Ha effettivamente vissuto una vita, si diceva una volta nei
suoi ambienti, da “apparatichnik” il vocabolo russo per indicare il burocrate
di partito dedito alla causa e in quella veste ha seguito tutto il più tipico cursus
honorum previsto dal Pci : da assessore
del paesello di origine, su su per la Provincia e la Regione fino al governo nazionale.
Checché se ne dica la carriera politica nei grandi partiti
di massa della prima repubblica produceva una classe politica ben più solida e
affidabile di quella attuale.
Prova ne è il fatto che le statistiche e le indagini
sociologiche certificano che i servizi migliori in Italia si trovano proprio
nelle “regioni rosse”.
Anche se la gestione del potere ininterrotta porta
inevitabilmente con sè la degenerazione in clientelismi e malaffare.
Travolto dagli eventi il Pci, il Pd si è costruito intorno
alla colonna vertebrale degli uomini di apparato ex Pci e D’Alema è sempre
stato il referente del “partito degli assessori “ all’interno del Pd.
Questo fa capire quanto sia stata coraggiosa la scelta di
Bersani di non candidare più D’Alema, in quanto icona della vecchia guardia,
che aveva bloccato per anni l’evoluzione del Pd, ma che era portatore all’interno di quel
partito del potere reale.
Non meno coraggio e determinazione ha dovuto tirar fuori il
segretario per mettere il riga la corte delle seconde linee dai numeri due
Franceschini, Letta e Marino, alla Presidente Rosi Bindi, ai due capi corrente
di peso D’Alema e Veltroni, alla pattuglia dei cattolici moderati di Fioroni.
Tutta gente abituata da anni ad oscurare la figura del
segretario con loro continue narcisistiche apparizioni su ogni tema.
Bersani a un certo momento li ha stoppati ed è stata un’
impresa non da poco.
Poi è apparso Renzi, personaggio abbastanza ambiguo, ma di
grande seguito e accreditato di un grande avvenire.
Bersani ha avuto l’intelligenza di accettare la sfida e di fare
delle primarie aperte e trasparenti.
Ha portato il suo partito al livello più alto di gradimento
ed ha quasi cancellato il berlusconismo.
E’ stata una grande impresa, ma è durata poco.
Renzi ha perso di misura, ma si è incoronato come ovvio
delfino.
Diventato candidato premier, però, Bersani ha evidenziato
tutti i suoi limiti.
Un buon amministratore non è affatto per definizione un buon
politico.
La politica è altra cosa.
Per far politica a quel livello ci vuole anzitutto una
“vision”.
Non basta assolutamente un buon programma.
Il programma deve essere comunicato nella forma di un
“sogno” ,dotato di una prospettiva ideale e sentimentale o più terra a terra deve
saper parlare alla pancia della gente.
Deve saper toccare delle
corde profonde.
E qui Bersani manca di quasi tutto.
Nato nel cattolicesimo sociale, ben assimilato fino a elaborare una tesi di laurea sulla
dottrina sociale della chiesa, che appare in nuce nella patristica cattolica,
ha poi aderito al Pci e qui ha fatto carriera come abbiamo detto sopra.
I riferimenti ideali non gli sono quindi certo mancati, ma
se ne ha ancora, purtroppo oggi non si vedono o non li sa comunicare.
Altra pecca non da poco per un politico a quel livello,
Bersani non sa parlare per niente e meno che meno sa comunicare, non si rende
conto di apparire come un personaggio tetro e noioso.
In America prosperano i corsi di retorica nelle università e
i politici non si vergognano affatto di dedicare lunghe ore a provare davanti
allo specchio discorsi e atteggiamenti.
Da noi purtroppo l’hanno capita solo Berlusconi e Renzi che
il modo di presentarsi conta anche più della sostanza, perché se anche la
sostanza ci fosse ma non si riuscisse ad esternarla non servirebbe a nulla.
Ha però avuto ancora grande coraggio quando ha sparigliato
le carte indicando per le presidenze di Camera e Senato due figure alle quali
non si poteva dire di no, scelte scontentando tutta la sua corte, ma mettendo
così in difficoltà ad esempio i 5Stelle.
Ha avuto il coraggio di costringere il Presidente Napolitano,
notoriamente fautore di una grande coalizione a dargli l’incarico di formare il
governo, pur sapendo che Bersani era ed è contrario a fare maggioranza con
Berlusconi.
Non è cosa da poco, perché ha fatto superare al suo partito
un ennesimo tabù, quello di seguire comunque la politica del presidente
proveniente dalle sue fila.
Ora si è imbarcato in una tattica dilatoria ampliamente
derisa dai potenti media del centro destra, seguiti da praticamente tutta la
stampa, Corriere in testa, tutti
schierati per il governassimo.
Corre effettivamente grandi rischi perché se è vero che
questa tattica mira a causare l’esplosione delle contraddizioni delle altre
forze politiche, cioè all’interno del 5Stelle, fra Pdl e Lega, fra Monti e i
suoi, rischia però di fare esplodere anche lo stesso Pd.
Bersani però ha di fronte un Caimano in incredibile rimonta,
ma che è obiettivamente sempre più un vecchio trombone senza fiato e
soprattutto che si trova alle calcagna gli inquirenti sempre più vicini.
Bersani sembra debole, ma è lui ad avere nelle sue mani
l’asso vincente, che è la scelta di un presidente non avverso al Caimano.
Per Berlusconi il resto non conta niente, la priorità
assoluta è un presidente che sia verosimilmente disposto a procrastinare il suo
redde rationem con la giustizia e che quando inevitabilmente verrà il momento
di condanne implacabili, che sia disposto a dargli la grazia, potere sovrano
solo del presidente.
E’ una carta pesantissima in cambio della quale il Caimano è
disposto a concedere qualsiasi cosa, a pagare qualsiasi prezzo.
Bersani ce l’ha in mano.
Se saprà giocarla bene sta a lui.
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