Queste sono le parole
pronunciate dall’officiante al funerale di Giulio Andreotti.
Ho l’impressione che anche
un bimbetto di catechismo sia in grado di rendersi conto che in queste parole
così altisonanti qualcosa non quadra proprio, tanto per cominciare, come può un
prete arrogarsi il dritto di sostituirsi al giudizio di dio?
Nel caso particolare, ci
sarà certo stato anche l’eccesso di entusiasmo per i potenti, che affligge in
particolare la chiesa italiana e la induce così spesso a straparlare a loro
favore, ma ci sono anche delle debolezze estreme nella teologia cattolica
tradizionale su questa materia, per altro, così importante.
Ci sono almeno due punti
di debolezza non superabili, se non ci si decide a cambiare la formulazione
teologica tradizionale con qualcosa di più sensato:
Come sempre nel campo
della teologia, anche in questa delicatissima materia si è avuta la presunzione
di costruire nei secoli delle cattedrali teoriche sulla base di scarsissimi
elementi scritturali.
Talmente scarsi nel
Vecchio Testamento, che nel campo della esegesi biblica ebraica si ritiene da
sempre che non sia affatto pacifico né agevole trovare nella bibbia degli
argomenti, che appoggino con sicurezza la teoria della immortalità dell’anima,
figuriamoci allora definire una dettagliata teoria del giudizio.
La teologia cattolica,
senza disporre di niente di più, a livello scritturale nel Nuovo Testamento, se
non pochi accenni indiretti (resurrezione di Lazzaro, scambio di parole col
buon ladrone) si è lanciata nella definizione di un giudizio “particolare” al
momento della morte, sostenendo che, subito dopo la dipartita, l’anima
riceverebbe la ricompensa, la dannazione o l’avvio in un percorso di
purificazione (Catechismo della Chiesa Cattolica canone 1021 e seg.-1030 e
seg.- 1035 e seg. “dopo la morte discendono immediatamente
negli inferi”).
Quindi il buon prete,
sincero e probabile incauto ammiratore di Andreotti l’ha sparata grossa affermando
addirittura : “partecipa alla gloria di dio”, sul piano del giudizio storico,
ma forse non altrettanto sul piano teologico, dove sull’argomento ci si scontra
contro definizioni inverosimili, incoerenti e in contrasto fra di loro.
Se prendiamo per buona la
definizione dottrinale del “giudizio particolare”, sorge questo primo bel
problemino :
1- se il sacerdote X
assolve e comunica il fedele Y e questo passa a miglior vita, dio è tenuto ad
aprirgli le porte del paradiso nel giudizio particolare?
Il canone 1470 del
medesimo Catechismo parla direttamente del sacramento della confessione come “anticipo
del giudizio divino”.
Se fosse così, già il “giudizio
particolare” sarebbe una formalità umiliante per la dignità di dio, perché in
contrasto con qualsiasi definizione dei suoi attributi.
Oppure, al contrario, c’è
da ritenere, che al momento del giudizio particolare, salti la legittimazione della
mediazione sacerdotale (anche questa tutta basata su costruzioni teologiche
debordanti, appoggiate su debolissime pezze d’appoggio scritturali), e che quindi ,
seguendo la massima del diritto romano elementare “ubi maior, minor cessat” , ci
si dovrebbe rimette, come vorrebbe il buon senso, al giudizio di dio, che
ovviamente potrebbe essere in contrasto a quello sacerdotale.
Se non è così, per
difendere il potere della chiesa, occorrerebbe che dio avesse la bontà di
emettere ogni volta un giudizio non in contrasto con quello del suo mediatore, per
evitare che la teoria della delega di mediazione porti a esiti paradossali, se
non illogici come questo.
Per la teologia
cattolica tradizionale non è un problema teorico di poco conto, perché se si
ammettesse che dio, essendo l’essere perfettissimo, come definito da tutti i
catechismi, per sua natura sarebbe ovviamente in grado di vedere anche quello
che il sacerdote non ha visto, e quindi di dare un giudizio anche in pieno
contrasto con quello del sacerdote.
Ma questa è una via non
percorribile perché se la si percorresse
si darebbe un colpo mortale alla credibilità di tutta la teoria della
mediazione-delega sacerdotale, che
definisce il ruolo del sacerdote come
titolare di “esercizio dei sacri misteri”, in nome di dio.
Non sviluppo ora questo
aspetto per ragioni si spazio, basti dire però che le definizioni teologiche in
materia fanno largo ricorso ai concetti di spirito e di mistero e sono invece
molto caute nei dettagli.
Come è noto non esiste
alcun fondamento scritturale sicuro su presunte deleghe e mediazioni affidate
da dio a una classe sacerdotale, mentre al contrario, dal N.T. si evince un
atteggiamento molto critico del Cristo sulla casta sacerdotale del suo tempo.
La stessa istituzione
della chiesa, se si usano i criteri correnti più elementari di esegesi
(presenza dell’affermazione in più evangelisti, affermazione ripetuta o
concetto ripreso o meglio sviluppato in altri passi, sua concordanza con
l’insieme del messaggio evangelico, sua consistenza logica, presenza nelle fonti
più antiche ecc.) ha un fondamento debole, figuriamoci quindi ricercare il
fondamento nel dettaglio dei singoli presunti poteri delegati.
2- Come sappiamo la
teologia cattolica tradizionale non si è limitata a definire il “giudizio
particolare”, con gli esiti, sopra
descritti, ma, in ossequio ad altri passi scritturali, è stata costretta a
definire anche l’esistenza di un successivo “giudizio definitivo”, al ritorno
di Cristo, nel giudizio finale (quello dipinto da Michelangelo, per intenderci,
Canone 1038 e seg.).
Nasce così un pasticcio
imbarazzante, nel quale si avvita una teologia arrogante, che troppo spesso non
va d’accordo con la logica.
Ed allora, se come
abbiamo visto, il “giudizio particolare” rischia di apparire come una pura
formalità, se il fedele e il sacerdote hanno fatto quanto prescritto, figuriamoci
la consistenza del “giudizio finale”, che appare ridotto a pura ridondante scenografia.
Ricordo che il mio, pur
quotato, insegnante di religione del liceo, per cercare di arrabattarsi fra
queste contraddizioni ci ripetè l’ escamotage proposto dalla teologia
tradizionale, che consiste in questo argomento debolissimo : che il giudizio
finale sarebbe necessario alla fine dei tempi per valutare le conseguenze delle
azioni avvenute nel frattempo (fra il giudizio particolare e quello finale) e
fece l’esempio delle presunte nefandezze, operate da Lutero, che potrebbero
essere viste solo alla fine dei tempi, per essere valutate in tutte le loro
conseguenze.
Argomento debolissimo,
perché ridurrebbe l’autore del “giudizio particolare” a uno che o non sa cosa
sta facendo o che non ha abbastanza autorità per farlo.
Dal momento che il
cristianesimo si definisce fino alla noia un monoteismo è lecito per lo meno
ipotizzare o definire che il dio che opera il giudizio particolare sia il medesimo
attore di quello finale, di dio ce n’è uno solo.
Si possono scrivere dei
trattati¸ come si sono scritti, per elencare gli attributi di dio, ma è
assolutamente pacifico che dio è universalmente concepito come una entità che
conosce il futuro, essendo definito come onnisciente.
Se invece si ipotizzasse
il giudizio finale come un vero giudizio e quindi con possibilità di ribaltare
la mediazione sacerdotale nella confessione e poi quello particolare, si
finirebbe ancor peggio, da un punto di vista logico.
Ci troviamo quindi di
fronte alla incongruità della formulazione di un giudizio addirittura a tre
livelli : quello del sacerdote come mediatore o delegato che interviene col
sacramento della penitenza, quello particolare e quello finale.
Non se ne esce, o si
ipotizza solo la possibilità di tre giudizi uniformi, cioè identici, ed allora
tutta la costruzione dei tre livelli di giudizio sarebbe inconsistente, insensata,
oppure si ipotizza la possibilità di tre giudizi veri e propri e quindi con la
potestà di cassare ognuna delle sentenze precedenti, ma allora il sistema a tre
livelli ridicolizzerebbe addirittura la dignità di dio, perché sarebbe come
riconoscere che lo stesso dio si era sbagliato in uno dei due giudizi
precedenti e questa evidentemente sarebbe una insensatezza.
E’ sconcertante rilevare
come la teologia tradizionale offra argomenti così poveri in materie di questo
spessore e importanza per i fedeli.
E’ facile dire che
allora occorre mettere mano a nuove formulazioni della teologia cattolica, ma
il compito è parecchio difficile.
Perché per secoli si è
prodotto nulla, tutto va ripensato su nuove basi.
E’ talmente radicale la
revisione che occorrerebbe fare in questo campo, che è il caso di chiedersi se
ne varrebbe la pena o se non sia più produttivo lasciare perdere la teologia e
rivolgersi più sensatamente alla filosofia.
Non è un caso che la
storia del cristianesimo sia attraversata da secoli dal filone della mistica,
cioè da coloro che hanno sempre inteso che il rapporto con dio debba essere
diretto , senza mediazioni né sacerdotali né teologiche.
E’ inutile ricordare che
una corposa fila di mistici è stata posta all’onore degli altari, anche se
probabilmente i fedeli non pratici di teologia non colgono il grave imbarazzo
della chiesa gerarchica per queste riconoscimenti.
Le più recenti correnti
teologiche sono spesso arrivate alla conclusione che tutta la teologia vada
riscritta non solo perché andrebbe orientata non più sul principio di autorità
ma sulla ricerca filosofica, sul confronto con le acquisizioni della scienza e
così via.
Ma soprattutto hanno
sottolineato, che, se si parte dalla concezione di dio come spirito e non dalla
concezione infantile antropomorfa del vecchio con la barba, occorre superare la
visione tradizionale di un dio persona e avvicinarsi invece alla visione delle
filosofie e religioni orientali, molto più antiche del cristianesimo, basate
appunto su una concezione di dio come impersonale.
Se si pensa a questi
orizzonti, la vedo dura per i pochi fedeli rimasti, che stando alle indagini in
materia sono sopravvissuti perché si sono assemblati una loro teologia
personale e quindi sono impermeabili alle mille incongruenze della teologia
tradizionale.
Non è un caso che le
agenzie religiose, che oggi hanno maggior successo e sviluppo nel mondo , cioè
quelle evangeliche, si presentino senza riferimenti dogmatici- teologici, ma
accentuando gli aspetti esistenziali di esperienza.
Nelle loro celebrazioni
cercano l’effetto della seduta psicanalitica, la liberazione dell’inconscio.
Al di là degli aspetti
esteriori a volte folcloristici o dello sfruttamento anche economico a volte
operato da furbastri pastori (come è sempre accaduto del resto, anche in casa
cattolica) non è detto, che queste tendenze non seguano delle linee, che
meriterebbero un serio approfondimento, cioè che non siano più vicini loro a
una proposta del rapporto con dio adatto
all’uomo moderno ,che non quello delle agenzie tradizionali, forse ormai
decotte.
E i fedeli?
Mi sembra che la cosa
funzioni come in politica, se si documentassero un po di più, si accorgerebbero
che oggi sono più liberi ed hanno più opzioni, che anni fa nemmeno si
sognavano.
Con un po’ di pregiudizi
in meno e molti strumenti in più vivrebbero meglio, o almeno questo è il mio
parere personale.
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