mercoledì 27 febbraio 2019








Non riesco a immaginare un nostro simile che non sia altamente curioso del futuro cioè in parole povere curioso di sapere come andrà a finire.
E questa è la ragione per la quale dopo aver letto il libro di Kaplan sull’intelligenza artificiale, del quale ci siamo occupati nel post precedente, ho subito affrontato questo libro di Rees.
Martim Rees è un cosmologo qualificato al massimo livello accademico e reputazionale,membro della Camera dei Lords e della Royal Society, che vive guarda caso a Cambridge, ma il suo modo di scrivere di scienza non è certo quello di un parruccone, al contrario sa farsi capire benissimo dai non addetti ai lavori.

Il libro di cui stiamo parlando, vedo dall’ultima di copertina che è stato recensito come “una visione affascinante del nostro futuro sulla terra e nello spazio” niente di meno che da Elon Musk il fondatore tra l’altro di Tesla che è divenuto ormai forse l’immagine più iconica di un geniaccio che vive nel futuro.
Quindi ci possiamo fidare che il tempo speso per leggere questo libro sarà speso bene.
Mentre Kaplan aveva esordito facendoci intravvedere da subito l’incredibile rivoluzione che gli sviluppi dell’intelligenza artificiale stanno portando nel nostro mondo e nelle nostre vite e quelli che credevamo solo da fantascienza, ma che sono già dietro l’angolo, Rees la prende più di lato, come se avesse il timore di spaventare il lettore.

Inizia facendo un elenco dei pericoli e degli annessi rischi che l’umanità corre attualmente, come dire : non fate l’errore di terrorizzarvi perché il domani sarà diversissimo dall’oggi, perché in realtà il mondo è oggi minacciato da una serie di situazioni che non governiamo abbastanza, questi sono i rischi veri e incombenti, molto meno pericolose sono le novità che ci porterà un futuro ormai prossimo, novità che saranno invece per noi più opportunità che pericoli.
E ci elenca il fatto che abbiamo vissuto per decenni in un equilibrio del terrore chiamato guerra fredda, che è rimasta fredda, ma che poteva degenerare in qualsiasi momento con conseguenze catastrofiche essendo stati i razzi intercontinentali delle due superpotenze armati da testate atomiche.
Oggi a seguito di una serie di accordi internazionali il livello di armamenti delle ex potenze contrapposte è diminuito addirittura di cinque volte ci dice Rees, ma attenti a non ripetere gli errori del passato.
La vera bomba atomica di oggi che non stiamo contenendo a sufficienza secondo l’Autore è la degenerazione del clima.
La concentrazione del CO2 dovuto per la maggior parte dall’uso di carburanti fossili causa l’effetto serrra, cioè forma come una coperta nell’atmosfera che trattiene il calore.
Le conseguenze sono note e la più eclatante è l’innalzamento del livello dei mari, con lo scioglimento dei ghiacci polari.
Un’altra piaga dei nostri tempi è la bomba demografica che rischia di andare fuori controllo, creando fame in vaste aree del mondo e spingendo a migrazioni bibliche con conseguenti contraccolpi sulla stabilità sociale e politica che conosciamo bene nel nostro paese.
I rimedi ci sarebbero già perché fortunatamente sono state sviluppate diverse fonti per creare energia pulita dal solare all’eolico al miglioramento delle capacità di stoccaggio delle batterie, al geotermico allo sfruttamento del movimento delle onde e delle maree, al possibile uso dell’idrogeno come fonte di energia ai tentativi di governare la fusione nucleare.
Fra i possibili pericoli catastrofici l’autore cita anche l’eventualità che si verifichi una collisione di un asteroide con il nostro pianeta, ma ci rincuora dicendo che è possibile fare previsioni per tempo e che nel caso peggiore abbiamo ormai la tecnologia per far deviare un corpo celeste che ci minacciasse.

Detto questo Rees passa a parlare del futuro vero e proprio, cioè quello che ci porterà lo sviluppo delle scienze e delle tecnologie già in atto.
Come aveva fatto anche Kaplan nel libro sopra citato,Rees esordisce sottolineando la nostra naturale difficoltà a superare pregiudizi e abitudini mentali cristallizzate nel nostro sviluppo culturale e prima di tutto il tabù di affrontare mutamenti ritenuti erroneamente “contro natura”, che è una nozione culturale-filosofica e non scientifica.
Questa nozione falsamente scientifica aveva posto delle difficoltà psicologiche più che etiche alle vaccinazioni, ai trapianti di organi, alla ricerca sugli embrioni e sulle cellule staminali.
Rees dice ad esempio che gli americani hanno consumato per decenni tonnellate di cibi OGM senza che si sia mai manifestato il minimo problema di salute, ma sopratutto in Europa continua il pregiudizio contrario agli OGM, quando l’uso dell’ingegneria genetica alla base degli OGM stessi è un formidabile strumento per prevenire malattie.
Così la fertilizzazione in vitro, così la travagliata marcia in avanti del diritto di decidere sul fine vita, legalizzando l’eutanasia a determinate condizioni.
Filosoficamente contro natura sarebbe anche l’impiego di organi di animali per trapianti umani o il nuovo promettente settore della creazione in vitro di tessuti di carne artificiale che tramite le stampanti 3D potrebbe essere modulata in modo da sostituire organi malati.
In futuro dice Rees si svilupperà ancora di più la spinta ad allungare le aspettative di vita tanto che sembra incredibile il fatto che molti si sottomettono a spese considerevoli per fare surgelare il proprio corpo pensando di potere riutilizzarlo in un futuro nel quale prevedono evidentemente strabilianti progressi.

Il capitolo centrale dell’opera tratta di cibertecnologia, robotica e intelligenza artificiale e quindi arriva al cuore del problema.
Rees constata che gli smartphone nati solo nel 2007 in sostituzione dei cellulari sono stati l’esempio della più rapida penetrazione della tecnologia nella vita umana che si ricordi comportando un arricchimento sensazionale.
Uno degli aspetti più positivi di una tale rivoluzione sta nel fatto che offrono anche alle popolazioni più povere l’opportunità di passare da condizioni di vita da medioevo alla modernità più evoluta, saltando a piè pari tutti i passaggi intermedi.
Fa una certa impressione a noi italiani pure abituati a fruire di uno dei sistemi di welfare più evoluti al mondo sapere che anche l’analfabeta contadino di un povero villaggio indiano dispone di una carta di identità digitale colla quale accedere al ben più limitato sistema di welfare dell’India senza dovere scervellarsi per procurarsi il macchinoso PIN della nostra Inps essendo la sua carta dotata di
un sistema di riconoscimento dell’impronta digitale o addirittura facciale.
Quanto all’intelligenza artificiale anche Rees mette subito le cose in chiaro affermando che le “macchine” riescono a fare meglio degli umani attraverso la loro abilità di trattare masse enormi di dati e di usufruire di una velocità di elaborazione molto superiori alla nostra.

Anche Rees quindi sfata la favola secondo la quale le macchine non riusciranno mai a fare quello che fa l’uomo o che la macchina farebbe solo un programma senza raggiungere alcun grado di autonomia e di autonomo miglioramento, andando quindi oltre a quello che l’operatore “le ha messo dentro”.
Come Kaplan anche Rees non si nasconde la difficoltà di “controllare” macchine che diventeranno più o meno autonome.
Tratta quindi il tema spinoso della possibile distruzione di posti di lavoro sia nella manifattura che nella distribuzione dei beni, che andrà di pari passo allo sviluppo dell’intelligenza artificiale e della robotica,
Ma anche ai livelli più elevati di competenza , dal lavoro legale alla diagnostica medica e persino nella chirurgia, come nei lavori di contabilità più o meno complessa.
Arriviamo quindi a uno degli aspetti che più colpiscono la fantasia : la macchina che si autoguida dove la tecnologia ha quasi risolto ogni problema, ma il vero ostacolo sono gli ingenti investimenti che l’impiego di quest’auto richiederebbe.
Poi c’è alla base un problema psicologico che impone un grado di sicurezza a tutta prova, ma dice Rees, pensate a come sono andate le cose nell’aviazione civile dove il livello di probabilità di incidenti è ridotto quasi a zero ed il lavoro è per la gran parte fatto in automatico.
Pensiamo poi al ruolo che avranno i droni nello spostamento e nella consegna dei beni,
Venendo ai robot Rees sottolinea il ruolo che avranno queste “macchine” umanizzate nella parte di mondo più sviluppato in costante invecchiamento nel campo del caregiving oggi sobbarcato dalle badanti.
Ci sono poi mansioni di giardinieri e custodi che potranno essere effettuate da robot.
Il tutto ovviamente oltre all’impiego ormai già parecchio sviluppato nell’automazione applicata nella meccanica.

Inevitabilmente secondo Rees la riduzione dei posti di lavoro per gli umani comporterà di mettere mano a riduzioni anche forti dell’orario di lavoro.
Si apriranno quindi costumi di vita più aperti alle arti ed all’educazione permanente.
Il forte incremento delle tecniche di comunicazione fino alla teleconferenza avrà delle conseguenze ad esempio renderà meno necessari spostamenti non di piacere.
Comporterà anche però il fatto che gli abitanti della parte più povera del mondo essendo in grado di vedere bene come si vive dove si sta molto meglio che da loro, saranno incentivati a tentare di spostarsi con tutto ciò che ne deriva, tenendo anche conto del fatto che la estrema facilità di rimanere in contatto con qualsiasi parte del mondo e quindi nel casi dei migranti rimanere in contatto costante con i loro paesi di origine, non favorisce l’integrazione con i nuovi vicini.
Tutto bello, ma si potranno anche costruire robot-killer e questo è un guaio che dovrebbe essere affrontato con trattati internazionali come quelli che hanno messo al bando le armi chimiche e biologiche

Non c’è solo il problema del “controllo” delle macchine con intelligenza artificiale capace di apprendere autonomamente, ci sarà un problema ancora più eclatante da risolvere che è questo :
quando potremo aumentare la potenza delle nostre menti con impianti elettronici, ci metteremo nella condizione di “scaricare” il contenuto della nostra mente cioè pensieri e memoria in supporti elettronici.
A questo punto sorgerà il problema : ma quell’io tecnologicamente modificato ed aumentato sarò ancora io, cioè sarà ancora la mia persona?
Siamo arrivati a dover introdurre un concetto che è proprio della filosofia e non della scienza, ma a questo punto non si può farne a meno.
Rees va oltre e dice , se si può fare un clone allora si possono fare anche diversi cloni e allora?
E allora siamo impreparati a confrontarci con tali problemi.

A questo punto Rees introduce un altro ed ancor più preoccupante elemento di possibile criticità del nostro mondo affidato all’elettronica quando si chiede : e se intervenisse un micidiale black out tale da toglierci l’elettricità che succederebbe?
In poco tempo le città diverrebbero ingovernabili ed in preda al caos, del resto la storia non ci nasconde il fatto che in passato è successo più volte che alcune civiltà si sono estinte.
Nel capitolo successivo Rees tratta il problema altamente affascinante dal titolo : l’umanità in una prospettiva cosmica, introducendo l’argomento dell’esplorazione spaziale.
Per inquadrare lo stato dell’arte l’Autore ci ricorda che la sonda cosmica Voyager sta navigando da ben 40 anni e si trova ai margini del sistema solare con la prospettiva di dovere viaggiare ancora per decine di migliaia di anni per raggiungere la stella più vicina.
Questo da l’idea dell’immensità dell’universo e di quanto noi umani (lo dico io non Rees) siamo niente di più che piccole formichine, come diceva Margherita Hack.
Siamo piccole formichine che però sono fatte delle stesse sostanze che compongono il resto dell’universo e siamo compartecipi della medesima storia che risale a 5 miliardi di anni fa
e quindi ne siamo parte a pieno titolo.

La nostra galassia, la Via Lattea che contiene più di cento miliardi di stelle, che tutte orbitano intorno a un unico hub al cui centro è posizionato un imponente buco nero.
E la nostra è solo una delle cento miliardi di galassie visibili tramite i telescopi.
Noi abbiamo intercettato l’eco del big bang avvenuto 13,8 miliardi di anni fa, quando nacque l’universo.
Rees giustamente cita “la corsa allo spazio” culminata nello sbarco di umani sulla Luna come un avvenimento grandioso ma che per le giovani generazioni fa parte della storia come le piramidi degli Egizi.
L’Autore infatti come la gran parte dei “futurologhi” ritiene che quella stagione sia finita nel senso che oggi abbiamo l’opportunità di esplorare lo spazio senza fare correre agli umani alcun rischio impiegando flotte di strumenti robotici e telescopi inviati nello spazio.
Rees arriva a dire che per ottimizzare i costi e rendere la via dell’esplorazione sistematica è tecnicamente possibile costruire un “ascensore spaziale” in fibra di carbonio della lunghezza di 30.000 kilometri, ancorato sulla Terra fino ad arrivare ad un’orbita geo-stazionaria.
L’Autore spiega bene la propria filosofia in proposito quando dice che è una pericolosa illusione pensare di lasciare andare a ramengo la terra perché in futuro sarebbe possibile emigrare su Marte, i problemi della Terra devono essere affrontati e risolti sulla Terra.
E arriviamo alla domanda più affascinante che ci possiamo porre sul futuro e le sue prospettive : andiamo verso una era post-umana?.

Ci può essere una transizione verso intelligenze pienamente inorganiche con il vantaggio che intelligenze inorganiche non necessitano di una atmosfera.
Come Kaplan anche Rees si chiede se queste intelligenze non organiche sono tali da raggiungere il livello di auto-coscienza e sopratutto se questo deve suscitare in noi la reazione come fosse una minaccia.
Rees risponde che non ci sarebbe ragione perché non dovessimo vedere benevolmente la prospettiva di una loro futura egemonia , aggiungo io tenendo conto del fatto che noi li avremmo “creati”.
Con delicatezza Rees ricorda che queste entità fra le altre cose sarebbero di fatto praticamente immortali e trascenderebbero di molto i nostri limiti.
E se nell’universo non fossimo soli?
Possibile, ma se così fosse è più probabile che gli “alieni” non siano affatto esseri biologici ma metallici ed elettronici, ma sempre fatti degli stessi atomi coi quali siamo fatti noi condividendo non noi la medesima consistenza del medesimo universo.

Gli atomi ubbidiscono alle stesse leggi nelle più lontane galassie come nei nostri laboratori.
L’Autore insiste nel cercare di mitigare il senso di smarrimento che ci provoca il solo pensiero dell’immensità dello spazio sottolineando il fatto che anche le stelle e le galassie più lontane per quanto irraggiungibili dagli umani stante il limite invalicabile della velocità della luce sono fatte della nostra stessa pasta, non biologica evidentemente ma a livello atomico.
Fantastiche anche le speculazioni finali del libro quando Rees introduce il discorso degli sviluppi possibili nel futuro della scienza e la “teoria del tutto” che è ancora la fuori ad aspettare.
Rees ci fa pensare al fatto che un passo decisivo nella più piena comprensione del mondo potrebbe consistere nello studio della entità più semplice di tutte “il mero spazio vuoto” che potrebbe avere anche una ricca trama a una scala di miliardi di miliardi più piccola di un atomo.
In conclusione Rees ci ha affidato un ottimo saggio su una delle materie più affascinanti che ci siano, leggibile con un minimo di impegno anche da parte di chi non ha una preparazione specifica.

venerdì 22 febbraio 2019

Jerry Kaplan artificial intelligence what everyone needs to know





Cofondatore di quattro startups nella Silicon Valley, Jerry Kaplan insegna a Stanford nel dipartimento di Computer Science.
Ha scritto questo libro con intento apertamente divulgativo.
L’autore ha chiaramente tutti i titoli per essere ritenuto un autorevole addetto ai lavori e con queste credenziali che ha saputo trattare una materia difficile e complessa con notevole equilibrio, cosa che non guasta affatto se si pensa che un conto è fare un bilancio dello stato dell’arte, un’altro è sulla base dell’esperienza e delle proprie conoscenze, avventurarsi là dove la curiosità del lettore di un libro del genere è massima, e quindi non aver paura di aprirsi al campo opinabile per natura delle verosimili previsioni circa i progressi di questa materia in un futuro prossimo.

L’argomento, vale la pena di ripeterlo è difficile perché quasi da subito chi lo tratta è costretto a sfatare alcune convinzioni diffusissime, che però il progresso intervenuto nel perfezionamento dell’intelligenza artificiale ha fatto saltare già allo stato attuale.
Tanto per chiarirci le idee ,è’ difficile e impopolare andare a dire alla gente dopo due millenni di cultura cristiana volta a presentare l’uomo come creatura decaduta fin che si vuole ma chiamata a un destino ultra-umano da semi-dio, che i computer sono già oggi in grado di superare in modo vistoso i limiti dell’intelligenza umana, sia sul piano computazionale che su quello della capacità di memoria per non dire della velocità nei processi.
L’autore ne è ben conscio e di conseguenza cerca di presentare con delicatezza queste verità scomode.
Questo atteggiamento del nostro autore ,mi ha fatto tornare alla mente il tormento interiore del forse più grande naturalista che è stato Darwin ,che ogniqualvolta si trovava ad aver dimostrato delle verità scomodissime per la visione del mondo dei suoi contemporanei si chiedeva in cuor suo : ma adesso come faccio ad andare a dire a mia moglie (che conosceva come fermissima in convinzioni religiose tradizionaliste prese alla lettera) che quelli della Bibbia non sono niente di più che delle belle narrazioni?

Kaplan non teme di porsi anche la domanda delle domande : è verosimile ipotizzare che in un futuro non lontano l’intelligenza artificiale arrivi a sviluppi così clamorosi da rendere possibile l’esistenza di una super-umanità di intelletto superiore per quanto derivato dal nostro dotata non di un corpo biologico, ma di una struttura tecnica?
L’autore sembra non escludere che gli sviluppi dell’intelligenza artificiale siano destinati ad arrivare ben oltre i limiti umani attuali, ma riesce elegantemente a bypassare una risposta che se positiva potrebbe essere sconvolgente per chi non è preparato a confrontarsi con scenari che comunemente si ritengono solo da fantascienza, evitando di rispondere con un sì o con un nò, ma cercando di fare un discorso più articolato che è questo.

Arrivare a tanto è possibile e forse è anche verosimile, ma a quel punto non è sensato vedere una situazione di contrapposizione di robot super-evoluti contro umani, perché noi umani abbiamo tutti i mezzi per controllare una possibile evoluzione della nostra specie anche in una super umanità con intelligenza artificiale capace di auto migliorarsi continuamente nelle prestazioni anche probabilmente su un supporto non più biologico , e quindi bisogna prendere atto di dove è possibile che arrivi l’evoluzione della scienza e della tecnologia attrezzandoci per tempo anche culturalmente e psicologicamente.
In pratica cominciando a pensare a delle procedure che dovranno essere necessariamente gestite da organi sovranazionali, atte ad evitare di darci la zappa sui piedi, perché sono enormi le opportunità di una tale evoluzione, ma sono anche in gioco possibili rischi di non poco conto.
Ho fatto probabilmente una cosa scorretta anticipando la parte più controversa circa i possibili sviluppi dell’intelligenza artificiale, ma l’ho fatto per far capire che la validità del libro a mio parere sta in tutto il resto, cioè nella capacità dell’autore di presentare in modo analitico come si diceva all’inizio lo stato dell’arte che è già oggi molto oltre quello che comunemente si è portati a ritenere.
Veniamo dunque a parlare di questo.

L’autore a mio parere molto opportunamente esordisce assestando un colpo micidiale alle nostre pigrizie intellettuali che per rassicurarci tendono a riempirci la testa di pregiudizi atti a rassicurarci e prendendo il toro per la coda dice l’indicibile che è questo : guardate che la massima condivisa dalla nostra visione del mondo che recita la presunta verità secondo la quale i computer possono fare solo quello che il programmatore ha immesso nel software è una gran balla, perché già oggi le cose non stanno più così.
Nel senso che già oggi i sistemi hanno acquisito un grado di autonomia che diventa sempre più elevato perché tecnicamente “apprendono” dalla loro esperienza la capacità di fare cose che il loro programmatore non ha affatto inserito nel programma, proprio perché questi sistemi sono predisposti apposta per auto-apprendere e migliorarsi.
Questo significa che queste macchine sono capaci di un pensiero indipendente al quale possono seguire azioni indipendenti?
Diverrebbero allora responsabili delle loro azioni indipendenti dagli umani, che le hanno materialmente messe insieme?
Finiscono per acquistare allora una forma di autocoscienza?

E infine viene la domanda più sconvolgente che è questa : se divenisse tecnicamente possibile “caricare” la nostra mente in un supporto esterno non biologico, cioè diciamo in una macchina, questa nuova entità sarebbe ancora la nostra persona?
Mi scuso del fatto che ho citato le domande base non curandomi di farne una traduzione accurata,
Kaplan usa volutamente termini generici, ma in un campo così delicato la traduzione rischia di diventare un tradimento del pensiero dell’autore.
In questo campo inevitabilmente si alternano concetti scientifici con concetti propri della filosofia e per la verità Kaplan non usa il termine persona, che ho usato io perché mi sembra che chiarisca meglio il concetto.

Ma non è finita, viene affacciato anche un ulteriore scorcio di futuro che sembra da fantascienza quando si accenna alla possibilità che i progressi nelle neuroscienze uniti a quelli nella intelligenza artificiale arriveranno a consentire di comunicare “leggendo nel pensiero altrui” e addio privacy.
Molto opportunamente Kaplan a questo punto invita il lettore a riflettere sul radicale cambiamento che la nostra civilizzazione ha portato a compimento nel nostro atteggiamento verso per esempio gli schiavi, le donne, i disabili, gli animali stessi.
Dovremo attrezzarci diciamo per un aggiornamento radicale del nostro modo di vedere, come del resto la nostra specie ha fatto più volte nella storia e questo è uno dei suoi punti di forza.
Kaplan conclude dicendo che come modellare il nostro futuro dipende da noi.

Nella trattazione analitica dell’argomento l’autore esordisce elencando i campi nei quali già oggi i computer compiono operazioni che sorpassano clamorosamente le facoltà umane, nella computazione, nella capacità di stoccaggio dati,nella velocità dei processi.
Questo è indubitabile, ma se questo vuol dire che i computer stanno diventando “più intelligenti”in senso umano è il caso che ci allarmiamo?
Kaplan con sottile ironia dice : ma c’è qualcuno di noi che si sente leso nella propria dignità perché ci ritroviamo nelle mani un aggeggino come lo smartphone divenuto strapotente, che mette insieme tecnologie diverse capace con una particolare app. di fare cose che noi non siamo capaci di fare?
Kaplan descrive le varie fasi nelle quali è passata l’elaborazione scientifica dell’intelligenza artificiale partendo dal concetto fondamentale di capacità di automigliorarsi.
Mette in evidenza il fatto che per passare da un processo lineare di elaborazione di dati a un pensiero creativo è necessario introdurre una parte di controllata causalità.
Ad esempio l’autore cita alcuni dei primi esperimenti di automobile autoguidante come quello quando davanti alla macchina si mise una sedia come ostacolo e la macchina si fermò come se stesse “pensando” cosa fare dopo essersi fermata, siamo nei primi anni ‘70 e da allora se ne è fatta di strada.
Cita poi i sistemi per ascoltare domande a voce con capacità di rispondere sempre a voce.
E qui siamo tutti testimoni di un progresso avvenuto in tempi incredibilmente rapidi per arrivare all’Alexa di Amazon,assistenza e riconoscimento vocale per la domotica e per puro e semplice intrattenimento, al software di assistenza e riconoscimento vocale Cortana di Microsoft, al Siri di Apple, al comando “ok Google”, non è fantascienza sono cose che oramai usiamo in moltisimi più volte al giorno.
Se tanto ci da tanto chissà dove si potrà arrivare!a
E quanto l’intelligenza artificiale arriva a impadronirsi si sistemi simbolici per lavorare arriviamo a qualcosa che solo all’esterno può apparire automazione, ma che in realtà ha in sé elementi di vera e propria intelligenza.
Siamo al computer che gioca contro un umano e regolarmente lo batte perché è dotato di capacità largamente superiori; al navigatore Gps; ai robot che prendono la merce stoccata, la sistemano in pacchi e li mettono sul camion.
L'autore cita poi quella che appare come una delle applicazioni che più colpiscono la nostra fantasia che è quella di impiegare congegni e robot intelligenti per l'esplorazione dello spazio.
Non si rischiano vite umane e si ottengono praticamente gli stessi risultati.
Ma come si è arrivati a trasmettere all'intelligenza artificiale la capacità di "apprendere" ?
Introducendo l’approccio al ragionamento “Euristico” che secondo Wikipedia è “un metodo di arrivare alla soluzione dei problemi che non segue un chiaro percorso, ma che si affida all'intuito e allo stato temporaneo delle circostanze, al fine di generare nuova conoscenza” è usato dall’intelligenza artificiale per risolvere problemi nel modo più efficace e veloce in una infinità di campi.

Può una macchina imparare? Si chiede Kaplan, che risponde certamente, usando gli stessi procedimenti che usiamo noi servendoci dell’esperienza e della pratica, elaborando l’insieme di dati che abbiamo acquisiti.
Non basta la capacità di stoccare, bisogna saper catalogare con certi criteri e trarre dall’esame dei dati certe deduzioni in base a una serie di filtri successivi, di analogie, di ripetizioni eccetera.
I nostri professori ci dicevano, non basta ripetere le lezioni come delle oche, bisogna dimostrare di avere afferrato certi concetti e saper fare dei collegamenti, stabilire delle gerarchie.
I nostri professori non conoscevano ancora le acquisizioni delle neuroscienze, ma ci andavano vicini, bisogna fare come fanno i neuroni con le sinapsi, i collegamenti sono fondamentali.
L’intelligenza artificiale segue gli stessi schemi e quindi si autoalimenta, cioè “impara” e siccome sa processare una enormità di dati più di noi ed a una velocità impensabile per noi, ci batte.
Ed allora spaventiamoci? Ma non sarebbe più sensato invece di spaventarci approfittarne allargando a dismisura le nostre facoltà?
E’ quello che stiamo facendo.

Cioè non c’è da spaventarsi perché “loro” sono di fatto più intelligenti e capaci di noi, ma c’è da adattarsi anche psicologicamente al fatto che l’intelligenza artificiale arrivata a come è allo stato dell’arte sta cambiando in modo radicale il mercato del lavoro.
Alcuni esempi.
Nel campo delle professioni forensi quanti documenti cartacei inerenti a un processo deve consultare un avvocato, quante sentenze eccetera eccetera.
Non c’è confronto intelligenza artificiale e big data avranno partita vinta.
Nel campo medicale è fuori discussione che fare giudicare un caso clinico a una entità in grado di confrontare una montagna di casi clinici simili consente di avere un enorme vantaggio competitivo rispetto al singolo medico.
Sistemi di identificazione delle immagini, è evidente che la possibilità di ricorrere ad archivi immensi confrontando dati a tutta velocità apre nuovi scenari.
Leggere documenti scritti e tradurli immediatamente in qualsiasi lingua è già praticamente possibile con un livello di accuratezza accettabile.
Kaplan riporta a proposito di obsolescenza di vecchi lavori una autorevole ricerca in base alla quale il 47% dei lavori attuali sono a rischio automazione e un ulteriore 19% sono a medio rischio.
Ma consoliamoci ci dice anche Kaplan, pensiamo al fatto che tutti, praticamente tutti gli umani per millenni hanno lavorato e vissuto in agricoltura ed ora in quel campo ci lavora si e no il 2% della forza lavoro.
Il problemino per noi è che quella rivoluzione in passato si è attuata spalmata sui tempi lunghi mentre questa moderna è ormai alle porte e noi non siamo molto ben disposti a sorbirci ulteriori rivoluzioni in tempi stretti.



domenica 27 gennaio 2019

Andreotti un uomo un’epoca,un paese.






La biografia di Andreotti scritta da Massimo Franco, penna storica del Corriere merita di essere letta per molte ragioni e innanzi tutto ovviamente per la serietà della ricerca documentale che rivela ,ma poi proprio perché induce il lettore a spostare lo sguardo da un uomo particolarmente ingombrante a un’epoca e ad un paese che erano intimamente di quel personaggio , che sono ormai storia se pure vicina ma sono irrimediabilmente passati e quindi irripetibili.
E’ un altro mondo con i suoi pregi e difetti nel quale molti di noi sono passati, ma che non ci appartiene più nel senso che forse lo rimpiangiamo in alcuni tratti, ma che contemporaneamente quand’anche fosse possibile abbiamo superato e preferiremmo non tornarci.

Cimentarsi su un personaggione come Andreotti è un impresa un po spericolata.
Perchè l’uomo nella sua figura umana e storica è complesso e contradditorio.
E come se ciò non bastasse quello che la gente pensava di quell’uomo in base a quello che appariva aveva da sempre diviso i contemporanei in opposte schiere di tifoserie anche quando dei famosi processi non era apparsa nemmeno l’ombra, figuriamoci dopo!
Massimo Franco ha scritto un bel libro, leggibile anche da chi non è tifoso del personaggio nè in un senso né nell’altro e cosa particolarmente notevole oltre ad essere ben documentato, lascia l’impressione che l’autore abbia cercato di dare una narrazione il più possibile obiettiva, senza farsi prendere la mano dalle sue opinioni personali.
Non nascondiamoci dietro a un dito, tutti abbiamo opinioni personali e le hanno anche i giornalisti.
Massimo Franco rappresenta quell’opinione moderata che molti rimproverano, ma altri apprezzano nel Corriere della Sera, non a caso primo quotidiano italiano quasi da sempre.

Dopo aver letto il libro presumo che Franco ritenga che esaminando vita morte e miracoli di Andreotti prevalgano gli aspetti positivi sui negativi, ma abbastanza di misura e senza nascondere le incongruenze, le contraddizioni se non le ambiguità di quel personaggio.
Al lettore Franco lascia abbastanza chiaramente questa sua interpretazione e cosa singolare, sembra essersi introdotto per fini di ricerca tanto addentro alla vita di quel personaggio da comportarsi nella costruzione della sua narrazione con sottile abilità democristiana-andreottiana.
Mi ha ha dato questa impressione la scelta dell’autore tutt’altro che casuale di fare consistere la parte finale del saggio nella narrazione della vicenda processuale che ha funestato gli ultimi anni di Andreotti vista non tanto e non solo dalla parte dell’imputato, ma dando una parte ben più larga al punto di vista dei familiari e ancora di più da quell’altro singolare e notevole personaggio che è la allora giovanissima avvocata Bongiorno.
Familiari presentati come esponenti una qualunque famiglia del ceto medio, che per tutta la vita di quel familare ingombrante aveva optato per mantenere sempre una posizione di riservatezza e di non visibilità,che in quel mondo mediaticamente sovraesposto, crea necessariamente una reazione di simpatia nei loro confronti.
Non parliamo della narrazione che Franco fa del contributo più che consistente che al buon esito dei processi (con l’accusa di collusioni con la mafia l’uno e addirittura di mandante nell’assasinio del giornalista Pecorelli l’altro) ha dato la giovane ed estroversa avvocata palermitana Buongiorno, che nel corso come sempre su tempi esasperatamente lunghi dei processi italiani, ha saputo trasformare il rapporto cliente- avvocato in un ben più intrigante rapporto nipote - nonno, tanto le loro frequentazioni avevano costruito un rapporto umano più profondo.

Dicevo sopra che Franco ha usato nella sua narrazione un astuzia andreottian-democristiana, perché facendo consistere l’ultima parte del libro nella descrizione abbastanza ampia dell’esperienza dei familiari di Andreotti e dei rapporti del Senatore a vita con la sua avvocata-nipote, ha costretto il lettore a convivere con personaggi che risultano umanamente vicini e spesso chiaramente portatori di atteggiamenti che li rendono simpatici , e quindi ha fatto sì che il lettore medesimo fosse portato a “umanizzare” il personaggio storico Andreotti, che di suo aveva un carattere complesso, ma indiscutibilmente distaccato.
Non era certo un estroverso il personaggio Andreotti e Franco non si sottrae certo a descrivere anche queste sue particolarità, che poi hanno contribuito a creare l’unicità di quel personaggio, al limite della caricatura.
Ho trovato di particolare interesse il modo come Franco presenta i rapporti del tutto singolari che Andreotti fin da giovanissimo ha avuto con Pio XII.

Se Andreotti aveva un carattere distaccato e tutt’altro che estroverso, con Papa Pacelli che volutamente aveva sottolineato le sua tendenze caratteriali di distacco regale proprio per indurre la gente a costruirgli addosso una sacralità particolare,faceva una bella copia.
Ma Franco ci svela l’esistenza di un rapporto giovane Andreotti-Papa Pio XII arrivato alla familiarità, che è noto che quel papa non aveva concesso praticamente a nessuno se non forse alla famosa Suor Pascalina (la sua leggendaria perpetua).
Per capire la personalità umana e politica di Andreotti, così complessa e contradditoria, Franco ha fatto bene a citare il rapporto stretto , ma molto poco conosciuto che il giovane Andreotti aveva con i singolari personaggi che comporranno la pattuglia degli intellettuali catto-comunisti da Adriano Ossicini a Franco Rodano, poi approdati nel PCI, ma nati in campo saldamente cattolico, che Andreotti ha a lungo difeso, garantendo sulla loro “cattolicità” nei confronti di Pio XII in persona fino a dover scontrarsi in più occasioni con le perplessità di quel papa che poi sono divenute aperta condanna.
Questo “mattone” aggiunto da Franco alla conoscenza della figura storico-politica di Andreotti è di notevole peso perché è veramente singolare che l’uomo che più di altri ha per anni rappresentato l’icona della “destra” nello schieramento della politica cattolica, con tutta l’autorevolezza che gli derivava dall’essere il figlioccio politico addirittura del fondatore del partito e cioè di DeGasperi, fosse in un rapporto di forte amicizia con i più a sinistra dei cattolici sociali e che avesse addirittura speso la sua credibilità per cercare di mantenere la presenza di quella pattuglia di intellettuali di grande spessore nel recinto del cattolicesimo politico.
E’ singolare Ma è anche di grande significato perché è un elemento a prova della caratteristica probabilmente principale della posizione politica di Andreotti.

Andreotti, il lavoro di Massimo Franco lo conferma , aborriva schierarsi dietro a un’ideologia, qualunque fosse e tendeva a vedere come a rischio di fanatismo fondamentalista gli “amici” che invece si costruivano addosso una ideologia come ad esempio il gruppo Fanfani,Dossetti,LaPira,Lazzati e all’inizio lo stesso Aldo Moro.
Questa è una caratterisitica che fa da punto fermo nella pur complessa visione politica di Andreotti e che viene riassunta qualificando il politico Andreotti prima di tutto come un “pragmatico”.

Un pragmatico al limite a volte del cinismo.
La ragion di stato prima di tutto.
Non c’è grande della storia che non abbia praticato questa ispirazione.
Come conciliare pragmatismo quasi cinico con le priorità del cattolicesimo con la sua sensibilità umana e sociale?
Quasi impossibile.
Ad Andreotti è riuscito però per il fatto che la sua stella polare non era tanto il “cattolicesimo” quanto la “cristianità”, cioè il cattolicesimo imperante e con aspirazione ,è una brutta parola ma va detta se no non si capisce il senso, totalitaria.

Franco non trascura di citare alcuni dei mille aneddoti che presentano Andreotti come “cardinale laico”, perché è assolutamente certo che il grado di affidabilità del personaggio Andreotti fosse percepito dalle più alte gerarchie vaticane in misura talmente elevata da raggiungere li grado di familiarità anche di carica.
Franco cita l’episodio altamente significativo del Cardinale Felici, ciociaro come Andreotti e suo amico d’infanzia,che alla sua morte lascia per testamento allo stesso Andreotti le sue “insegne cardinalizie”.
Quando Andreotti andava in Vaticano, compresi i Sacri Palazzi, andava a casa sua e quindi era uno dei pochissimi che non avevano bisogno di preannunci di sorta.
Fra i Cardinali era uno di loro.
Ovviamente nel bene e nel male, vedi Marcincus, Ior eccetera.
Però e qui ci risiamo con le incredibili complessità e contraddizioni del personaggio, Andreotti aveva anche una marcata sensibilità sociale in senso umano e questo è testimoniato dal fatto poco noto, citato da Franco che il Senatore tenesse nel suo studio un intero locale attrezzato a dispensa, che usava per dare sempre personalmente e per decenni un giorno alla settimana pacchi a “poveracci” che si presentavano regolarmente.

L’Avv.Bongiorno quantifica il costo della “carità” andreottiana addirittura in 20.000 € al mese.
A confronto il cappotto dato ai poveri da Giorgio LaPira sindaco di Firenze, impallidisce non ostante la fama acquisita di “sindaco santo”.
Andreotti era tante cose contemporaneamente, su questo non c’è dubbio.
Era prima di tutto uomo di potere, che gestiva il potere con tale considerazione del potere stesso da considerarsi quasi il suo sacerdote, come erano state in questa tipologia certe figure iconiche come Mazzarino e Richelieu.
Richeleu però non risulta che tenesse una grossa dispensa per i poveri.
L’altra faccia della medaglia era la veramente incredibile frequentazione o anche semplicemente il fatto che questo pur grande personaggio avesse incrociato figure impresentabili.
Tutti si chiedevano, ma come è possibile che uno come Andreotti conoscesse quel tale?
Poi si sa la voce popolare dei bar sport di tutta Italia, si abbevera abbondantemente e gioiosamente di questo tipo di notizie e le amplifica tessendoci sopra di tutto.

Quindi le esagerazioni di questi aspetti anomali ci saranno sicuramente stati, ma non si può negare che fosse inaccettabile che l’uomo che viveva come sacerdote del potere non avvertisse la necessità di essere più prudente nelle frequentazioni.
Va detto anche che l’uomo Andreotti ha pagato più che duramente questi indubbi errori di comportamento finito negli ultimi suoi anni stritolato dal meccanismo di due processi che gli hanno minato una fibra pure fortissima, mettendo alla prova la famiglia, che fino ad allora era riuscita a rimanere di sua volontà rigorosamente nell’ombra.
Franco giustamente descrive come riesce ad essere crudele il sistema giudiziario nostrano.
Le accuse erano orribili.
Fortunatamente per lui ed i suoi familiari i due processi condotti per i dovuti gradi durati sei anni sono finiti nel famoso abbraccio che l’Avv.Bongiorno ha fatto d’istinto nei confronti del vecchio senatore alla lettura della sentenza di assoluzione.
Ma siamo in Italia e stiamo parlando addirittura di Andreotti e cioè di colui che per le diverse tifoserie era per gli uni il cardinale laico che garantiva la stabilità del potere moderato e per altri il Belzebù presunto autore di tutti i mali del paese.
E quindi incredibilmente pare sia lecito discutere sul fatto se quella era una vera assoluzione o no,visto che il Pm di Palermo di allora, quel peraltro gran galantuomo del giudice Caselli ha sempre sostenuto che non è assoluzione vera, ma riconoscimento di colpevolezza per un certo periodo, anche se senza conseguenze giudiziarie per sopravvenuta prescrizione.
Al di fuori dai tecnicismi giuridici, ho apprezzato la conclusione di questo enigma che sembra sposare Franco e cioè che la lettura se pure sommaria degli atti di quei processi porta a concludere che i pm di allora commisero l’errore di puntare tutto sul raccogliere un mucchio di dichiarazioni di pentiti, pensando che il numero molto elevato potesse sopperire alla qualità.
Qualità che evidentemente non è stata giudicata adeguata dalla magistratura giudicante.
Sulla base di questa considerazione,

Franco sembra voler dire che sarebbe stato più saggio da parte degli inquirenti rilevare che le prove non erano sufficenti per imbastirci sopra un processo penale, ma che la responsabilità politica dell’indagato c’era almeno nel senso che prudenza avrebbe voluto che un uomo del suo livello provvedesse meglio a filtrare le sue frequentazioni.
Un’ultima nota più leggera.
Il libro è pieno di citazioni della proverbiale vena ironica del Senatore.
Fra le molte descrizioni gustose riportate da Franco ho trovato interessante la narrazione dei problemi che quell’Andreotti che ha avuto per lunghi anni fra le sue competenze ministeriali quella del cinema e che ha contribuito in gran parte alla sua rinascita era anche spesso e volentieri crocifisso sulla stampa per gli interventi della allora potente commissione di censura.
Tutti generalmente gli sparavano contro, ora Franco giustamente cerca la verità storica mettendosi dalla parte di Andreotti che doveva ogni volta lottare con incredibili Monsignori che vedevano lussuria e licenziosità ovunque e che fosse stato per loro avrebbero fatto produrre solo vite di papi e di pie suore


domenica 9 dicembre 2018

Sembra incredibile ma i cugini francesi stanno facendo una mezza rivoluzione per copiarci il governo giallo verde






Proprio nel momento nel qual la nostra fiducia nel governo giallo verde Lega-Movimento 5Stelle è messa più a dura prova a causa delle idee confuse e della impreparazione della nuova classe politica, in Francia sorge dal nulla il movimento dei gillets jaunes che dopo qualche settimana di manifestazioni anche violente pubblica un programma che non solo sembra copiare pari-pari le idee dei nostri giallo- verdi, ma presenta le medesime idee con un a connotazione ancora più radicale.

Tanto per fare un esempio chiedono non solo l’uscita dall’Unione Europea, ma anche dalla Nato e il ritiro delle truppe francesi da ogni parte del mondo nel quale si trovassero.
Questa proposta sorpassa di molto a sinistra la linea giallo-verde e sembra invece aderire al pensiero dei movimentisti arcobaleno di quasi vent’anni fa degli Agnoletto, Zanotelli, Strada e centri sociali vari : pacifismo senza se e senza ma e sopratutto senza realismo e senza buon senso.
La Francia ha l’industria degli armamenti più forte d’Europa e questi cosa vogliono chiudere le fabbriche francesi a favore di Cinesi , Americani ,Russi?

Ma non lo sanno che se la Francia rimpatriasse la Legion dal Mali, dal Niger e dagli altri debolissimi regimi del Sael, questi cadrebbero come birilli e la Francia e l’Europa sarebbero invase da colonne di immigrati?
Immigrati che i gilets jaunes dichiarano candidamente in un altro punto programmatico di vedere meglio fermi al loro paese, visto che la Francia ha già dato abbastanza.
Ecco che siamo stati costretti a mettere in evidenza una contraddizione evidente, che dimostra superficialità, impreparazione, approssimazione eccetera, cose che noi conosciamo bene e che non ci aspettavamo che sarebbero state esportate così presto.
Il problema però è serio perché dimostra per l’ennesima volta che la globalizzazione e l’avanzata anche troppo veloce delle nuove tecnologie hanno sconbussolato la struttura e la stabilità delle nostre società, perché la politica non ha saputo gestire i passaggi
Il famoso ceto medio in questo nuovo movimento francese rappresentato curiosamente da cittadini in grande maggioranza di mezza età è talmente scontento che si è visto costretto a scende nelle strade.
Evidentemente perché non solo non si sente più rappresentato dai partiti tradizionali, destra e sinistra moderati, ma non giudica nemmeno più di essere rappresentata dal movimento en marche dell’attuale presidente Emmanuel Macron che è riuscito ad andare al potere per arrestare l’avanzata della destra radicale della Lepen, ma che ha dimostrato purtroppo di non avere un contatto con quello che avrebbe dovuto essere il suo popolo, cioè appunto il ceto medio.
Se Macron non si è nemmeno accorto che le piazze stavano per scoppiare,la situazione per lui è veramente seria.
D’altra parete, come e peggio dell’Italia il movimento di protesta che abbiamo visto all’opera in questi giorni è ben lungi dal saper dimostrare di essere pronto ad andare a governare.
Tanto per dirne una sulla capacità di fare i conti anche i più elementari è parecchio peggio dei nostri peggiori ministri giallo-verdi, si pensi che uno dei punti programmatici chiede di costruire 5 milioni di case popolari.
Facciamo finta di non conoscere il costo astronomico delle case a Parigi e ipotizziamo un costo medio di 150.000 € ad appartamento popolare da 75 metri quadri per 5 milioni verrebbero fuori 750 miliardi, per buttare là una tale idiozia è chiaro che non hanno nemmeno messo giù un conticino.
Alcuni punti riguardano problemi tipicamente francesi come la richiesta di togliere ogni ingerenza statale e ideologica dalle scuole.
Siamo però eccessivamente sul vago, anche riguardo alla sanità per la quale ci si limita a chiedere di verificare la situazione, come dire, non siamo soddisfatti, ma non sappiamo quale sia il problema
e questa confessione di non conoscenza non è bella per una forza politica nuova.
Abbastanza naif anche il limite per legge alla tassazione al 25%.
E siamo sempre lì.

Tagliamo le tasse e aumentiamo le spese, e i soldi li porta babbo natale?
Perchè naturalmente chiedono anche loro il loro reddito di cittadinanza (aumento di stipendi e pensioni minime).
Neanche un minimo sforzo di fare una proposta coerente nell’insieme,qui non c’è nemmeno l’idea di cosa sia un bilancio.
Aumento massiccio nelle assunzioni di funzionari (pubblici) nei servizi ferrovie, ospedali, scuole e poste, in un paese che ha già il record continentale di impiegati pubblici!
Quadruplicare il personale addetto alla giustizia e limite per legge alla durata dei processi.
Questi vogliono risolvere i problemi con la bacchetta magica.
Un altro articolo stabilisce lo stop immediato alle privatizzazioni dimostrando la presenza di una forte ideologia statalista, del resto parte integrante della tradizione colbertista della Francia.

Ma la ciliegina sulla torta che dimostra la totale incompetenza in economia e finanza è la richiesta di annullare il debito, che è sinonimo di dichiarare unilateralmente default, cioè fallimento, ma forse non lo sanno nemmeno.
E dove si vanno a prendere i soldi per fare tutto?
Naturalmente sconfiggendo l’evasione fiscale.
Il livello del documento scade nelle chiacchiere da bar sport quando si chiede il ritiro immediato degli autovelox e udite, udite il divieto non solo agli imballaggi di plastica, ma anche agli oggetti di plastica.
Siamo al grottesco.
Poi ce l’hanno con i giornali cattivi ed anche questo ci ricorda qualcosa.
Ma che ci ricorda ancora i più qualcosa di nostrano è la richiesta di democrazia diretta introducendo referendum popolari riscrivendo la costituzione.
E infatti Beppe Grillo ha detto di essersi commosso.

Insomma, per farla breve l’impressione che si ricava da questo documento è la sua similitudine come livello infantile e dilettantesco a quando la maestra delle elementari chiede alla classe : allora bambini oggi facciamo questo tema : scrivete cosa fareste voi se foste voi il sindaco di questo paese.
Povero Macron, con questi interlocutori è ben messo male, lui che è piuttosto arrogantino e distaccato dal popolo, si trova a parlare con dei marziani dei quali non conosce quasi nulla.
Consoliamoci e teniamoci i nostri giallo-verdi.
La Francia ci sta dimostrando che c’è di peggio.
Ma quel che è veramente peggio è il fatto incontestabile che si tratta di brava gente, perfettamente in buona fede e molto incazzata, che avrebbe diritto ad avere un interlocutore e un rappresentante politico.
Pensate che minestrone verrebbe o verrà fuori mettendo insieme il partito della Lepen e quello di Melanchon, destra e sinistra radicale insieme, visto che non c’è altro da scegliere per i gilets jounes.
Non si era ancora visto, ma a questo punto la cosa è perfino verosimile.


venerdì 7 dicembre 2018

Si avvicina il Natale ed il Corriere ha intervistato due delle non molte “teste d’uovo” che il Vaticano è in grado di schierare fra i suoi uomini di Curia. Il messaggio veicolato però appare parecchio deludente






Il primo degli intervistati in ordine di tempo è stato Gianfranco Ravasi, che la porpora ce l’ha da anni e la porta con disinvoltura ed evidente compiacimento, all’altro Vincenzo Paglia la medesima porpora la fanno ancora aspettare a causa delle intricate alchimie di potere vaticane , ma per rango e livello intellettuale è come se già l’avesse.
Il primo è titolare di un dicastero di Curia anzi di due come Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e Presidente della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra , il secondo non è da meno come Presidente dellaPontificia accademia per la vita e Gran cancelliere del Pontificio istituto Giovanni Paolo II , ma è universalmente noto come co-fondatore della Comunità di Sant’Egidio con Andrea Riccardi.

Comunque al di là delle altisonanti attribuzioni in uso presso l’ultima monarchia assoluta rimasta sulla terra, i due intervistati brillano di luce propria per la loro non comune intelligenza ed è questa la ragione per la quale ho trovato di particolare interesse leggere cosa avessero da dire.
Di Ravasi su questo blog se ne era parlato già nel post del lontano 24 ottobre 2010, proprio quando Papa Woytila lo aveva gratificato col berretto cardinalizio e si era dato atto delle sue singolari doti intellettuali, che proprio perché fuori dal normale avevano rischiato di perderlo ai fini della carriera e del potere, quando i suoi studi biblici effettuati esercitando il senso critico lo stavano spingendo a scrivere cose troppo in contrasto con la dogmatica cattolica misurata sul metro del Sant’Uffizio.

Il brillante teologo biblico a un certo momento , si diceva in quel post, messo alle strette aveva fatto la sua scelta a favore di un più stretto controllo delle sue esternazioni per renderle compatibili con la carriera alla quale evidentemente non voleva rinunciare.
Scelta personale che aveva tutto il diritto di fare, anche se rinunciare di fatto alla piena libertà di ricerca per un intellettuale è un problema serio.
Sarà anche sulla base di queste considerazioni che non ho potuto non rilevare che nel corso dell’intervista della quale stiamo parlando tutta costruita su una esposizione che brilla veramente ben poco per originalità,è rintracciabile però anche un breve ma significativo guizzo del diavoletto che un intellettuale di razza può incatenare, ma non del tutto.
Purtroppo, come si accennava, l’insieme del discorso che viene fuori non è diversa dall’omelia che potrebbe fare un qualunque buon parroco di campagna.
Il discorso fatto da Ravasi è questo : oggi prevale l’indifferenza in materia religiosa e la religione stessa diventa irrilevante per la gran massa degli uomini contemporanei.
La gente più che professare un ateismo determinato, si adagia in una indifferenza soft e come diceva a suo tempo papa Ratzinger vive tranquillamente “come se dio non fosse”.
Fin qui nulla da osservare, il fenomeno del quale parla Ravasi è quello della secolarizzazione descritto e analizzato nell’ambito del pensiero e della teologia cattolica già ai tempi dell’ormai lontano Concilio Vaticano II degli anni ‘60.
Poi però Ravasi prende una scivolata non degna del suo livello intellettuale quando fa l’equazione :
rifiuto o indifferenza alla fede cattolica = caduta del sistema etico.
Diavolo, una banale affermazione del genere, intellettualmente parlando, è al limite della volgarità, la lasci se vogliamo ai meno colti parroci di campagna, ma non ci cada lui, proprio perché si tratta di un affermazione del tutto insostenibile sia a livello di pensiero, essendo in totale contrasto con la filosofia classica e con tutto l’umanesimo, e poi con la prassi che chiunque può constatare.
Non voglio cadere nella volgarità anch’io ma se ci poniamo su questo piano come non chiedere all’eminenza come possa ritenere ancora autorevole, credibile e fonte di moralità quella stessa chiesa istituzionale scossa da scandali sessuali e finanziari in ogni angolo del mondo?
Il rettore del dicastero della cultura vaticana non sa fare di meglio che insultare in questo modo il mondo laico, che sta fuori dalle mura leonine, oltre che la sua intelligenza?
L’argomentazione che segue nel corso dell’intervista di Ravasi non risulta più convincente quando sostiene che la chiesa non ha alcuna intenzione di fare sì che tutte le piazze diventino Piazza San Pietro e quindi è a favore della secolarità in questo senso.
Si vede che solo nominare il termine laicità ,in modo che la gente possa capire di cosa si sta parlando, nel Vaticano del presunto papato progressista Francesco è assolutamente proibito.
Peccato però che l’affermazione di Ravasi appena precedente secondo la quale “extra ecclesa nulla moralis” vada esattamente nel senso opposto.
Poi l’intervistatore, che è il vaticanista di lungo corso Gian Guido Vecchi, chiede come pensa l’eminenza che la chiesa debba affrontare la crisi in atto.
La risposta è : ci sono due strade percorribili, la prima è quella praticata da molte chiese protestanti ed quella di concedere tutto al “soggettivismo”, strada che l’eminenza esclude, la secondo alla quale è invece favorevole è “conservare il nucleo”.

Strana la irritante banalità delle argomentazioni ,protratte per quasi due terzi dell’intervista con relativi scivoloni ,per arrivare a quella che è un’autentica deflagrazione, come una deflagrazione era stata nella storia della chiesa l’analoga richiesta di un tale frate Francesco di tornare al Vangelo nudo “sine glossa”.
Se fosse presa sul serio una tale affermazione potrebbe avere conseguenze incalcolabili sulla struttura se non addirittura sull’esistenza stessa di una chiesa istituzionalizzata.

L’eminenza lancia il sasso, che si è detto è pesantissimo, ma ritiene poi di non andare oltre.
Anzi per la verità in qualche modo fa intravvedere l’oltre e questo mi sembra sia “il diavoletto dell’intellettuale” che non si lascia incatenare del quale si era accennato all’inizio e consiste in questa affermazione inaudita e forse impronunciabile per un porporato di quel rango : riproporre il nucleo come fece san Paolo nell’Areopago “pur sapendo che è possibile anche il fallimento”.
Questa è un’affermazione indicibile nel campo della teologia cattolica, perché questa è il senso stesso della laicità, che consiste in un’affermazione di fede nel senso di credenza solo se passata al vaglio della ragione.
La laicità è in contrasto insanabile con qualsiasi fede ,perchè questa rifiuta per definizione di sottomettersi al vaglio della ragione in quanto fondata su assunzioni che si autoproclamano verità rivelata, data una volta per tutte.
La laicità è invece per definizione relativista e non da mai niente per scontato e per assoluto.
E allora, bravo, bravissimo Ravasi che sa dire l’indicibile adombrando la possibilità di un relativismo?
No, proprio no, perché lanciare un sasso di quella portata e poi non dire più nulla non è onesto né umanamente, né intellettualmente.
Per la semplice ragione che i lettori del Corriere, come l’italiano medio hanno probabilmente un livello di cultura in materia di teologia cattolica e di storia della chiesa da non permettere loro di afferrare nemmeno in modo grossolano le implicazioni teoriche e pratiche di un termine apparentemente esoterico come “Vangelo sine glossa”, e quindi lanciare il sasso e lasciarlo affondare senza spiegarsi per il popolo,non è onesto, tanto valeva lasciare perdere e andare avanti col discorso del parroco di campagna, modesto, arretrato, ma onesto.
Nascondersi dietro al latinorum di Don Abbondio è una tattica trita e veramente di basso profilo.
Capisco che scegliere la porpora è umanamente più appagante che fare la vita, tanto per fare un esempio di un teologo come Vito Mancuso ,che per dire quello che la libertà di ricerca gli portava a dire si è messo nelle condizioni di dover rinunciare non sono all’eventualità di una carriera verso la porpora, ma perfino alla tonaca.
Non è onesto non spiegare alla gente che “Vangelo sine glossa” significa inconfutabilmente dire tra l’altro eccelsia sine porpore, per farla breve, ricorrendo un latinorum da strapazzo.
Capisco che avere il coraggio di dire questo per chi la porpora l’ha eccettata e la veste con tutti gli agi annessi e connessi possa essere duro e complicato, ma tant’è .
Questa situazione nella quale si trova un personaggio vistoso come Ravasi è la dimostrazione che non si può fare contemporaneamente l’intellettuale e il burocrate ,se pure di alto o altissimo livello, o l’uno o l’altro.
Evidentemente uno come Ravasi tende a cedere a quell’arroganza intellettuale che gli fa pensare di pter tenersi la porpora e contemporaneamente permettersi di prendersi la soddisfazione intellettuale di esternare certi pensieri da diavoletto irrefrenabile, approfittando del fatto di essere come prefetto della congregazione della cultura contemporaneamente controllore e controllato.
Ma non è onesto, “not fair at all” per lui che si dice parli dieci lingue.

L’altro cospicuo personaggio vaticano che è stato intervistato dal Corriere in questi giorni, questa volta avendo come interlocutore Aldo Cazzullo, firma principe di quel giornale, è l’Arcivescovo Vincenzo Paglia che ha osato coraggiosamente cimentarsi con l’argomento difficilissimo della morte.
Difficilissimo perché paradossalmente la ragione per la quale la stragrande maggioranza della gente che ancora si rivolge alla fede cattolica lo fa per cercare la risposta di quella fede proprio all’assurdità razionale della morte, ma incredibilmente la chiesa in due millenni di storia non ha saputo elaborare risposte di un qualche senso a questa domanda così basilare.
Prova dell’affidarsi ancora alla chiesa per dare un senso alla morte è che fra i “riti di passaggio”, quello che resiste più degli altri è il funerale religioso.
Mons. Paglia in quell’intervista comincia con un’affermazione di senso comune, fatta proprio dalla teologia cattolica, ma non certo in esclusiva, essendo ben presente nel pensiero filosofico :il bisogno di un oltre che superi l’oltraggio irrazionale della morte è insito nel profondo dell’uomo, perché dice Paglia, sarebbe un enorme spreco se tutti gli affetti accumulati nella vita finissero nel nulla.
Poi riconosce che quando i cristiani affrontano il problema lo fanno usando un gergo clericale scontato e superficiale che non dice più niente a nessuno.

E questo è un onesto riconoscimento di quanto si diceva sopra e cioè che la chiesa non ha saputo elaborare alcuna risposta appena appena convincente.
Successivamente però si lascia andare a una argomentazione più che discutibile dicendo che il cattolicesimo non riconosce la reincarnazione , ma piuttosto la resurrezione dei corpi e su questo fonda la sua risposta di senso al fenomeno della morte.
Santo cielo, ma possibile che un uomo che conosce non solo il mondo patinato dell’accademia come Ravasi, ma che ha conosciuto e bene il mondo dei diseredati e dell’uomo comune non veda che questo concetto tradizionale della “resurrezione della carne” fa parte integrante di quello che lui stesso aveva chiamato prima “gergo clericale” che non convince più nessuno?
Se Paglia cade su un argomento come questo lascia intravedere una cultura scientifica mai praticata seriamente, ed è un peccato, dato che una parte non trascurabile della teologia cattolica ha da tempo proposto di archiviare questo dogma tradizionale per assoluta incompatibilità col pensiero scientifico moderno.
Da Giordano Bruno a Teillard de Chardin a Mancuso si è sviluppata una riflessione nei secoli che riesce ad essere in sintonia con i dati più recenti della ricerca scientifica proprio ipotizzando l’archiviazione definitiva del dogma della resurrezione della carne ed allora perché impantanarsi su un concetto così insostenibile?
Purtroppo per Paglia la difesa a oltranza dell’idea della resurrezione della carne è ripetuta più volte anche quando dice che il cristianesimo va oltre l’idea della sopravvivenza platonica dell’anima spirituale.
Riconosce che l’idea della resurrezione è difficile anche solo concepirla, ma allora per quale ragione ritiene di insisterci?

La soluzione per salvare capra e cavoli, volgarmente parlando, come tra l’altro hanno fatto da secoli i teologi ci sarebbe e lui stesso ne da un esempio quando dice che la Madonna “si tramanda” che si addormentò e il suo corpo fu portato in cielo.
Si tramanda vuole dire che si parla di una leggenda o se si vuole di una metafora.
Un’icona per farci sopra una meditazione, una riflessione spirituale volendo anche intellettuale e filosofica.
Ma senza affermare come verità storica che Maometto è salito in cielo dal terreno della spianata delle moschee a Gerusalemme col suo cavallo Buraq.
Questa del riconoscimento della narrazione metaforica, mi sembra l’unico modo sensato di parlare di resurrezione dei corpi.
Peccato che un uomo del livello di Mons.Paglia abbia scelto la solennità del Natale per pubblicare un libro sulla morte ,cosa che ha dato il pretesto per l’intervista in parola, se ,in poche parole, non aveva niente di appena appena originale da dire.
Vista la ben scarsa efficacia degli interventi “sui sacri misteri” evocati dal Natale, di due figure di grande spicco dei vertici vaticani, mi convinco sempre di più che non esista un futuro per la chiesa cattolica se qualcuno non sarà capace di attaccarsi veramente al messaggio di un Vangelo sine glossa, o se si vuole sul pensiero originario di Gesù risultante da quella riflessione teologica denominata “Quest” per trovare il coraggio non solo di proclamare il messaggio ma anche di cominciare a dire alla gente la verità conseguente sulla storia della chiesa e sulla sua struttura attuale.
Che questa rivoluzione possa avvenire dall’interno della chiesa istituzionale o peggio all’interno dalla sua gerarchia e cioè da parte del papa o di un concilio ecumenico mi sembra altamente inverosimile e improbabile.
Mi sembra invece più probabile che se questo avverrà, avverrà dall’esterno delle istituzioni.
Perchè che nasca un altro San Francesco è improbabile, che poi nasca un altro San Francesco ,che questa volta però non si lasci “fregare” dalla Curia, facendosi imporre una regola che ne sconvolga l’ispirazione, come purtroppo ha lasciato fare il Francesco storico è ancora più improbabile.
Anche se le cose improbabili possono benissimo accadere, come dimostra la statistica e il calcolo delle probabilità.
Le anime pie fantasticando chiamano queste cose miracoli, gli scienziati tenendo i piedi per terra le chiamano possibilità di un evento casuale di frequenza molto bassa, ma esistono in natura.
Coltivare “spes contra spem” diceva il visionario Giorgio LaPira.