mercoledì 21 agosto 2013

E’ con Paolo VI che la chiesa probabilmente ha perso l’ultimo autobus. Papa bifronte : prima accorto attuatore dei decreti conciliari, poi stroncatore di ogni innovazione



Paolo VI da un punto di vista umano ha sempre conquistato il mio interesse, più di qualsiasi altro papa recente perché bastava sentirlo parlare per capire i tratti fondanti della sua personalità, che trovavo interessanti.
Era prima di tutto un intellettuale, che come ogni intellettuale spende più tempo degli altri per cercare di esprimersi con le parole più adatte a rappresentare il proprio pensiero complesso.
Paolo VI  tutte le volte che doveva parlare lottava in modo vistoso con sé stesso per cercare di esprimere il suo pensiero nel modi più modo completo e articolato possibile.
E’ antipatico dirlo, ma raramente la gente ama gli intellettuali, più facilmente li detesta, come a scuola si detestano i secchioni o i primi della classe.
A Paolo VI è toccata la stessa sorte, resa ancora più crudele dal fatto di avere condotto il pontificato in modo incoerente : prima sposando decisamente  una linea e poi, negli ultimi anni, sposando, con ancora maggiore determinazione, la linea completamente opposta.
Ma gli toccò in più anche la mala sorte di avere come successore un uomo che aveva la stoffa dell’attore consumato e che di questa abilità ne usato e abusato, come papa Wojtyla.
Il primo, tutto testa , studio, ricerca e mille scrupoli, il secondo tutto teatro e deciso come un panzer a conquistare il so posto nella storia.
Voleva essere ricordato come colui che aveva dato il colpo di grazia a un comunismo, di per sé già moribondo,  usando tutti i mezzi possibili, più materiali che spirituali e infatti prima di tutto mandando  a Walesa e compagni in lotta valigiate di denaro, raccolto spesso in modo diciamo irrituale.
Paolo VI aveva un carattere timido e schivo e una salute malferma fin da ragazzo cose che non hanno certo favorito le sue capacità di comunicazione, che anzi sono sempre state il suo punto debole.
Era uomo di caratura intellettuale superiore a quella di qualsiasi altro papa recente, e infatti amava intrattenersi privatamente con intellettuali di livello.
Basti pensare alla sua amicizia coltivata e ricambiata per decenni con due dei filosofi di ispirazione cattolica più significativi del novecento come Jaques Maritain e  Jean Guitton.
Nessuno come lui si è spinto tanto avanti nel formulare la dottrina sociale cattolica cercando la massima aderenza possibile allo spirito evangelico e quindi privilegiando la scelta a favore dei poveri, dei diritti umani e sostenendo le organizzazioni internazionali.
La radicalità delle sue scelte nel campo della dottrina sociale si poterono misurare quando il suo secondo successore, terzo contando il povero papa Luciani, cioè papa Ratzinger ha firmato la sua enciclica sociale (caritas in veritate) , materia, che evidentemente non faceva parte dei suoi personali interessi intellettuali, come sin può giudicare dal fatto che risultò assemblata  malamente , palesando la redazione fatta da troppe mani diverse.
Benedetto XVI ha cercato di mitigare la sostanza di quanto aveva scritto Paolo VI (scelta privilegiata a favore dei poveri, solidarismo ecc.),  mettendoci insieme anche i punti di riferimento di CL (sussidiarietà esasperata in senso anti- pubblico in economia, il nuovo concetto riassumibile in : “ essere ricchi è bello e soprattutto non è peccato”, liberismo economico) che contrastano in modo vistoso con il magistero sociale di Paolo VI, e quindi ne è venuto fuori un confuso aborto.
Di Paolo VI in questo blog si era già parlato il 12-2-13; 3-9-12; 3-6-12; 25-1-11, mettendo in evidenza elementi diversi.
Ora che una recente trasmissione televisiva lo ha rievocato, definendolo  “il papa dimenticato”, mi sono trovato a chiedermi se i decenni di Woityla e di Ratzinger non siano stati efficaci, non tanto a rivitalizzare al chiesa, che sta oggi molto peggio di come Woitila l’aveva trovata,  ma al contrario a fare dimenticare del tutto non solo Paolo VI, ma anche e soprattutto quello che è stato più importante nei suoi tempi e cioè la vivacità, il fermento e la partecipazione, la vitalità, che avevano accompagnato il Concilio Vaticano II.
In poche parole, in quei tempi, si aveva la sensazione che improvvisamente tutto potesse cambiare nella chiesa e che anzi tutto stesse cambiando, con una svolta epocale.
Rivedendo i filmati dell’epoca,, mi sono sorpreso anche da un punto di vista personale, nel constatare amaramente, che quest’opera di pluridecennale contrasto ed oblio delle idee del Concilio aveva funzionato anche su di me ,pure avendo io personalmente, ma in compagnia di numerosi amici, vissuto e seguito col massimo interesse e partecipazione le vicende di quel concilio.
Per fare qualche esempio:
Chi si ricorda più oggi di Dom Franzoni, l’allora celeberrimo abate di San Paolo, fuori le mura.
Chi si ricorda più di Don Mazzi, quello dell’Isolotto di Firenze, non il suo omonimo di oggi.
Chi si ricorda più della “chiesa del dissenso” o delle “comunità di base”, che nascevano allora, numerose come realtà autogestite.
E della “teologia della liberazione” in America Latina con Gustavo Gutierrez, Leonardo Boff, Helder Camara, Ernesto Cardenal, che in poche parole affermava che la chiesa diventa credibile solo se privilegia la sua azione nel sociale e nel trasformare la società secondo i principi di giustizia del vangelo.
Chi si ricorda più delle vicende del prete guerrigliero colombiano Camillo Torres.
O in Italia della comunità di Nomadelfia di Don Zeno Saltini.
E del fenomeno dei “preti operai”,in Francia e in Italia, che metteva in discussione alla radice la concezione del prete come “impiegato” della chiesa istituzione e poneva quindi il problema di trovargli tutt’un altro ruolo, ritenendo che nel ruolo tradizionale, il prete fosse diventato inutile.
Don Lorenzo Milani a Barbiana nel Mugello, che sconvolse il perbenismo moderato borghese con le sue idee su una scuola che doveva finirla di privilegiare gli alunni provenienti dalle famiglie benestanti  e già scolarizzate, e che in più pose anche in modo radicale il problema della guerra giusta e il conseguente dovere per un cattolico coerente col messaggio evangelico, di invocare l’obiezione di coscienza, (che allora non era riconosciuta affatto),  piuttosto che addestrarsi all’uso delle armi, col servizio militare.
Padre David Maria Turoldo, poeta e uomo di grandissima apertura umana con idee anche lui radicali sulla chiesa e sull’assetto sociale.
Padre Ernesto Balducci, che nella Firenze di La Pira perseverò per decenni a difendere le sue idee sulla possibilità di una chiesa di tutt’altro stampo, rispetto all’esistente.
I Cardinali  Leo Joseph Suenens,  Lienard,  Danneels, Koenig, tutti coraggiosi fautori al Concilio di un rinnovamento reale, soprattutto a livello di gestione collegiale della chiesa, ma non solo.
L’allora famosissimo “ catechismo olandese”, che metteva in discussione i dogmi  relativi al concetto di peccato,  redenzione, eucarestia, la verginità della Madonna, il ruolo della Chiesa e del Papa.
L’impronunciabile teologo belga fiammingo Edward_Schillebeeckx, allora sulla bocca di tutti, che osò teorizzare tra l’altro che l’eucaristia è solo una rievocazione e non la transustanziazione e cioè la trasformazione reale dell’ostia nel corpo di Cristo, poi indagato dal Sant’Uffizio per le sue idee che mettevano in discussione la versione tradizionale del dogma della resurrezione.
I grandi teologi del Concilio, soprattutto i francesi  Yves Congar, Jean Danielou ecc.che misero le basi teoriche per una nuova concezione della chiesa nella quale contassero molto di più i laici e per una  gestione collegiale a tutti i livelli, nonché a favore dell’accettazione di forme di pluralismo teologico, che consentisse il convivere di più formulazioni.
Le visioni cosmologiche di Teillard de Chardin, che per vie tutte sue, riproponeva molte delle idee di Giordano Bruno.
Intellettuali cattolici come il compianto Mario Gozzini o Raniero La Valle, oggi vegliardo ed ancora attivo, ma da anni vittima dell’ostracismo della stampa che conta, per essere stato cattolico- comunista.
La rivista Concilum, curata dai teologi progressisti Chenu, Congar, Rahner e Küng,  alla quale si preoccuparono di fare subito  il controcanto alcuni  teologi tradizionalisti  : von Balthasar , de Lubac Ratzinger e poi anche Scola, facendo uscire la concorrente rivista teologica Communio.
Da quei tempi e da  quelle temperie culturali sono passati quasi cinquant’anni, un periodo enorme, data la velocità alla quale va il mondo di oggi.
Tendo quindi sempre di più a pensare, che quello che era da fare, andava fatto allora, perché oggi è troppo tardi.
Oggi dopo cinquant’ anni persi, le indagini sociologiche ci dicono che la chiesa ha perso irrimediabilmente delle generazioni.
Andare a fare la narrazione dei miti della tradizione cristiana ai giovani d’oggi, significa trovare una reazione, radicalmente diversa rispetto a quella, che era abituale sperimentare cinquant’anni fa.
Perché oggi, dopo anni di globalizzazione è ovvio che i giovani conoscono molto più di ieri  i miti degli islamici o degli orientali,  perché questi, che cinquant’anni fa facevano parte di cose talmente lontane da essere percepite come favole più che realtà, oggi  sono le fedi reali dei nostri vicini di casa o dei nostri compagni di lavoro.
Questo significa che oggi viene spontaneo comparare i miti cristiani con le narrazioni relative ai miti orientali o a quelli delle altre religioni  e  metterli sullo stesso piano.
Per i più giovani è esperienza comune rilevare che vengano ritenuti tutti quanti di scarso interesse per il mondo di oggi.
Se poi parlassimo ai giovani del patrimonio dogmatico della tradizione cattolica, fondato sull’autorità della , della rivelazione (cioè sui miti dei quali si diceva sopra) eccetera nell’interpretazione unica della gerarchia cattolica, l’interesse si farebbe ancora più basso.
Che dire poi se cercassimo di sostenere l’argomento sulla presunta autorità morale della chiesa, in tempi nei quali è afflitta da dilagante pederastia, carrierismo, corruzione , amore del danaro e dei privilegi.
Non ingannano più nessuno, come  segnali di una ripresa della fede nei giovani gli “happening” trionfalistici tipo giornate mondiali della gioventù, congressi eucaristici, congressi mariani ecc., che sono manifestazioni esteriori, occasioni di viaggio e di incontro, che  tutt’al più i giovani possono  mettere al livello dei concerti dei grandi della musica giovanile,dove si ritrova lo stesso pubblico strabocchevole, e la stessa ricerca di una breve esaltazione sentimentale  e poi tutto finito.
Anzi, a vantaggio dei concertoni rock  sta il fatto che i giovani che ci vanno devono fare in più il sacrificio di pagare oltre alle spese di viaggio, anche una cifra consistente per assistervi, manifestando così, maggiore convinzione.
Cinquant’anni persi, temo che abbiano fatto perdere alla chiesa l’ultimo treno per evitare di diventare del tutto irrilevante, come già è capitato   nel nord ed Est Europa, ad eccezione ovviamente della Polonia, che ha una storia particolare e dove comunque è difficile distinguere fra fede ultra tradizionalista e nazionalismo acceso.
Povero Paolo VI , dovrà portarsi sulle spalle il peso enorme di questa sconfitta epocale, che è anche in buona parte colpa sua.
A tanti anni dalla sua scomparsa, risulta tuttora incomprensibile il suo repentino volta faccia, da attuatore convinto del Concilio ad arcigno affossatore delle iniziative più innovative.
Il punto più basso del suo pontificato, è inutile ripeterlo, è stato toccato con l’estremamente improvvida enciclica “ humanae vitae” sull’etica sessuale e sul matrimonio.
Ricordo la reazione sorprendente e quasi isterica , che allora constatai anche da parte di dirigenti femminili delle organizzazioni cattoliche, che  sinceramente lo accusavano di avere perso la ragione, quando è stata divulgata quell’enciclica, perché il contrasto fra il prima e il dopo è stato troppo clamoroso.
Ma sopratutto perché nessuno si aspettava, che il papa che aveva promesso collegialità e pluralismo, avrebbe proprio lui disatteso il parere della maggioranza dei fedeli, degli esperti e pare persino di gran parte della curia, invocando il più anacronistico dei dogmi, quello che per tradizione affida il potere assoluto al papa.
Chi prima lo aveva amato è stato costretto quasi a odiarlo, per avere tradito le enormi aspettative che c’erano in gioco.
La responsabilità, purtroppo per lui, è storicamente sua, anche se nel caso specifico dell’Humanae vitae, ,basta andare a leggersi il volume dell’allora Cardinale Woityla intitolato “responsabilità e amore”,  tradotto con molto ritardo anche in italiano, per capire chi era stato il cattivo maestro  dietro a quell’enciclica, se non addirittura l’estensore materiale.
E si sapeva che Woityla andava spesso in Vaticano a quell’epoca  a trovare Paolo VI, come ci andava anche un certo Don Giussani, che, si dice, ebbe una parte di primo piano nel riuscire a convincere quel vecchio papa malfermo e confuso dei presunti scenari apocalittici, che avrebbe provocato quello che il suo ultra tradizionalismo, riteneva  fosse l’anarchia nella chiesa e non un’epocale apertura a un pluralismo che non c’era mai stato prima.
Era quello che mancava alla chiesa per crescere e rinnovarsi, aprirsi alla discussione con punti di vista diversi , per trovare nuove formulazioni più credibili e meno assurde di quelle che sostiene la dogmatica tradizionale.
Sarebbe facile e forse giusto, valutando il contributo dato da Paolo VI negli anni precedenti , al rinnovamento della chiesa,  attribuire a quei cattivi maestri la responsabilità del disastro, che ne è seguito, ma a che giova, oramai la frittata è fatta.
Come detto e ripetuto in questo blog il brillante risultato dei cinquant’anni persi, dei quali stiamo parlando, è che nella diocesi più grande del mondo e particolarmente nella metropoli di Milano il gregge osservante si è ridotto al lumicino e si conta come il  5% della popolazione.
Questo disastro numericamente verificabile, nasconde  una singolare contraddizione che va pure messa in evidenza, perché è estremamente significativa.
Di quel 5% una parte molto, ma molto più ridotta è quella coperta dal movimento -setta di Comunione e Liberazione, che quindi numericamente è quasi irrilevante, ma che però si ritrova a gestire un potere immenso nelle istituzioni, sorprendentemente e non ostante l’ondata di scandali, che ha contraddistinto gli ultimi anni della gestione Formigoni della Regione Lombardia, il ciellino più noto a tutto il grande pubblico.
Come è possibile che una forza delle dimensioni numeriche esigue e paragonabile a quella della pattuglia, determinata, ma con i risultati tipici di un esercito di Brancaleone, che è costituita dai radicali di Pannella, conti in modo così sproporzionato?
Perché CL è riuscita a ricoprirsi della conchiglia della fede, strumentalizzandola, ma  incassando tutti i benefici annessi e connessi, con la benedizione di una gerarchia della chiesa istituzionale, che si è vista  talmente a mal partito,  da ritenere di dover accettare la loro autonoma e ingombrante presenza.
Ed anzi a benedire quel movimento- setta,  bravissimo a fare gli affari suoi, ma furbescamente anche capace più degli altri di fare un gran lavoro di relazioni pubbliche, a seguito del quale, pare che esistano solamente loro in campo cattolico, e in alcune realtà, disgraziatamente la cosa risulta essere  vera.
Comunione e Liberazione non è ovviamente la causa di tutti i mali.
Ma CL è l’icona di come finisce una chiesa quando la gerarchia la dirige a mettere come priorità la mera gestione del potere, per la ricerca dei connessi privilegi materiali.
Non è un caso che la chiesa rappresentata da CL sia ora vista come la rappresentazione vivente delle contraddizioni del moderatismo di quella borghesia italica, tutt’altro che brillante, che ha aderito in massa al berlusconismo.
Liberali e liberisti, però solo a parole, perché in realtà tutto il business di CL è basato sulla politica di disseccare il terreno del pubblico soprattutto nel campo dei servizi, per fare passare quelle attività alle sue cooperative , con una interpretazione del principio di sussidiarietà che ne snatura il significato, come è delineato dalla dottrina sociale.
Il ruolo del pubblico nella dottrina sociale e soprattutto per merito di Paolo VI è molto chiaro ed è considerato essenziale e non comprimibile nei settori socialmente ed eticamente più sensibili.
Si era scritto in proposito nel blog del 25-1-11 :
“E’ vero che la dottrina sociale elenca il principio di sussidiarietà come cosa propria, ma questo principio è molto generico e può essere declinato in tanti modi.
Cl non solo lo ha declinato in modo molto estensivo ma si è dotata anche delle strutture per metterlo in atto.
E’ chiaro che se passiamo dalla teoria alla pratica e andiamo a vedere la galassia delle cooperative aderenti alla Compagnia delle Opere, alle quali per esempio gli ospedali pubblici hanno fatto come si dice oggi “outsourcing”, esternalizzando tutta la logistica e i servizi, avremmo più che qualche interrogativo da porci sulla opportunità, che siano proprio i cattolici ad ispirare le forme di lavoro più precarie, che esistono nella realtà attuale, ma questo è un altro discorso”
L’interpretazione del principio di sussidiarietà in modo affaristico- liberista, cioè non è lo stesso elencato nella dottrina sociale della chiesa.
Una chiesa istituzione che svia così clamorosamente dal messaggio evangelico, come è stata tutta quella  post e anti-conciliare come si è detto, ha incassato dallo stato soldi e privilegi ,nell’ultimo ventennio , come contropartita dell’appoggio al berlusconismo,  ma accelerato il processo della sua emarginazione dalla società nel senso che la sua credibilità è finita in picchiata.
Ci sono degli appositi indicatori sociologici che sono quelli relativi alla misurazione del grado di fiducia nella chiesa che da cifre bulgare da 90/80% ai tempi del Concilio, è ormai discesa stabilmente sotto la soglia critica del 50%.
Di fronte a una crisi epocale cosa si potrebbe fare.
A mio parere le vie sono due.
O si vanno a rivedere per applicarle oggi  a favore del pluralismo ideologico , che circolavano ai tempi del concilio e si accetta l’idea di una chiesa plurale e aperta alla sperimentazione del nuovo.
Ma figuriamoci se oggi la chiesa istituzionale è disposta a vedere sorgere comunità di base, sperimentazioni liturgiche, contestazione dei dogmi eccetera, eccetera.
O gli oscurati, ma non pochi progressisti si fanno coraggio e fanno un passo oltre per superare anche il loro personale attaccamento sentimentale ad una chiesa istituzione, che non trova riscontri logico- razionali.
E si incamminano non contro, ma oltre e fuori dalle strutture esistenti, disconoscendo quindi sia l’autorità dei vescovi che quella del papa.
E’ chiedere troppo? Forse sì, ma c’è il tempo per rinviare scelte radicali?


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