Paolo VI da un punto di vista umano ha sempre
conquistato il mio interesse, più di qualsiasi altro papa recente perché
bastava sentirlo parlare per capire i tratti fondanti della sua personalità,
che trovavo interessanti.
Era prima di tutto un intellettuale, che come ogni
intellettuale spende più tempo degli altri per cercare di esprimersi con le
parole più adatte a rappresentare il proprio pensiero complesso.
Paolo VI
tutte le volte che doveva parlare lottava in modo vistoso con sé stesso
per cercare di esprimere il suo pensiero nel modi più modo completo e
articolato possibile.
E’ antipatico dirlo, ma raramente la gente ama gli
intellettuali, più facilmente li detesta, come a scuola si detestano i
secchioni o i primi della classe.
A Paolo VI è toccata la stessa sorte, resa ancora
più crudele dal fatto di avere condotto il pontificato in modo incoerente :
prima sposando decisamente una linea e
poi, negli ultimi anni, sposando, con ancora maggiore determinazione, la linea completamente
opposta.
Ma gli toccò in più anche la mala sorte di avere
come successore un uomo che aveva la stoffa dell’attore consumato e che di
questa abilità ne usato e abusato, come papa Wojtyla.
Il primo, tutto testa , studio, ricerca e mille
scrupoli, il secondo tutto teatro e deciso come un panzer a conquistare il so
posto nella storia.
Voleva essere ricordato come colui che aveva dato
il colpo di grazia a un comunismo, di per sé già moribondo, usando tutti i mezzi possibili, più materiali
che spirituali e infatti prima di tutto mandando a Walesa e compagni in lotta valigiate di
denaro, raccolto spesso in modo diciamo irrituale.
Paolo VI aveva un carattere timido e schivo e una
salute malferma fin da ragazzo cose che non hanno certo favorito le sue
capacità di comunicazione, che anzi sono sempre state il suo punto debole.
Era uomo di caratura intellettuale superiore a
quella di qualsiasi altro papa recente, e infatti amava intrattenersi
privatamente con intellettuali di livello.
Basti pensare alla sua amicizia coltivata e
ricambiata per decenni con due dei filosofi di ispirazione cattolica più
significativi del novecento come Jaques Maritain e Jean Guitton.
Nessuno come lui si è spinto tanto avanti nel
formulare la dottrina sociale cattolica cercando la massima aderenza possibile
allo spirito evangelico e quindi privilegiando la scelta a favore dei poveri, dei
diritti umani e sostenendo le organizzazioni internazionali.
La radicalità delle sue scelte nel campo della
dottrina sociale si poterono misurare quando il suo secondo successore, terzo
contando il povero papa Luciani, cioè papa Ratzinger ha firmato la sua
enciclica sociale (caritas in veritate) , materia, che evidentemente non faceva
parte dei suoi personali interessi intellettuali, come sin può giudicare dal
fatto che risultò assemblata malamente ,
palesando la redazione fatta da troppe mani diverse.
Benedetto XVI ha cercato di mitigare la sostanza
di quanto aveva scritto Paolo VI (scelta privilegiata a favore dei poveri,
solidarismo ecc.), mettendoci insieme
anche i punti di riferimento di CL (sussidiarietà esasperata in senso anti-
pubblico in economia, il nuovo concetto riassumibile in : “ essere ricchi è
bello e soprattutto non è peccato”, liberismo economico) che contrastano in
modo vistoso con il magistero sociale di Paolo VI, e quindi ne è venuto fuori
un confuso aborto.
Di Paolo VI in questo blog si era già parlato il
12-2-13; 3-9-12; 3-6-12; 25-1-11, mettendo in evidenza elementi diversi.
Ora che una recente trasmissione televisiva lo ha rievocato,
definendolo “il papa dimenticato”, mi
sono trovato a chiedermi se i decenni di Woityla e di Ratzinger non siano stati
efficaci, non tanto a rivitalizzare al chiesa, che sta oggi molto peggio di
come Woitila l’aveva trovata, ma al
contrario a fare dimenticare del tutto non solo Paolo VI, ma anche e
soprattutto quello che è stato più importante nei suoi tempi e cioè la
vivacità, il fermento e la partecipazione, la vitalità, che avevano
accompagnato il Concilio Vaticano II.
In poche parole, in quei tempi, si aveva la
sensazione che improvvisamente tutto potesse cambiare nella chiesa e che anzi
tutto stesse cambiando, con una svolta epocale.
Rivedendo i filmati dell’epoca,, mi sono sorpreso
anche da un punto di vista personale, nel constatare amaramente, che quest’opera
di pluridecennale contrasto ed oblio delle idee del Concilio aveva funzionato
anche su di me ,pure avendo io personalmente, ma in compagnia di numerosi amici,
vissuto e seguito col massimo interesse e partecipazione le vicende di quel
concilio.
Per fare qualche esempio:
Chi si ricorda più oggi di Dom Franzoni, l’allora
celeberrimo abate di San Paolo, fuori le mura.
Chi si ricorda più di Don Mazzi, quello
dell’Isolotto di Firenze, non il suo omonimo di oggi.
Chi si ricorda più della “chiesa del dissenso” o
delle “comunità di base”, che nascevano allora, numerose come realtà
autogestite.
E della “teologia della liberazione” in America
Latina con Gustavo Gutierrez, Leonardo Boff, Helder Camara, Ernesto Cardenal,
che in poche parole affermava che la chiesa diventa credibile solo se
privilegia la sua azione nel sociale e nel trasformare la società secondo i
principi di giustizia del vangelo.
Chi si ricorda più delle vicende del prete
guerrigliero colombiano Camillo Torres.
O in Italia della comunità di Nomadelfia di Don
Zeno Saltini.
E del fenomeno dei “preti operai”,in Francia e in
Italia, che metteva in discussione alla radice la concezione del prete come
“impiegato” della chiesa istituzione e poneva quindi il problema di trovargli
tutt’un altro ruolo, ritenendo che nel ruolo tradizionale, il prete fosse
diventato inutile.
Don Lorenzo Milani a Barbiana nel Mugello, che
sconvolse il perbenismo moderato borghese con le sue idee su una scuola che doveva
finirla di privilegiare gli alunni provenienti dalle famiglie benestanti e già scolarizzate, e che in più pose anche in
modo radicale il problema della guerra giusta e il conseguente dovere per un
cattolico coerente col messaggio evangelico, di invocare l’obiezione di
coscienza, (che allora non era riconosciuta affatto), piuttosto che addestrarsi all’uso delle armi,
col servizio militare.
Padre David Maria Turoldo, poeta e uomo di
grandissima apertura umana con idee anche lui radicali sulla chiesa e
sull’assetto sociale.
Padre Ernesto Balducci, che nella Firenze di La
Pira perseverò per decenni a difendere le sue idee sulla possibilità di una chiesa
di tutt’altro stampo, rispetto all’esistente.
I
Cardinali Leo Joseph
Suenens, Lienard, Danneels, Koenig, tutti coraggiosi fautori al
Concilio di un rinnovamento reale, soprattutto a livello di gestione collegiale
della chiesa, ma non solo.
L’allora famosissimo “ catechismo olandese”, che
metteva in discussione i dogmi relativi al concetto di peccato, redenzione, eucarestia, la verginità della
Madonna, il ruolo della Chiesa e del Papa.
L’impronunciabile teologo belga fiammingo Edward_Schillebeeckx,
allora sulla bocca di tutti, che osò teorizzare tra l’altro che l’eucaristia è
solo una rievocazione e non la transustanziazione e cioè la trasformazione
reale dell’ostia nel corpo di Cristo, poi indagato dal Sant’Uffizio per le sue
idee che mettevano in discussione la versione tradizionale del dogma della
resurrezione.
I grandi teologi del Concilio, soprattutto i
francesi Yves Congar, Jean Danielou ecc.che
misero le basi teoriche per una nuova concezione della chiesa nella quale
contassero molto di più i laici e per una gestione collegiale a tutti i livelli, nonché
a favore dell’accettazione di forme di pluralismo teologico, che consentisse il
convivere di più formulazioni.
Le visioni cosmologiche di Teillard de Chardin,
che per vie tutte sue, riproponeva molte delle idee di Giordano Bruno.
Intellettuali cattolici come il compianto Mario
Gozzini o Raniero La Valle, oggi vegliardo ed ancora attivo, ma da anni vittima
dell’ostracismo della stampa che conta, per essere stato cattolico- comunista.
La rivista Concilum, curata dai teologi
progressisti Chenu, Congar,
Rahner e
Küng,
alla quale si preoccuparono di fare
subito il controcanto alcuni teologi tradizionalisti : von Balthasar , de Lubac Ratzinger e poi
anche Scola, facendo uscire la concorrente rivista teologica Communio.
Da quei tempi e da quelle temperie culturali sono passati quasi
cinquant’anni, un periodo enorme, data la velocità alla quale va il mondo di
oggi.
Tendo quindi sempre di più a pensare, che quello
che era da fare, andava fatto allora, perché oggi è troppo tardi.
Oggi dopo cinquant’ anni persi, le indagini
sociologiche ci dicono che la chiesa ha perso irrimediabilmente delle
generazioni.
Andare a fare la narrazione dei miti della
tradizione cristiana ai giovani d’oggi, significa trovare una reazione,
radicalmente diversa rispetto a quella, che era abituale sperimentare
cinquant’anni fa.
Perché oggi, dopo anni di globalizzazione è ovvio
che i giovani conoscono molto più di ieri i miti degli islamici o degli orientali, perché questi, che cinquant’anni fa facevano
parte di cose talmente lontane da essere percepite come favole più che realtà,
oggi sono le fedi reali dei nostri
vicini di casa o dei nostri compagni di lavoro.
Questo significa che oggi viene spontaneo
comparare i miti cristiani con le narrazioni relative ai miti orientali o a
quelli delle altre religioni e metterli sullo stesso piano.
Per i più giovani è esperienza comune rilevare che
vengano ritenuti tutti quanti di scarso interesse per il mondo di oggi.
Se poi parlassimo ai giovani del patrimonio
dogmatico della tradizione cattolica, fondato sull’autorità della , della
rivelazione (cioè sui miti dei quali si diceva sopra) eccetera
nell’interpretazione unica della gerarchia cattolica, l’interesse si farebbe
ancora più basso.
Che dire poi se cercassimo di sostenere
l’argomento sulla presunta autorità morale della chiesa, in tempi nei quali è
afflitta da dilagante pederastia, carrierismo, corruzione , amore del danaro e
dei privilegi.
Non ingannano più nessuno, come segnali di una ripresa della fede nei giovani
gli “happening” trionfalistici tipo giornate mondiali della gioventù, congressi
eucaristici, congressi mariani ecc., che sono manifestazioni esteriori,
occasioni di viaggio e di incontro, che tutt’al più i giovani possono mettere al livello dei concerti dei grandi
della musica giovanile,dove si ritrova lo stesso pubblico strabocchevole, e la stessa
ricerca di una breve esaltazione sentimentale
e poi tutto finito.
Anzi, a vantaggio dei concertoni rock sta il fatto che i giovani che ci vanno devono
fare in più il sacrificio di pagare oltre alle spese di viaggio, anche una
cifra consistente per assistervi, manifestando così, maggiore convinzione.
Cinquant’anni persi, temo che abbiano fatto
perdere alla chiesa l’ultimo treno per evitare di diventare del tutto
irrilevante, come già è capitato nel nord ed Est Europa, ad eccezione
ovviamente della Polonia, che ha una storia particolare e dove comunque è
difficile distinguere fra fede ultra tradizionalista e nazionalismo acceso.
Povero Paolo VI , dovrà portarsi sulle spalle il
peso enorme di questa sconfitta epocale, che è anche in buona parte colpa sua.
A tanti anni dalla sua scomparsa, risulta tuttora
incomprensibile il suo repentino volta faccia, da attuatore convinto del
Concilio ad arcigno affossatore delle iniziative più innovative.
Il punto più basso del suo pontificato, è inutile
ripeterlo, è stato toccato con l’estremamente improvvida enciclica “ humanae
vitae” sull’etica sessuale e sul matrimonio.
Ricordo la reazione sorprendente e quasi isterica ,
che allora constatai anche da parte di dirigenti femminili delle organizzazioni
cattoliche, che sinceramente lo
accusavano di avere perso la ragione, quando è stata divulgata quell’enciclica,
perché il contrasto fra il prima e il dopo è stato troppo clamoroso.
Ma sopratutto perché nessuno si aspettava, che il
papa che aveva promesso collegialità e pluralismo, avrebbe proprio lui
disatteso il parere della maggioranza dei fedeli, degli esperti e pare persino
di gran parte della curia, invocando il più anacronistico dei dogmi, quello che
per tradizione affida il potere assoluto al papa.
Chi prima lo aveva amato è stato costretto quasi a
odiarlo, per avere tradito le enormi aspettative che c’erano in gioco.
La responsabilità, purtroppo per lui, è storicamente
sua, anche se nel caso specifico dell’Humanae vitae, ,basta andare a leggersi
il volume dell’allora Cardinale Woityla intitolato “responsabilità e amore”, tradotto con molto ritardo anche in italiano,
per capire chi era stato il cattivo maestro dietro a quell’enciclica, se non addirittura
l’estensore materiale.
E si sapeva che Woityla andava spesso in Vaticano a
quell’epoca a trovare Paolo VI, come ci
andava anche un certo Don Giussani, che, si dice, ebbe una parte di primo piano
nel riuscire a convincere quel vecchio papa malfermo e confuso dei presunti
scenari apocalittici, che avrebbe provocato quello che il suo ultra
tradizionalismo, riteneva fosse l’anarchia
nella chiesa e non un’epocale apertura a un pluralismo che non c’era mai stato
prima.
Era quello che mancava alla chiesa per crescere e
rinnovarsi, aprirsi alla discussione con punti di vista diversi , per trovare
nuove formulazioni più credibili e meno assurde di quelle che sostiene la
dogmatica tradizionale.
Sarebbe facile e forse giusto, valutando il
contributo dato da Paolo VI negli anni precedenti , al rinnovamento della chiesa, attribuire a quei cattivi maestri la
responsabilità del disastro, che ne è seguito, ma a che giova, oramai la
frittata è fatta.
Come detto e ripetuto in questo blog il brillante
risultato dei cinquant’anni persi, dei quali stiamo parlando, è che nella
diocesi più grande del mondo e particolarmente nella metropoli di Milano il
gregge osservante si è ridotto al lumicino e si conta come il 5% della popolazione.
Questo disastro numericamente verificabile,
nasconde una singolare contraddizione
che va pure messa in evidenza, perché è estremamente significativa.
Di quel 5% una parte molto, ma molto più ridotta è
quella coperta dal movimento -setta di Comunione e Liberazione, che quindi
numericamente è quasi irrilevante, ma che però si ritrova a gestire un potere
immenso nelle istituzioni, sorprendentemente e non ostante l’ondata di scandali,
che ha contraddistinto gli ultimi anni della gestione Formigoni della Regione
Lombardia, il ciellino più noto a tutto il grande pubblico.
Come è possibile che una forza delle dimensioni
numeriche esigue e paragonabile a quella della pattuglia, determinata, ma con i
risultati tipici di un esercito di Brancaleone, che è costituita dai radicali
di Pannella, conti in modo così sproporzionato?
Perché CL è riuscita a ricoprirsi della conchiglia
della fede, strumentalizzandola, ma
incassando tutti i benefici annessi e connessi, con la benedizione di
una gerarchia della chiesa istituzionale, che si è vista talmente a mal partito, da ritenere di dover accettare la loro
autonoma e ingombrante presenza.
Ed anzi a benedire quel movimento- setta, bravissimo a fare gli affari suoi, ma
furbescamente anche capace più degli altri di fare un gran lavoro di relazioni
pubbliche, a seguito del quale, pare che esistano solamente loro in campo
cattolico, e in alcune realtà, disgraziatamente la cosa risulta essere vera.
Comunione e Liberazione non è ovviamente la causa
di tutti i mali.
Ma CL è l’icona di come finisce una chiesa quando la
gerarchia la dirige a mettere come priorità la mera gestione del potere, per la
ricerca dei connessi privilegi materiali.
Non è un caso che la chiesa rappresentata da CL
sia ora vista come la rappresentazione vivente delle contraddizioni del
moderatismo di quella borghesia italica, tutt’altro che brillante, che ha
aderito in massa al berlusconismo.
Liberali e liberisti, però solo a parole, perché in
realtà tutto il business di CL è basato sulla politica di disseccare il terreno
del pubblico soprattutto nel campo dei servizi, per fare passare quelle
attività alle sue cooperative , con una interpretazione del principio di sussidiarietà
che ne snatura il significato, come è delineato dalla dottrina sociale.
Il ruolo del pubblico nella dottrina sociale e soprattutto
per merito di Paolo VI è molto chiaro ed è considerato essenziale e non
comprimibile nei settori socialmente ed eticamente più sensibili.
Si era scritto in proposito nel blog del 25-1-11 :
“E’ vero che la dottrina sociale elenca il
principio di sussidiarietà come cosa propria, ma questo principio è molto
generico e può essere declinato in tanti modi.
Cl non solo lo ha declinato in modo molto
estensivo ma si è dotata anche delle strutture per metterlo in atto.
E’ chiaro che se passiamo dalla teoria alla
pratica e andiamo a vedere la galassia delle cooperative aderenti alla
Compagnia delle Opere, alle quali per esempio gli ospedali pubblici hanno fatto
come si dice oggi “outsourcing”, esternalizzando tutta la logistica e i servizi,
avremmo più che qualche interrogativo da porci sulla opportunità, che siano
proprio i cattolici ad ispirare le forme di lavoro più precarie, che esistono
nella realtà attuale, ma questo è un altro discorso”
L’interpretazione del principio di
sussidiarietà in modo affaristico- liberista, cioè non è lo stesso elencato
nella dottrina sociale della chiesa.
Una chiesa istituzione che svia così
clamorosamente dal messaggio evangelico, come è stata tutta quella post e anti-conciliare come si è detto, ha
incassato dallo stato soldi e privilegi ,nell’ultimo ventennio , come contropartita
dell’appoggio al berlusconismo, ma
accelerato il processo della sua emarginazione dalla società nel senso che la
sua credibilità è finita in picchiata.
Ci sono degli appositi indicatori sociologici
che sono quelli relativi alla misurazione del grado di fiducia nella chiesa che
da cifre bulgare da 90/80% ai tempi del Concilio, è ormai discesa stabilmente
sotto la soglia critica del 50%.
Di fronte a una crisi epocale cosa si potrebbe
fare.
A mio parere le vie sono due.
O si vanno a rivedere per applicarle oggi a favore del pluralismo ideologico , che
circolavano ai tempi del concilio e si accetta l’idea di una chiesa plurale e
aperta alla sperimentazione del nuovo.
Ma figuriamoci se oggi la chiesa istituzionale
è disposta a vedere sorgere comunità di base, sperimentazioni liturgiche,
contestazione dei dogmi eccetera, eccetera.
O gli oscurati, ma non pochi progressisti si
fanno coraggio e fanno un passo oltre per superare anche il loro personale
attaccamento sentimentale ad una chiesa istituzione, che non trova riscontri
logico- razionali.
E si incamminano non contro, ma oltre e fuori
dalle strutture esistenti, disconoscendo quindi sia l’autorità dei vescovi che
quella del papa.
E’ chiedere troppo? Forse sì, ma c’è il tempo
per rinviare scelte radicali?