprudenza) e questo gli è di sicuro servito per realizzare che

l’Italia non era la Cina e che quindi non era definitivamente più il paese adatto per produrre utilitarie a basso costo, perché la manodopera in Italia non poteva essere pagata con i salari del Guandong nemmeno moltiplicandoli per 10.
Credo sia evidente che questa sola osservazione essenziale era tale da essere alla base di una rivoluzione.

La grandezza di Marchionne sta tutta qui, avere capito ed essere riuscito a realizzare una rivoluzione copernicana nella filosofia industriale del gruppo Fiat, da fabbrica di utilitarie a basso prezzo a produttore a vocazione nel e verso il lusso, cioè quella produzione che oggi viene indicata col settore “Premium”, cioè prodotti ad alto valore aggiunto.
Inutile dire che realizzare una tale rivoluzione significava cambiare se pure gradualmente tutti i modelli e sostituire produzione e linee su tutt’altri articoli.
E’ un lavoro immane eppure c’è riuscito.

Confrontare Mattei e Marchionne sul piano sociale è pressochè impossibile per la differenza delle condizioni.
Mattei si è potuto permettere di introdurre contratti talmente innovativi che hanno fatto la storia del diritto del lavoro, costringendo Confindustria a seguirlo da lontano anni dopo.
Marchionne aveva in confronto vincoli insuperabili.
E’ però riuscito a far ragionare il sindacato sull’opportunità di dare il dovuto peso alla contrattazione locale, in materie difficilmente assimilabili alle prescrizioni del contratto nazionale.

Nei rapporti con la politica, Marchionne non è mai arrivato alla quasi spudorata e ben nota dichiarazione di Mattei che diceva nella sostanza : i politici sono per me come i taxi, quando li ho bisogno li prendo faccio la corsa insieme, pago e me ne vado.
Ma non ostante la ora evidente estrema riservatezza di Marchionne non penso abbia praticato strade molto diverse.


mercoledì 4 luglio 2018

Difficilissimo primo mese per il “governo del cambiamento”






Opinione pubblica e media erano stati abituati dal mantra cantato per anni se non per decenni da personaggi come l’ex Presidente Napolitano a considerare “la stabilità” , traducibile con l’eterna conservazione dello status quo, come il primo obiettivo di un qualunque governo.

Non dovrebbe sorprendere di conseguenza il fatto che di fronte al primo governo realmente espressione di un radicale cambiamento di umore e di sentire da parte dei cittadini elettori, si manifesti un forte disorientamento di chi per natura o per scelta aborre il cambiamento, perché lo sente come una minaccia alla propria tranquillità.
Ognuno ha evidentemente il diritto di pensarla come vuole.

Probabilmente il disorientamento del quale parliamo risulta amplificato dal fatto anomalo che di fronte a un governo che stante ai sondaggi conta su una base che va ben oltre il 60% dei consensi, non esista di fatto una opposizione strutturata in grado di fare il suo mestiere indispensabile in democrazia.
Renzi probabilmente ha fatto più danni di quello che sembrava al PDI senon altro per il semplice fatto che i gruppi parlamentari del PDI sono costituiti solo da renziani e quindi non si vede come quel partito possa non precipitare dall’irrilevanza politica allo sfascio vero e proprio.
Forza Italia forse è messa anche peggio, perché la sindrome narcisistica del vecchio capo-padrone sta operando in quel partito né più né meno di come opera Renzi nel PDI, con la differenza che il Pdi riesce non so come a farsi percepire come l’unico “partito d’ordine” rimasto e non scende dal 18%,che è una cifra insensatamente alta stante la modestissima offerta politica che presenta, mentre Forza Italia non rappresenta più nulla,vedi i fischi che al convegno di Pontida ha suscitato l’incauto Governatore del Molise che l’ha nominato.

Matteo Salvini viene deriso dai benpensanti per non essere riuscito a laurearsi, ma da come si è mosso fin’ora meriterebbe una laurea Honoris causa, che il vecchio ideologo della Lega, Gianfranco Miglio ex Preside di Scienze Politiche gli tributerebbe senz’altro.
Limitiamoci un testo base della scienza politica ,la “psicologia delle folle” di LeBon.
Salvini lo tiene di sicuro sul comodino perché lo sta seguendo con vera maestria.
Nell’uso spregiudicato fin che si vuole ma fondamentale dei simboli a cominciare da quelli religiosi, vedi crocefisso e rosario esibiti dal palco in chiusura di campagna elettorale in piazza del duomo a Milano.
Nell’uso opportunamente ripetuto non di vuoti slogan ma di parole simbolicamente molto pesanti :
sovranità che evoca patria, confini, sacrificio, identità di gruppo, territorio, campanile, prima gli Italiani.

Non so chi ultimamente gli ha suggerito di pronunciare il nuovo motto :”abbatteremo il muro di Bruxelles”, ma chiunque sia deve essere un mago della comunicazione politica perché è tecnicamente qualcosa di formidabile.
Bruxelles ,l’UE è un qualcosa di lontano, di grigio, di burocratico, le leggi e i regolamenti che misurano le banane e simili amenità, cioè è qualcosa che non smuove i sentimenti di nessuno.
E sì, ma se l’associamo all’avvenimento principe del secolo scorso cioè all’abbattimento del muro di Berlino, che era stato definito addirittura come simbolo della “fine della storia” da un personaggio del peso di Francis Fukyama, cambia tutto.
Perchè questo avvenimento frusta il nostro inconscio insinuando contemporaneamente una serie di connotazioni positive a favore di quell’evento, operando quindi un transfer subliminale di quelle connotazioni positive sopra a un possibile futuro evento , (il superamento dell’attuale struttura della UE) temutissimo dal nostra establishment.
Geniale.

Povero “Giggino” DiMaio.
Lui temo che LeBon non l’abbia proprio letto, perché dimostra una capacità di lavoro encomiabile.
C’è sempre, è dappertutto e sa usare i “social” con disinvoltura come Salvini, ma “non buca” come si dice tecnicamente nei media.
Non basta esserci e comunicare, conta di più la forza del messaggio.
Giggino non fa sognare nessuno, non riesce a esaltare nessuno.
Salvini solo parlando furbamente di immigrazione almeno una volta al giorno sa di far passare una serie di messaggi simbolo che fanno sussultare la famosa pancia degli elettori .
DiMaio appare sempre grigio e burocratico anche quando annuncia provvedimenti sul lavoro che mandano in sollucchero la CGIL che non crede alle proprie orecchie, e mandano in besta la Confindustria che equivocando gli slogan prevenuti e superficiali media si era a torto convinta che questo fosse un governo di destra per definizione.
Bravissimo DiMaio ad avere preteso che il Consiglio dei Ministri varasse il così’ detto “Decreto dignità”.
Ma se io fossi una “tuta blu” sarei più interessato alla sorte dell’Ilva , dell’Alitalia, della Tim, del Mose, dell’Alta Velocità eccetera eccetera.
Ma non è finita per il povero Giggino.
Salvini ha da fare i conti con il proprio ego non proprio piccolo al momento sovraeccitato da un successo galoppante che potrebbe indurlo in errore.

Ma il povero Giggino ha da sopportare le esternazioni di un Grillo che ormai non fa ridere più nessuno, personaggio anomalo e sopratutto non eletto, ingombrante che come al solito dice di essersene andato dalla politica ma che è sempre lì sull’angolo pronto a comparire.
Purtroppo i 5Stelle non diventeranno mai grandi se non si sapranno sbarazzare di Grillo e Casaleggio a meno che questi due personaggi non decidano di farsi giudicare dagli elettori.
Peccato perché si tratta di due personaggi tutt’altro che banali, si tratta di due visionari, preparati e “pensanti” come tali merce rarissima.
Capisco che l’uomo del “Bar Sport” faccia fatica a capire che “un comico” sia un fior di intellettuale di primo piano.
Purtroppo il Blog di Beppe Grillo ha esercitato una formidabile funzione di informazione e di didattica, per chi lo seguiva prima che il suo autore entrasse in politica.
Ma per chi non l’ha mai letto non esisteva.
Voglio dire che il loro ruolo per essere utile doverebbe essere nell’ambito dei pensatori, che fanno convegni ed esternano in libri o nei blog.
Non nella politica di tutti i giorni.
E’ utilissimo nella nostra modestissima politica la presenza di chi studia, pensa, parla con scienziati e artisti e che quindi si abitua a pensare a cosa sarà il domani ed il dopodomani per mettere sull’avviso chi in politica si occupa dell’oggi, perché impari a guardare più in là del proprio naso.
Ad esempio il famoso “reddito di cittadinanza” è stato pensato in un ambito che non ha nulla da spartire con i vari “redditi di inclusione” , perché è nato in ambito prevalentemente accademico fra “futurologhi” come una misura proposta per contrastare la “macelleria sociale” che produrrà l’ormai imminente “rivoluzione dei robot”, alla quale la politica -politicante che vive di un orizzonte troppo ristretto non aveva nemmeno pensato.
Servono, anzi sono indispensabili i visionari, ma fanno un altro mestiere.
Benissimo che diano la sveglia, ma delle buche di Roma deve occuparsi se ne è capace la Raggi e compagni, non Grillo e Casaleggio.
Salvini di questi problemi non ne ha e si vede.