giovedì 9 maggio 2013

“il nostro fratello Giulio, assolto da ogni colpa, partecipa alla gloria di Dio”





Queste sono le parole pronunciate dall’officiante al funerale di Giulio Andreotti.
Ho l’impressione che anche un bimbetto di catechismo sia in grado di rendersi conto che in queste parole così altisonanti qualcosa non quadra proprio, tanto per cominciare, come può un prete arrogarsi il dritto di sostituirsi al giudizio di dio?
Nel caso particolare, ci sarà certo stato anche l’eccesso di entusiasmo per i potenti, che affligge in particolare la chiesa italiana e la induce così spesso a straparlare a loro favore, ma ci sono anche delle debolezze estreme nella teologia cattolica tradizionale su questa materia, per altro, così importante.

Ci sono almeno due punti di debolezza non superabili, se non ci si decide a cambiare la formulazione teologica tradizionale con qualcosa di più sensato:
Come sempre nel campo della teologia, anche in questa delicatissima materia si è avuta la presunzione di costruire nei secoli delle cattedrali teoriche sulla base di scarsissimi elementi scritturali.
Talmente scarsi nel Vecchio Testamento, che nel campo della esegesi biblica ebraica si ritiene da sempre che non sia affatto pacifico né agevole trovare nella bibbia degli argomenti, che appoggino con sicurezza la teoria della immortalità dell’anima, figuriamoci allora definire una dettagliata teoria del giudizio.
La teologia cattolica, senza disporre di niente di più, a livello scritturale nel Nuovo Testamento, se non pochi accenni indiretti (resurrezione di Lazzaro, scambio di parole col buon ladrone) si è lanciata nella definizione di un giudizio “particolare” al momento della morte, sostenendo che, subito dopo la dipartita, l’anima riceverebbe la ricompensa, la dannazione o l’avvio in un percorso di purificazione (Catechismo della Chiesa Cattolica canone 1021 e seg.-1030 e seg.- 1035 e seg. “dopo la morte discendono immediatamente negli inferi”).
Quindi il buon prete, sincero e probabile incauto ammiratore di Andreotti l’ha sparata grossa affermando addirittura : “partecipa alla gloria di dio”, sul piano del giudizio storico, ma forse non altrettanto sul piano teologico, dove sull’argomento ci si scontra contro definizioni inverosimili, incoerenti e in contrasto fra di loro.
Se prendiamo per buona la definizione dottrinale del “giudizio particolare”, sorge questo primo bel problemino :

1- se il sacerdote X assolve e comunica il fedele Y e questo passa a miglior vita, dio è tenuto ad aprirgli le porte del paradiso nel giudizio particolare?
Il canone 1470 del medesimo Catechismo parla direttamente del sacramento della confessione come “anticipo del giudizio divino”.
Se fosse così, già il “giudizio particolare” sarebbe una formalità umiliante per la dignità di dio, perché in contrasto con qualsiasi definizione dei suoi attributi.
Oppure, al contrario, c’è da ritenere, che al momento del giudizio particolare, salti la legittimazione della mediazione sacerdotale (anche questa tutta basata su costruzioni teologiche debordanti,  appoggiate su debolissime  pezze d’appoggio scritturali), e che quindi , seguendo la massima del diritto romano elementare “ubi maior, minor cessat” , ci si dovrebbe rimette, come vorrebbe il buon senso, al giudizio di dio, che ovviamente potrebbe essere in contrasto a quello sacerdotale.
Se non è così, per difendere il potere della chiesa, occorrerebbe che dio avesse la bontà di emettere ogni volta un giudizio non in contrasto con quello del suo mediatore, per evitare che la teoria della delega di mediazione porti a esiti paradossali, se non illogici come questo.
Per la teologia cattolica tradizionale non è un problema teorico di poco conto, perché se si ammettesse che dio, essendo l’essere perfettissimo, come definito da tutti i catechismi, per sua natura sarebbe ovviamente in grado di vedere anche quello che il sacerdote non ha visto, e quindi di dare un giudizio anche in pieno contrasto con quello del sacerdote.
Ma questa è una via non percorribile perché se la si percorresse  si darebbe un colpo mortale alla credibilità di tutta la teoria della mediazione-delega  sacerdotale, che definisce il ruolo del sacerdote  come titolare di “esercizio dei sacri misteri”, in nome di dio.
Non sviluppo ora questo aspetto per ragioni si spazio, basti dire però che le definizioni teologiche in materia fanno largo ricorso ai concetti di spirito e di mistero e sono invece molto caute nei dettagli.
Come è noto non esiste alcun fondamento scritturale sicuro su presunte deleghe e mediazioni affidate da dio a una classe sacerdotale, mentre al contrario, dal N.T. si evince un atteggiamento molto critico del Cristo sulla casta sacerdotale del suo tempo.
La stessa istituzione della chiesa, se si usano i criteri correnti più elementari di esegesi (presenza dell’affermazione in più evangelisti, affermazione ripetuta o concetto ripreso o meglio sviluppato in altri passi, sua concordanza con l’insieme del messaggio evangelico, sua consistenza logica, presenza nelle fonti più antiche ecc.) ha un fondamento debole, figuriamoci quindi ricercare il fondamento nel dettaglio dei singoli presunti poteri delegati.  

2- Come sappiamo la teologia cattolica tradizionale non si è limitata a definire il “giudizio particolare”, con  gli esiti, sopra descritti, ma, in ossequio ad altri passi scritturali, è stata costretta a definire anche l’esistenza di un successivo “giudizio definitivo”, al ritorno di Cristo, nel giudizio finale (quello dipinto da Michelangelo, per intenderci, Canone 1038 e seg.).
Nasce così un pasticcio imbarazzante, nel quale si avvita una teologia arrogante, che troppo spesso non va d’accordo con la logica.
Ed allora, se come abbiamo visto, il “giudizio particolare” rischia di apparire come una pura formalità, se il fedele e il sacerdote hanno fatto quanto prescritto, figuriamoci la consistenza del “giudizio finale”, che appare ridotto a pura ridondante scenografia.
Ricordo che il mio, pur quotato, insegnante di religione del liceo, per cercare di arrabattarsi fra queste contraddizioni ci ripetè l’ escamotage proposto dalla teologia tradizionale, che consiste in questo argomento debolissimo : che il giudizio finale sarebbe necessario alla fine dei tempi per valutare le conseguenze delle azioni avvenute nel frattempo (fra il giudizio particolare e quello finale) e fece l’esempio delle presunte nefandezze, operate da Lutero, che potrebbero essere viste solo alla fine dei tempi, per essere valutate in tutte le loro conseguenze.
Argomento debolissimo, perché ridurrebbe l’autore del “giudizio particolare” a uno che o non sa cosa sta facendo o che non ha abbastanza autorità per farlo.
Dal momento che il cristianesimo si definisce fino alla noia un monoteismo è lecito per lo meno ipotizzare o definire che il dio che opera il giudizio particolare sia il medesimo attore di quello finale, di dio ce n’è uno solo.
Si possono scrivere dei trattati¸ come si sono scritti, per elencare gli attributi di dio, ma è assolutamente pacifico che dio è universalmente concepito come una entità che conosce il futuro, essendo definito come onnisciente.
Se invece si ipotizzasse il giudizio finale come un vero giudizio e quindi con possibilità di ribaltare la mediazione sacerdotale nella confessione e poi quello particolare, si finirebbe ancor peggio, da un punto di vista logico.
Ci troviamo quindi di fronte alla incongruità della formulazione di un giudizio addirittura a tre livelli : quello del sacerdote come mediatore o delegato che interviene col sacramento della penitenza, quello particolare e quello finale.
Non se ne esce, o si ipotizza solo la possibilità di tre giudizi uniformi, cioè identici, ed allora tutta la costruzione dei tre livelli di giudizio sarebbe inconsistente, insensata, oppure si ipotizza la possibilità di tre giudizi veri e propri e quindi con la potestà di cassare ognuna delle sentenze precedenti, ma allora il sistema a tre livelli ridicolizzerebbe addirittura la dignità di dio, perché sarebbe come riconoscere che lo stesso dio si era sbagliato in uno dei due giudizi precedenti e questa evidentemente sarebbe una insensatezza.
E’ sconcertante rilevare come la teologia tradizionale offra argomenti così poveri in materie di questo spessore e importanza per i fedeli.
E’ facile dire che allora occorre mettere mano a nuove formulazioni della teologia cattolica, ma il compito è parecchio difficile.
Perché per secoli si è prodotto nulla, tutto va ripensato su nuove basi.
E’ talmente radicale la revisione che occorrerebbe fare in questo campo, che è il caso di chiedersi se ne varrebbe la pena o se non sia più produttivo lasciare perdere la teologia e rivolgersi più sensatamente alla filosofia.
Non è un caso che la storia del cristianesimo sia attraversata da secoli dal filone della mistica, cioè da coloro che hanno sempre inteso che il rapporto con dio debba essere diretto , senza mediazioni né sacerdotali né teologiche.
E’ inutile ricordare che una corposa fila di mistici è stata posta all’onore degli altari, anche se probabilmente i fedeli non pratici di teologia non colgono il grave imbarazzo della chiesa gerarchica per queste riconoscimenti.
Le più recenti correnti teologiche sono spesso arrivate alla conclusione che tutta la teologia vada riscritta non solo perché andrebbe orientata non più sul principio di autorità ma sulla ricerca filosofica, sul confronto con le acquisizioni della scienza e così via.
Ma soprattutto hanno sottolineato, che, se si parte dalla concezione di dio come spirito e non dalla concezione infantile antropomorfa del vecchio con la barba, occorre superare la visione tradizionale di un dio persona e avvicinarsi invece alla visione delle filosofie e religioni orientali, molto più antiche del cristianesimo, basate appunto su una concezione di dio come  impersonale.
Se si pensa a questi orizzonti, la vedo dura per i pochi fedeli rimasti, che stando alle indagini in materia sono sopravvissuti perché si sono assemblati una loro teologia personale e quindi sono impermeabili alle mille incongruenze della teologia tradizionale.
Non è un caso che le agenzie religiose, che oggi hanno maggior successo e sviluppo nel mondo , cioè quelle evangeliche, si presentino senza riferimenti dogmatici- teologici, ma accentuando gli aspetti esistenziali di esperienza.
Nelle loro celebrazioni cercano l’effetto della seduta psicanalitica, la liberazione dell’inconscio.
Al di là degli aspetti esteriori a volte folcloristici o dello sfruttamento anche economico a volte operato da furbastri pastori (come è sempre accaduto del resto, anche in casa cattolica) non è detto, che queste tendenze non seguano delle linee, che meriterebbero un serio approfondimento, cioè che non siano più vicini loro a una  proposta del rapporto con dio adatto all’uomo moderno ,che non quello delle agenzie tradizionali, forse ormai decotte.
E i fedeli?
Mi sembra che la cosa funzioni come in politica, se si documentassero un po di più, si accorgerebbero che oggi sono più liberi ed hanno più opzioni, che anni fa nemmeno si sognavano.
Con un po’ di pregiudizi in meno e molti strumenti in più vivrebbero meglio, o almeno questo è il mio parere personale.

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